Il maialino perso all’ospedale

Metadiario – 280 – Il maialino perso all’ospedale

Non trovavo nulla di meglio che interrompere qualunque attività fisica, nella speranza che il riposo favorisse la diminuzione dei miei dolori. Ma ci pensò il destino a farmi pensare ad altro. Si dice che “chiodo scaccia chiodo” e mai come in questo caso fu più vero.

Un giorno di febbraio erano stati a casa mia Carlo Zanantoni e Claudio Picco, entrambi Accademici del CAI. In quell’incontro nacque ciò che poi fu chiamato “Osservatorio per le Libertà in montagna”. La storia di questa iniziativa non è ancora terminata oggi (2025), anche se ormai il nome è praticamente lettera morta. L’iniziale raccolta adesioni (che si svolse in autunno 2011 grazie ad un solo questionario pubblicato su Lo Scarpone) assommò quasi duemila sottoscrizioni: eppure, a dispetto dei nostri sforzi, il CAI non spinse mai sull’acceleratore, i presidenti che si sono avvicendati sono sempre stati ambigui e alla fine tutto si spense nel generale immobilismo. Dopo Controscuola, una seconda grande delusione per me (e per quegli altri pochi che ci hanno infuso tante energie).

Da febbraio 2011 apparve chiaro che le nostre manovre per avere la curatela e realizzare quattro mostre a Cervinia presso la Casa delle Guide stavano andando a buon fine. Il contratto sarebbe stato firmato, dopo una serie di lungaggini infinite, solo il 3 agosto. Nel 2012 sarebbe stata la volta del Polo Nord (spedizioni Monzino del 1969, 1970 e 1971); nel 2013 il tema sarebbe stato l’Everest, la prima italiana del 1973; nel 2014 il K2, prima ascensione del 1954; e infine (2015), in occasione del centenario della conquista, il Cervino. Accanto a queste quattro dovevamo anche allestire una mostra permanente sulle guide nella capanna Luigi Amedeo di Savoia, quella originale piazzata da qualche tempo accanto alla Casa delle Guide.

25 giugno 2011, Passo Pordoi, Assemblea Montana. Da sinistra, Piero Simone, Albero Angeloni, Alessandra Carboni, Andrea Bavestrelli, Gian Luca Moro, Lorenzo Nettuno, Giovanni Songini, Alberto Fioroni, Laura Conti, Alessandro Gogna.
Elena e Petra a Berlino, Französischer Dom, Gendarmenmarkt

Con Alessandra si svolgevano a pieno ritmo anche i lavori necessari per il libro Insieme in vetta. Le cordate di cui scrivere erano venti. A parte le ricerche storiche dedicate a quelle i cui membri erano morti da poco o da tempo, gran daffare c’era per contattare i vari Joe Brown, Robert Paragot, Lothar Brandler, Dietrich Hasse, Armando Aste, Franco Solina, Tom Frost, Royal Robbins, Josep M. Anglada, Jordi Pons, Reinhold Messner, Heinz Mariacher, Luisa Iovane, Patrick Gabarrou, Maurizio Giordani, Rosanna Manfrini, Alexander e Thomas Huber, Ermanno Salvaterra e Alessandro Beltrami.

Davanti al Reichstag di Berlino
Berlino, Monumento in memoria dell’Olocausto

Da aprile ripresero pure i lavori per la realizzazione del libro sulle Guide alpine di Ayas. K3 Libri in Cordata era anche impegnato nella curatela e redazione della collana Campo Quattro (Priuli&Verlucca). Dopo il mio La verità obliqua di Severino Casara nel 2009 erano usciti Il meglio degli anni Sessanta. L’alpinismo della Rivista del CAI (Gogna e Raggio) e Il movimento dell’arrampicata, di Antonio Bernard (purtroppo, a dispetto della qualità, un vero e proprio flop). Nel 2010 fu la volta di ben tre uscite, Oltre la Montagna di Steve House, Colpevole d’alpinismo di Denis Urubko e Il meglio degli anni Trenta. L’alpinismo della Rivista del CAI (Gogna e Raggio). E per quest’anno 2011 era prevista l’uscita di Tempesta sul Manaslu, di Reinhold Messner.

Elena “alleggerisce” il momento
Berlino, Elena sulle scale mobili dell’Hauptbahnhof (stazione centrale)

Beghe tra guide
Le tensioni nell’ambito delle Guide Alpine continuavano. Riporto qui due importanti mail di quel periodo. La prima era di Lorenzo Merlo (21 febbraio):
Cari accompagnatori e care guide, le reazioni alle “dimissioni di Michele Comi” degli accompagnatori sono superiori a quelle delle guide. La cosa permette di pensare, oltre che alla loro maggior dimestichezza con l’intelletto scritto, anche ad una loro maggior sete di partecipazione.
A noi guide forse ciò che abbiamo o crediamo di avere, ciò che siamo o crediamo di essere, è vissuto come un fatto dovuto. Diversa è la psicologia degli accompagnatori. Forse vivono la loro professione nel divenire. Forse vivono la loro professionalità da mantenere, dopo averla vissuta da conquistare. Forse ritengono che per migliorare ci sia da mettersi in discussione.
Ricordo che le nostre autorità mi facevano presente che noi guide avevamo fatto gli accompagnatori proprio per poterli controllare. 
Ricordo che quando rispondevo loro che avrebbero dovuto avere il diritto di voto, vedevo nelle loro espressioni la ricerca di superare l’impasse almeno lasciando cadere la domanda.
Non dico queste cose per denuncia – era lapalissiano – lo dico per fare presente a quegli accompagnatori che in queste “dimissioni di Michele Comi”, nelle loro reazioni, si sono avvicinate al punto del diritto di voto senza però – a mio avviso – trattarlo a dovere.
Considerando la disponibilità e soddisfazione degli accompagnatori per questo o quel direttivo, considerando l’attenzione che il presente direttivo ha dedicato agli accompagnatori (almeno rispetto al precedente e stando a quanto si legge nelle loro attuali note alle “dimissioni di Michele Comi”), considerando che la vera parità sta nel diritto di voto e considerando che nonostante la disparità nessuno ha ritenuto di esprimere qualcosa di sostanziale in proposito, si può pensare che il controllo degli accompagnatori se prima avveniva a a mezzo x ora avviene a mezzo y. 
Non so la posizione di Michele Comi su questo aspetto. Parte delle sue dimissioni derivano anche dalla volontà di prendere le distanze da politiche di controllo non proprio eticamente plausibili? Sebbene, naturalmente, del tutto autorizzate dalle leggi in essere.
Le reazioni alle “dimissioni di Michele Comi” mettono in luce la differente gestione, da parte dei direttivi,  degli accompagnatori. Penso sia strategia di tutti noi lavorare a favore di qualcosa o qualcuno per ottenerne l’accondiscendenza. Se così fosse, non resta che rimanere in attesa per vedere a cosa l’accondiscendenza degli accompagnatori possa tornare utile al direttivo. Resta da rimanere in attesa se in questa occasione “direttivo” non possa essere considerato una stregua di sinonimo di “guide”. Cioè se tutto questa attenzione di fatto non sia strumentale alle guide. Non alludo a dubitare delle trasparenti intenzioni dell’attuale amministrazione, aspiro solo a esprimere un’eventualità sulla quale il tempo ci darà risposta. Oppure anche solo una mail. 
Forse sto dando il via libera a coloro che non aspettavano altro che l’opportunità per esprimere qualcosa a loro caro, esattamente come ora accade a me. Ma queste considerazioni non sono per amore di dietrologia, né sono contro qualcuno o qualcosa, né sono nate ora. Sono perciò considerazioni che, almeno nelle loro intenzioni, vogliono trattare le persone e le cose by fair means. Sono semplicemente le mie considerazioni: non sono un accompagnatore felice del proprio direttivo, né una guida ansiosa di schierarsi. Semmai uno qualunque con alcune delle idee possibili.
Per quanto dire che è argomento delicato è dire poco, mi permetto – sperando di avere la vostra accondiscendenza – una considerazione sulla questione dell’accompagnatore e dell’incidente in ferrata.
Quando lessi la mail di “dimissioni di Michele Comi”, a proposito del fatto “delicato”, non ebbi la sensazione che Michele volesse esprimere una denuncia nei confronti dell’accaduto o dell’accompagnatore presente al momento dell’incidente. Mi era sembrato che avesse citato il fatto per sostenere la denuncia di insoddisfazione nei confronti del direttivo. Una insoddisfazione che era tanto estesa al punto da arrivare a tenere in considerazione che, un direttivo così, sarebbe forse stato capace di evitare di trattare un fatto tanto importante, a favore di qualche ragion di stato.
Mi sembrava infine che Michele Comi citasse l’incidente proprio per arrivare a poter chiedere tutte le delucidazioni necessarie. Non mi è sembrato un atto di accusa nei confronti di alcunché, semmai appunto un ulteriore momento di critica su se stesso, sul direttivo stesso. Oppure qualcuno pensa che Michele Comi o chiunque altro possa accusare o dare contro qualcuno pur con la consapevolezza dichiarata di non sapere come si sono svolti i fatti?
Gli equivoci sono insiti nella comunicazione, o almeno nel tentativo di comunicare. Prendere alla lettera è spesso origine degli equivoci. Ascoltare il sentimento che ha prodotto certe affermazioni permette maggiormente di avvicinarsi allo spirito con il quale sono state scritte o dette. Permette di cogliere il segno, quindi lo spunto e l’apporto che il nostro interlocutore può offrirci, fosse anche un ortolano. Naturalmente con il grado di dimestichezza con l’intelletto scritto o parlato che ognuno di noi ha. Naturalmente senza dimenticare che un poeta può esserlo anche se analfabeta. Grazie per l’ascolto”.

Berlino. Lo shopping di Petra a Tacheles, Oranienburgerstrasse.
Berlino. Petra a Tacheles, Oranienburgerstrasse.

Fece seguito (22 febbraio) una mail di Giuseppe Miotti, nella  quale si possono già ravvisare i malesseri che lo condussero, qualche anno dopo, alle dimissioni da Guida Alpina:
Carissimi, l’ultima missiva, quella di Merlo mi induce a portare un contributo.
Molti giorni or sono ho ricevuto la relazione di Comi. Qualcuno fra i presenti all’assemblea mi ha detto che vi è stata un po’ di maretta ma non ho dato peso alla cosa.  Poi sono stato inondato da e-mail che francamente mi hanno lasciato un po’ sorpreso.
Mi pareva infatti che Comi, pur con toni criticabili, avesse detto cose ragionevoli: nessuno a questo mondo è insostituibile e forse una rotazione di responsabilità e operatività sarebbe salutare anche correndo il rischio di qualche falla.
Inoltre ho sempre ritenuto l’esistenza dei collegi (non solo il nostro) come un grave sintomo di scarsa cultura liberale e più che altro luogo ove perpetuare rendite più o meno grandi di posizione. La cosa migliore sarebbe dare libertà al professionista di iscriversi o meno al Collegio o all’Albo anche in base alla qualità del servizio che potrebbe essergli offerto.
Lo stesso cosa vale per quanto concerne gli organismi tecnici: l’impressione che esistano ormai guide e super guide, come scrisse qualcuno a suo tempo, è sempre più palpabile e non sono sicuro che la cosa sia positiva.
Una volta, ad esempio, correggetemi se sbaglio, gli istruttori erano scelti nel contesto dei colleghi migliori e più attivi e c’era parecchia turnazione.
Forse tecnicamente il metodo era meno efficace, ma c’era molta più umanità, molto più spirito di famiglia nella comunicazione, anche di quello che voleva dire essere una Guida.
Oggi c’è un gruppo di eccellenti super professionisti “estremofili” che hanno portato gli standard tecnici a livelli sempre più stellari, ma la cosa sembra accompagnarsi anche ad un rarefarsi degli aspetti umani. Non dimentichiamo mai l’aspetto umano.
Da anni vedo profilarsi una silente involuzione della nostra figura, sempre più imprigionata in tecnicismo esasperato condito da sigle, certificati, omologazioni e balle varie e su questo argomento vorrei essere più specifico di Michele.
Trovo infatti, che parte qualche eccezione, nella vicenda delle Alpi abbiamo un peso specifico veramente irrisorio dal momento che siamo culturalmente uno zero o quasi. Se ci si accontenta di fare i manovali va bene, ma il valore della nostra figura, compresa quella degli accompagnatori, ci consentirebbe di aspirare a qualcosa di più…
L’impressione è che stiamo ossessivamente continuando a guardare solo in una direzione, ma che siamo già da tempo stati superati dall’altro lato.
La nostra credibilità non va oltre il mero aspetto tecnico e credo invece sia giunto il momento che la nostra professione entri nella storia delle Alpi non solo come distante (anche se “mitica”) icona di un modo di vivere la montagna, ma anche come testa pensante, coscienza attiva e proponente
o all’occorrenza antagonista. In altre parole come membro costruttivo del futuro delle Alpi.
Facciamoci conoscere non solo per i nostri programmi e le nostre abilità: cose da dire ne abbiamo eccome.
Insomma, basta pensare a salvaguardare egoisticamente la professione tacendo per convenienza o supposta tale,su vari argomenti di scottante attualità come ad esempio quello ambientale nei suoi vari aspetti.
Bisogna essere più attivi e presenti per non subire a posteriori scelte fatte da altri sul territorio (vedi faccenda SIC) che è la fonte principale del nostro lavoro.
Ciò significa anche non essere più timidi interlocutori della politica, ma diventare noi stessi fautori di una politica (amministrazione della “polis”, le Alpi, per il bene di tutti) che ci renda partecipi dei processi in atto sul territorio.
Anche gli accompagnatori, professionisti a cui invidio preparazione culturale e attivismo e che considero di miei pari grado, non dovrebbero essere soggetti ad umilianti manipolazioni o forme di controllo di tipo strategico o “politico”. Per come la vedo io però, se un giorno vorranno staccarsi che se ne vadano pure. La cosa mi spiacerebbe molto perché vedo nella figura dell’accompagnatore molta bellezza, ma in fin dei conti è una questione di libere scelte.
Abbiamo scelto la nostra strada cercando la libertà, non vedo perché negarla a noi stessi e ai nostri colleghi, non vedo perché imprigionarla seguendo pedissequamente le logiche di un sistema che sta autosoffocandosi.
Quello che propongo è un percorso lungo che andrebbe gestito a livello nazionale e che sicuramente richiederebbe di investire diversamente denaro e finanziamenti. Ad esempio manca un nostra presenza periodica sotto forma, che so io, di un annuario o una rivista nazionale che dia voce alla professione nei suoi vari aspetti e magari sia accessibile anche al grande pubblico. Ma questa è solo una delle tante possibilità: queste quattro righe non esauriscono quello che ho in testa e che potrebbe essere sviluppato e migliorato grazie al contributo di tanti colleghi. Probabilmente altri le liquideranno come inutili sofismi o esercizi retorici di uno che non fa propriamente la Guida, che, insomma, non è sul pezzo.
Non entro nel merito dell’incidente sulla via ferrata, ma forse parlarne avrebbe giovato. Anche in questo caso non mi piace che si inneschino meccanismi troppo corporativistici. Non diventiamo come i medici degli ospedali che in molti casi si spalleggiano per coprire gli errori l’uno dell’altro a danno del paziente.
E’ vero, è sempre spiacevole giudicare o, peggio ancora, sentirsi giudicati, ma senza per questo far mancare la nostra solidarietà e il nostro aiuto mi pare importante riconoscere e analizzare gli eventi e anche gli errori per poterne trarre utili strumenti per il futuro.
Chiedo scusa a tutti, sapete che non sono uno che partecipa molto, ma in questo caso mi premeva esprimere un’opinione, fornire una mia visione, anche se forse da molti ritenuta utopistica, del possibile futuro
”.

Berlino, 26 giugno 1963. Il discorso di John Kennedy.

A marzo iniziarono problemi con la prostata, venni in contatto con il dr. Vincenzo Scattoni che alla seconda visita mi prescrisse una biopsia.
Questa è la mail che spedii alla mia assicurazione:
Spett. Inter Partner Assistenza Servizi S.p.A., in seguito all’esame di biopsia che ho fatto all’ospedale San Raffaele di Milano in data 14 aprile 2011, mi è stato diagnosticato adenocarcinoma alla prostata Gleason 6 (3+3) su tutti i sestanti (2-15%). In allegato il referto “biopsia0001” in pdf.
Come terapia è stato concordato intervento chirurgico di prostatotectomia, sempre all’Ospedale San Raffaele di Villa Turro, Milano, via Stamira d’Ancona, 20. L’intervento è previsto per il 4 luglio 2011, con ricovero il 3 luglio 2011
”.

Elena e Petra sotto ciò che resta del Muro di Berlino, East Side Gallery
Berlino. Haus der Kulturen der Welt, Tiergarten.

I sogni del prima
(1) (20 marzo). Devo stampare una ventina di cartine in modo che per ogni capitolo differente possa avere sempre davanti la cartina giusta senza aprirla ogni volta con il computer. Questo tipico lavoro di organizzazione mentale mi riportava al tempo dei lavori con Priuli (Grandi Spazi, anni ’90, o forse primi anni del Duemila, dopo poco vedo che c’è anche Guya. C’è anche un’altra persona (uomo, non ricordo chi, ma lavorava con me) e Gherardo Priuli. Lui si lascia andare a giudizi che ritengo bigotti e stupidi sull’omosessualità.

– Lei deve perfino dimenticare il concetto di omosessuale! – gli sentenzio ribellandomi con molta serietà (pensando di essere veramente nel giusto). E intanto guardo Guya, come cercando la sua approvazione.

Petra a Berlino, Tiergarten, Siegessaeule
Berlino, Schloss Charlottenburg

Priuli allora ricorre all’esempio di Ermanno Salvaterra (me ne ero occupato da poco nel lavoro delle cordate) che “girava con molta attenzione che non lo prendessero da dietro” (mai sentito un episodio del genere): se “uno come lui” deve fare questo… concludeva Priuli…

– Questa è davvero acuminatezza mentale! – gli dico, con il doppio senso di “acuminato” e quindi “ricco di acume” ma anche “spigoloso e non disposto al dialogo”.

E intanto guardo Guya, come cercando ancora la sua approvazione. Sono sicuro di essere nel giusto e che lei condivida.

Berlino, Petra in visita a Schloss Charlottenburg
Berlino, Tresor

Priuli ovviamente non coglie questa sottigliezza, la prende quasi per un complimento, io sono un po’ a disagio mentre lui cerca di dirmi che anche lui ogni tanto “beve” (alcol), quando ritiene di averne bisogno. In tutto questo la quarta persona tace.

(questo sogno è stato fatto esattamente il mattino in cui prevedevo una giornata intensa, dopo quella del giorno prima, a lottare con un problema del pc che ostacolava il normale lavoro con Alessandra Raggio, una lotta piena di ansia, nel poco tempo che ci rimaneva per consegnare il 31 marzo il nostro lavoro sulle cordate. Francamente mi sembra di aver capito davvero poco da questo sogno…).

Guya in vetta alla Tofana di Mezzo, 26 agosto 2011
I cento anni del rifugio Antermoia, 28 agosto 2011

(2) (10 aprile). Sogno di scalare la Nord-est del Pizzo Badile con Angelo Recalcati, il “camoscio” che senza tecnica alcuna e slegato supera anche il III+, poi invece, legato, ha difficoltà sul V.
Saliamo qualche lunghezza di corda, davanti a noi sono altri che ogni tanto provocano qualche caduta di sassi. Abbiamo il casco e ci raggomitoliamo per lasciar passare i sassi che cadono. È pericoloso.
Ricordo quando ero qui d’inverno, 1967-68, non era così pericoloso anche se adesso è tutto quasi facile.
Non so perché, ma propongo ad Angelo di andare slegati. Saremmo sicuramente più veloci. Lui accetta e mi segue.

Rifugio Antermoia, 28 agosto 2011. Da sinistra, Almo Giambisi, il precedente custode e Marco Benedetti.

Dopo un centinaio di metri devo aspettarlo perché non lo vedo più. Quando ricompare, per raggiungermi deve scendere qualche metro. Qui cade e io, che sono subito sotto, lo trattengo.
Lui si scusa, dice che non succederà più. Ma io decido che è meglio che ci rileghiamo. Ora, legati, andiamo su per un tratto veramente facile, praticamente un sentiero, che porta ad un’altra zona della parete, quella significativa. Ci affacciamo ad un intaglio e vediamo sotto di noi il ghiacciaio e la parete. Faccio fatica a riconoscerla, direi quasi che non è lei. Inavvertitamente smuovo anch’io qualche sasso che precipita di sotto sul ghiacciaio. Spero che quelli che ci seguono non siano proprio qui sotto. E infatti li vedo più a destra, per fortuna. E non sembrano neppure arrabbiati che qualcuno sia stato così maldestro (del resto anche loro, prima, lo erano stati). Dovremo scendere anche noi, percorrere il ghiacciaio e finalmente attaccarci alla parete vera e propria, come se quello che abbiamo fatto finora fosse stato solo un approccio.

(mi sembra di intravvedere la fondamentale inutilità di quella scalata, quel modo di fare alpinismo non fa più per me? E’ davvero tutto da rifare oppure devo rinunciare?).

Rifugio Antermoia, 28 agosto 2011, Alberto Dorigatti

(3) (14 aprile). Sogno diurno, sonnecchiando al San Raffaele prima della biopsia. Mi danno un maialino in prestito, più che altro il compito di accudirlo. Lo metto in una strana gabbia di vetro, una specie di enorme acquario con però sul fondo ha la ciotola del cibo. Faccio entrare il maialino, poi non so perché riempio la costruzione d’acqua, come a farla appunto diventare un grande acquario. Il maiale è a galla, ma allora mi rendo conto che non potrà mai mangiare il cibo che è sul fondo, povera bestia. Così svuoto l’acquario in modo che rimanga solo pochissima acqua.

Poi però, non so per quale motivo, apro la porticina per sistemare qualcosa all’interno. Ed è così che il maialino scappa e non riesco a trattenerlo. Lo rincorro, lui si rifugia in un insieme di locali che potrebbe assomigliare a un ospedale, con varie camere piene di oggetti dove lui potrebbe nascondersi. Ispeziono camera per camera ma non lo ritrovo, cresce l’ansia e il timore di doverlo pagare se non lo riacchiappo. Mi sveglio, ben sollevato nel capire che era solo un sogno.

(il maialino è il mio inconscio che tartasso con inadeguate attenzioni e cure inani. Si rifugia in ospedale e purtroppo sarà lì che dovrò ritrovarlo, con fatica e sofferenza).

Rifugio Antermoia, 28 agosto 2011, Sergio Martini

Berlino
In previsione dell’operazione, proposi a Petra ed Elena di fare un viaggio assieme a Berlino tra giugno e luglio.
Avevo bisogno del loro conforto, ma allo stesso tempo non volevo far pesare la cosa. Una gita a Berlino di solo noi tre sarebbe stata uno spasso anche nelle mie condizioni.

Non ci risparmiammo, anche se non furono molti i luoghi da noi visitati. Ci interessava di più respirare la famosa atmosfera di Berlino che vedere a tutti i costi i luoghi canonici. Ci rilassavamo, tra un episodio e l’altro, in una caffetteria della famosa catena Starbucks, che non conoscevo. Una sera al crepuscolo (e poi al buio) assistemmo a un concerto su una collina dove si erano radunati migliaia di ragazzi e fu davvero magico.

La parete sud del Piz da Lec de Boè

Mi colpì molto la registrazione video (conservata in un museo) del celebre discorso tenuto il 26 giugno 1963 dall’allora presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy. Carico di pathos e di verità aveva rappresentato uno dei momenti più importanti della guerra fredda. Elena e Petra avevano letto con attenzione le didascalie e conoscevano la situazione di quel momento storico. L’espressione passata alla storia “Ich bin ein Berliner” (io sono un berlinese), con la quale Kennedy aveva ribadito con forza la vicinanza del suo Paese agli abitanti di Berlino Ovest, ci provocò dei brividi.

Il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa (Denkmal für die ermordeten Juden Europas), conosciuto anche come Memoriale dell’Olocausto, fu un altro momento intenso. Impressionante nella sua grigia sobrietà e geometrico rigore, ci aggiravamo nel labirinto di corridoi tra i parallelepipedi di cemento, sgomenti.

Piz da Lec de Boè, via Dorigatti-Giambisi. Elena Mozzati, 4a L, 29 agosto 2011.

Ma, per controbilanciare, ci fu la puntata al Tresor, in Kopenicker Strasse. Questo nightspot  era famoso, già dai suoi inizi nel 1991, nei vecchi grandi magazzini Wertheim in Leipziger Platz. Nel 2007 si era trasferito appunto in Kopenicker Strasse, in un seminterrato su tre piani di un’ex centrale termica abbandonata, la Heizkraftwerk Mitte. Petra ed Elena erano veramente eccitate all’idea, ne avevano sentito parlare dagli amici.
All’ingresso c’erano due buttafuori che chiesero i loro documenti, perciò si accorsero subito che Elena non aveva ancora compiuto i 17 anni.
– E’ con me, sono suo padre – dissi in inglese.

Piz da Lec de Boè, via Dorigatti-Giambisi. Elena Mozzati sotto al tiro chiave. Sopra di lei, Renata Mozzati. 29 agosto 2011.

Quelli non ci credevano, dovetti mostrare loro anche il mio documento di identità. Ci fecero notare che l’ingresso non era permesso ai minori di anni 18, ma alla fine ci fecero passare. Scesa una rampa di scale, alla fioca luce di qualche lampada sopravvissuta alla Germania Est, cominciammo a sentire una vaga musica ritmata. Sembrava di essere nei corridoi di servizio di qualche diga, mancavano solo le gocce d’acqua piovere dal soffitto. Molto spartano, c’erano alcuni armadietti antiquati dei vecchi grandi magazzini Wertheim. Progredendo verso la musica fummo invasi da una nebbia di vapore assai densa. L’atmosfera era cupa e il tipo di musica martellante lo sottolineava: le rovine della vecchia centrale termica trasmettevano un’immagine inquietante, le enormi porte a graticcio in acciaio completavano l’immagine della vecchia fabbrica, anche se, a causa della forte nebbia e della poca luce nel club, non se ne vedeva molto. Capimmo che il locale era un labirinto di corridoi di cemento che si trasformavano in stanze interrate e spazi per eventi.

Piz da Lec de Boè, all’uscita della via Dorigatti-Giambisi. Da sinistra, Elisabetta Mallucci, Giorgio Mallucci, Alessandro Gogna, Renata Mozzati, Luca Mozzati, Elena e Marta Mozzati. 29 agosto 2011.

Alla fine arrivammo alla sala da ballo, se possibile ancora più nebbioso, dove lo stroboscopio e i raggi laser colorati creavano effetti di luce variopinti. L’aspetto post-industriale di quell’ambiente si sposava perfettamente con il sound crudo e intenso della techno di Detroit. Avevo letto che Jeff Mills (Underground Resistance), Mike Banks, Joe “Energy Flash” Beltram, Kenny Larkin, Westbam, Juan Atkins, Tanith, Marusha e persino Blake Baxter si erano occupati del sound speciale.

Sulla pista si agitavano una quarantina di figure confuse, Elena e Petra vi si buttarono senza esitare, mentre io rimanevo in un angolo a osservare quella follia. Dopo neppure un minuto, Elena mi venne a cercare e mi trascinò per mano nel bel mezzo della mischia. Mi presentò un ragazzo, alto e sorridente: era Matteo Bramani, il figlio di Marco, l’Amministratore Delegato della Vibram. I due erano amici, ma non sapevano delle rispettive visite a Berlino, Matteo era lì con dei compagni e viaggiavano in treno.

New Mexico, Albuquerque. Da sinistra, Brady, Guya e Simona

Mi agitai anch’io con loro per una decina di minuti al ritmo della techno, ma poi abbandonai la pista più che altro perché non era una musica per la quale mi fossi mai strappato le vesti. Preferii osservare il dj, asserragliato dietro una spessa grata di metallo, anche lui immerso nel suo mondo in cuffia e nella nebbia che cambiava continuamente colore. Verso le due di notte mi sedetti a un tavolino a sorseggiare un drink (non ricordo quale). La musica era ossessiva, occorreva lasciarsene prendere lasciando da parte il rifiuto culturale e sensorio. Un tizio mi si avvicinò e mi chiese senza mezzi termini se volevo della cocaina. Al mio gentile rifiuto mi sorrise e si mise anche lui appartato ad un altro tavolino, senza importunarmi più. Uscimmo dal locale verso le quattro.

Simona e Guya fanno shopping ad Albuquerque

Alla ricerca del maialino
Due giorni dopo fui ricoverato, ma al San Raffaele di via Olgettina, la strada di berlusconiana memoria. Risparmio al lettore la descrizione dell’attesa, degli esami, della rassegnata accettazione dell’intervento, del risveglio e delle impacciate manovre riabilitatorie.
Questa è la lettera di dimissioni:
Dimettiamo in data odierna il Paziente, ricoverato presso il nostro Istituto in data  luglio 2011 con diagnosi di Adenocarcinoma della prostata, grado 6 (3+3) di Gleason. […]. In data 7 luglio 2011 il paziente è stato sottoposto a intervento chirurgico di prostatectomia radicale e linfoadenectomia pelvica.  Il decorso post-operatorio è stato regolare. Il paziente viene pertanto dimesso apiretico in buone condizioni generali e con catetere vescicale a dimora. Il Referto istologico riferiva di Adenocarcinoma bilaterale della prostata esteso al 10% circa del parenchima, grado 7 (4+3) di Gleason, infiltrante focalmente i tessuti extracapsulari a sx e la vescicola seminale dx, indenni da neoplasia i margini di resezione del pezzo operatorio (esaminato in toto).  Indenni da neoplasia i linfonodi otturatori e iliaci destri e sinistri, i margini di resezione vescicale. pT3b pN0 (TNM ed. 2009), stadio C2 (American Staging System)”.

Alessandro e Simona a Santa Fe, New Mexico

La convalescenza fu regolare ma non fu certo una passeggiata. Il 10 luglio, altro sogno importante:
“Sono stato appena operato, ho ancora i drenaggi e il catetere, mi riapproprio del mio vecchio furgone Volkswagen arancione (non lo avevo più da anni, il sogno mi riporta agli anni Ottanta), che era mal posteggiato. Non voglio far vedere alla polizia di essere così, cerco di guidare guardingo, ma non tutto va bene, ci sono intoppi.
Poi sono con amici torinesi a Torino, posteggio il VW in leggera salita, in vicinanza di un incrocio. Vado con loro a piedi verso non ricordo più cosa, al ritorno ci salutiamo ma io non ritrovo il VW che credevo essere vicino all’incrocio. Passo infatti l’incrocio a piedi, quasi di corsa per via del traffico disordinato, ma non trovo il mio mezzo. Mi viene il dubbio che non sia l’incrocio giusto. Ansia. Con me porto dei bagagli non pesanti ma un po’ ingombranti, che io per primo giudico non essenziali. Mi ritrovo in una banca tedesca dove però non devo fare operazioni bancarie, devo solo rimettermi a posto, ho del disordine nelle mie cose, forse in me stesso. Trovo persone gentili, che tra l’altro parlano diversi dialetti italiani, ma nessuno è in realtà lì per aiutarmi né io ho chiesto nulla a loro (il riferimento alla banca di Berlino dove il 29 giugno ero stato preso dall’ansia per non poter avere contanti è evidente. Avevo veramente dimenticato a casa i codici pin della mastercard e del bancomat per l’estero). In qualche modo riesco a uscire dalla banca, dove mi sentivo molto abusivo e torno a cercare il VW che però proprio non trovo. Ritrovo invece alcuni dei miei amici torinesi che però non sembrano potermi offrire molto aiuto (stanno salendo su un tram). Ancora ansia, con i miei bagagli, solo in giro per Torino.
(ancora bagaglio inutile, in mezzo a una città che aveva significato molto per me: probabilmente ero chiamato a mollare quel mondo e non mi decidevo).

Guya nel piccolo canyon di Kasha-Katuwe Tent Rocks

E il 22 luglio altro sogno:
“Non so come, ma Guya e io arriviamo al rifugio sotto lo Scarason in auto (cosa in realtà non possibile).
Il rifugio non è come dal vero, ma è uguale a come l’ho già sognato un’altra volta, con tanto di custode che pretendo di conoscere appunto perché ci sarei già ritornato (il rifugio Garelli nel 1967 non aveva custode, poi non ci sono mai più tornato realmente). Appena arrivati vediamo anche il custode, che non mi riconosce.  Gli dico che sono cinque anni che non ci vediamo (facendo riferimento alla mia visita precedente, in realtà inesistente, fatta per la lavorazione dei Grandi Spazi delle Alpi che, volendo essere pignoli, se fosse stata fatta risalirebbe a 15 anni prima, e non 5! Dunque probabilmente ci riferiamo a uno iato di 10 anni). Capisce chi sono solo quando faccio vedere a Guya l’incombente parete dello Scarason, dicendo che è la più bella parete del mondo. Poi presento Guya a lui.
Il custode è gentile e parliamo di varie cose, mi fa vedere un po’ come il rifugio è costruito, poi mi mostra che ci sono delle cordate in parete. Guardando in alto vedo come dei festoni fatti a cuore, non capisco cosa sono, se corde o altro, sembra che l’effetto sia dovuto alle nuove tecniche più evolute… Sembra stiano salendo un nuovo itinerario.

Mi dice che ci sono stati dei morti quest’estate (riferito non tanto allo Scarason quanto ai dintorni). Ora ho il problema di dove posteggiare la Volvo. Lo faccio, giro ancora un po’ con il custode e Guya, ci fa vedere bene il rifugio. Intanto piove forte, devo uscire a vedere se dove ho posteggiato va ancora bene. La Volvo è semiaffondata in acqua fangosa! Riesco a salire dentro, inondando un poco (ma non troppo!) anche l’interno (temo per il borsino verde con dentro i cd di musica dei Depeche Mode), metto in moto e riesco miracolosamente a togliermi dal fango. Cerco di riposteggiarla ma è un casino, mi avventuro stupidamente per una discesa che probabilmente non riuscirò mai a risalire. Allora riscendo dalla macchina e la tiro su (a mano!) in zona più sicura. Dobbiamo ancora vedere arrivare il trenino (!) che da qui sale (tipo Kleine Scheidegg) nelle viscere rocciose dello Scarason. È un bellissimo trenino (anche questo già preso, ma con evidente riferimento al trenino dell’Eiger), facciamo i biglietti, saliamo passando il controllo. Bellissimi gli scompartimenti”.

(Il sogno mi riporta ai primi tempi di amore con Guya, con la mia anima. Le peripezie con l’auto riportano alla mia inefficace ricerca di un Sé minacciato, ma la soluzione è lì davanti. Un trenino può facilmente salire nelle viscere della montagna Scarason, simbolo del mio periodo più eroico, e affrontare finalmente quella terza dimensione che la mia salita bidimensionale del 1967 aveva evitato).

Brady nel piccolo canyon di Kasha-Katuwe Tent Rocks

La ripresa
Verso fine agosto ci concedemmo una prima uscita in quel di Entrèves, dai Sicola e dai Bianchi. Riuscii perfino ad arrampicare un po’ con Papik Villa e Isabella Bianchi. Il 26 agosto ero con Guya in Tofana. Presa la funivia, salii fino alla Tofana di Fuori per controllare dove eventualmente la gestione della Marmolada-Tofana SpA avesse gettato i rifiuti nei vari decenni. Il dubbio era che avessero agito come in Marmolada… E invece non trovai nulla. Il 28 agosto con Guya, partendo dal rifugio Micheluzzi in Val Duron, andammo a trovare Almo Giambisi che da anni faceva il custode del rifugio Antermoia. Era il Centenario della costruzione del rifugio, Almo aveva invitato un po’ di amici. Cose semplici, che mi rimettevano in quadro con il mio mondo.

Simona e Guya a Kasha-Katuwe Tent Rocks

Il 29 agosto eravamo a Corvara assieme ai Mozzati, reduci da una serie di salite bellissime e di campeggi proibiti, attivati di notte e smantellati al mattino presto, per risparmiare il denaro che i campeggi regolari pretendono. A Corvara, per caso, incontrammo anche Giorgio ed Elisabetta Mallucci. Lasciata Guya al rifugio Franz Kostner al Vallon, andammo tutti assieme alla base del Piz da Lec de Boè. Andarono avanti Luca, Renata e Marta, seguivamo Elena Mozzati ed io, poi Giorgio ed Elisabetta. Salimmo in parete sud la bellissima linea, assai raccomandabile, della via Dorigatti-Giambisi (IV, V e V+, 250 m), che Alberto e Almo avevano aperto il 19 agosto 1973. Non andai da primo, ma tutto sommato non me la cavai male, considerando che la via era d’avventura, protetta con un numero assai parco di chiodi normali.

In vetta alle Kasha-Katuwe Tent Rocks

Dal 6 al 9 ottobre mi recai al Festival di San Vito. Poi il 30 ottobre ci fu la miseranda esperienza della ripetizione, con Matteo Pellegrini, della via Dalla Storia all’Antistoria alle Coste dell’Anglone. Feci male tutta la via, niente però in confronto al passaggio del buco finale dove letteralmente mi sembrò di soffocare, quasi certo di rimanere là incastrato per sempre…

C’erano da festeggiare i sessanta anni della cugina di Guya, Simona Bassi, che si era sposata in Texas e viveva a Dallas con il marito Brady Vigil. Dopo un avventuroso viaggio aereo, con andirivieni pazzeschi (dovuti al ritardo della tratta atlantica) nei corridoi e agli sportelli dell’aeroporto La Guardia di New York, ci ritrovammo finalmente nella loro villetta nella verde cintura di Dallas. Grandi cene, supermercati enormi dove sembrava che le vitamine fossero più importanti dei cibi stessi, l’immancabile visita alla casa dalla quale Kennedy fu preso a fucilate. Lo squallore di quella città era totale, meno male che invece con Brady e Simona stavamo bene. Facemmo anche un salto di quattro o cinque giorni nel New Mexico, prima ad Albuquerque (dove vivevano i genitori di Brady e un fratello avvocato), poi a Santa Fe, finalmente una cittadina con qualcosa da vedere e da sentire. Il 22 novembre facemmo una bella gita alla cima delle Kasha-Katuwe Tent Rocks 2413 m con attraverso di un curioso e stretto canyon roccioso.

L’intera Sandia Crest dai pressi di Albuquerque
L’ingresso della villa di Jake Vigil, Albuquerque

Tornati ad Albuquerque facemmo festa nel giorno del Ringraziamento in casa del fratello di Brady, Jake, con un gigantesco tacchino. Attorno alla villa era un parco meraviglioso con vista sulla Sandia Crest: Guya ed io eravamo saliti con la funivia. Spiavo se ci fosse qualcuno ad arrampicare su quelle bellissime pareti di granito, ma non vidi nessuno. Il 24 novembre avevamo traversato tutta la cresta fino alla Kiwanis Cabin 3776 m.
Ogni tanto Elena mi manifestava il suo desiderio di arrampicare: così dopo Natale (26 dicembre) la portai alla Parete di Limarò (Valle del Sarca) approfittando di un invito più volte ripetuto da parte di Marco Furlani. Salimmo Orizzonti dolomitici, una via mediocre ma adatta alle mie e sue possibilità. Per la prima volta dunque mi recai a Pietramurata di Dro, dove Marco viveva con Laura e la figlia Lucia. Grandi feste a Elena. Il giorno dopo concludemmo con Aphrodite alla Parete di San Paolo. Ci lasciammo con Marco, ripromettendoci di fare al più presto delle salite assieme, poi salii in auto con Elena. Era sera, poco prima di Nago ci fermammo un momento ad ammirare i colori del Lago di Garda con il cielo arrossato.

Albuquerque, Thanksgiving Day. In cucina, da sinistra, Jake, Violet (la madre) e Brady.
Guya di ritorno dalla Kiwanis Cabin, 24 novembre 2011

Che altro dire del 2011? Beh, magari cito il convegno a Bressanone (23 ottobre) nell’ambito dell’International Mountain Summit: tenni una relazione sul tema “Alpinismo e spiritualità”. In quell’anno ci lasciò il nostro caro cane, lo zoppetto Pelucco: i due gatti, Mumu e Tara, erano già andati avanti nel 2010. E con ciò si concludeva simbolicamente un periodo, perché quei tre cari animali erano stati al nostro fianco per dodici anni (e a fianco di Guya ancora di più).

Per i dolori, che stavano tornando, avevo esaurito le mie conoscenze, esplorato tutte le possibilità mediche. Un giorno, a dicembre, mi recai a fare un test di intolleranze alimentari. La tipa che me lo fece concluse che ero tollerante a tutto, ma mi segnalò un nominativo, secondo lei una grande persona, un medico chirurgo che però curava principalmente con l’omeopatia. Si trattava di Bruno Antonio Perrone, che esercitava a Turbigo, un paese sul Ticino, oltre Abbiategrasso. Mi recai da lui nella prima decade di dicembre, gli raccontai la mia storia. Lui non si sbottonò più di tanto, ma mi fece un’ottima impressione, con quella dose di follia che di solito provoca grandi genialità. Mi prescrisse una serie di gocce e goccine. Dopo un mese, in assenza totale di cortisone e di aulin, stavo finalmente bene.

Il maialino perso all’ospedale ultima modifica: 2025-06-27T05:18:00+02:00 da GognaBlog

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2 pensieri su “Il maialino perso all’ospedale”

  1. Curioso ritrovare divertenti stralci di vita familiare che si incrociano con quelli del Capo…

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