Uno dei primi libri di Mauro Corona è Il volo della martora (1997), con successive riedizioni. Si tratta di una raccolta di 26 brevi racconti di ricordi autobiografici, raggruppati su 4 temi: Alberi, Animali, Gente, e l’Erto Cammino.
La quarta parte ha quale comune sottofondo la frana caduta nel lago del Vajont la sera del 9 ottobre 1963, alle 22.39 che ha cancellato le frazioni più basse di Erto poste sull’opposto versante della valle rispetto alla frana.
Il racconto che alleghiamo ha per oggetto l’effetto che tale evento ha avuto sulla psiche degli abitanti del luogo. Con rara delicatezza ricorda un abitante del paese, già avanti negli anni, cui l’evento ha tolto moglie e casa, privandolo di tutti i sia pur minimi riferimenti di vita (Massimo Silvestri).
Il vecchio Pin
di Mauro Corona
(tratto da Il Volo della Martora, di Mauro Corona)
Credo fosse l’unico uomo al mondo, almeno tra quelli da me conosciuti, a cui crescesse la barba sul naso. Quando si radeva, oltre alle guance e al mento, doveva insaponare anche la grossa nappa e passarvi il rasoio per asportarne i fitti peli che la ornavano.
Non era molto alto ma aveva due spalle sulle quali la giacca sembrava imbottita, tanto erano larghe e possenti. Gli occhi avevano un perenne lampo irritato che contrastava nettamente con la sua indole buona e gentile. Quando successe il disastro del Vajont contava circa sessant’anni.
In gioventù aveva fatto una vita durissima, frequentato i lavori più umili. Aveva girato diverse città del Nord come venditore ambulante di oggetti in legno, ma nei suoi racconti parlava solo di Brescia. Era anche un buon artigiano, abile soprattutto nel fabbricare rastrelli da fieno e oggetti di legno al tornio. Il suo ultimo impiego era stato alla cava di marmo del Monte Buscada, sopra il paese di Erto.
S’era sposato non più giovane. Una moglie buona e sensibile lo aiutava a eludere le ombre che stavano dietro ai patimenti passati. La guerra lo aveva portato sui fronti d’Albania e di Grecia. Era tornato con una scheggia nella spalla destra. L’arto era rimasto difettoso ma non abbastanza per lo Stato, che non gli concesse nemmeno la pensione minima.
Infine, dopo il Cinquanta, un impiego da minatore alla cava di marmo. Lavoro duro che gli permetteva però di stare tra i suoi monti.
L’aria dei duemila metri lo ringiovaniva. Luglio concedeva giornate lunghe.
Spaccava sassi con la mazza per dieci ore al giorno. Verso sera girava per le rocce a cogliere stelle alpine che il sabato portava a sua moglie. Si coricava molto presto rispetto agli altri operai e prima di addormentarsi consumava il rito di bere mezzo bicchiere di grappa tutto d’un fiato. Ogni tanto si dimenticava e per non alzarsi dal letto, pregava noi giovani di andargli a prendere la dose di acquavite. Qualche volta, per fargli uno scherzo, versavamo mezzo gotto di acqua pura della sorgente. Lui come al solito lo ingollava d’un sorso poi esplodeva in una sequela dì parolacce al nostro indirizzo e non smetteva fino a che non gli portavamo la grappa vera. Dopo averla mandata giù in un lampo, ci porgeva il bicchiere e con un sorriso e uno sguardo complici esclamava: «Grazie canàis».
Con quel sonnifero s’addormentava tranquillo.
Si trovava lassù la sera che il Monte Toc scivolò nell’acqua del lago artificiale. «Udimmo un forte rumore – mi raccontava – e pensai che qualcosa fosse successo giù alla diga».
Al mattino scesero tutti. Lui, in silenzio, la giacca sulla spalla come usava quando andava di fretta, si diresse verso la sua abitazione al Colle delle Spesse. Non trovò più nulla.
Della sua casa rimaneva soltanto il pavimento di lastre antiche. E neanche le altre esistevano più. L’intera frazione era scomparsa. Restavano soltanto gli impiantiti di pietra, incollati alla terra biancastra come francobolli, che la furia dell’acqua non era riuscita a strappare.
Buttò la giacca su un sasso e si sedette sopra. Arrotolò una sigaretta. Guardandosi attorno, si accorse che anche le frazioni di Pineda, Prada, Marzana e S. Martino erano scomparse. Gli raccontarono di Longarone rasa al suolo. Allora nella sua testa qualcosa si inceppò.
Lavorò ancora qualche stagione, ma parlava sempre meno e in modo strampalato. Tornò giù al paese e iniziò a bere grappa anche al mattino. Nei giorni che gli restarono da vivere non ebbe più cura di sé.
Per anni si cibò unicamente di tre o quattro uova al giorno. Le comperava nel piccolo negozio della Vecchia Erto riaperto dopo il Vajont; col sacchetto in mano si recava all’angolo di una casa, sopra un alto muro, picchiettava le uova sul bordo di un sasso e le beveva piano piano, una dopo l’altra. Col passare dei mesi, sotto quel muro era cresciuta una montagnola di gusci.
Il sussidio che l’assistenza gli passava finiva tutto in vino. Ogni tanto qualcuno lo invitava per un pasto caldo ma lui rifiutava sempre; non era tipo da accettare elemosine. Solo nel suo ultimo anno di in vita, dopo che lo Stato reputò di avergli dato abbastanza e sospese il sussidio, si umiliava a chiedere cento lire qua e là. Raccoglieva le cicche dalla strada e quando ne aveva tre o quattro rifaceva la sigaretta con una striscia di giornale.
Era diventato il compagno di noi giovani. Spesso lo portavamo in giro nei paesi della valle a bere e a divertirci insieme. Quando avevamo soldi gli compravamo da fumare per una settimana.
Lui, un tempo uomo di fede, ingenuo e pulito, non riusciva a capacitarsi che il Padre Eterno avesse permesso quell’immane sciagura. Si mise a pensare giorno e notte senza più dormire, finché i cavalli del giudizio spezzarono i recinti e se ne andarono dalla sua testa.
Discuteva di continuo col Signore imprecando qualcosa a bassa voce e guardando continuamente verso l’alto. Era convinto di parlare direttamente con Dio.
Dormiva in una vecchia casa abbandonata dove era entrato senza pensarci tanto, sfondando la porta con un calcio. All’interno vi era una stufa che non si degnò mai di accendere, un tavolo su cui poggiare il bottiglione e una panca di legno per passare le notti. Dormiva vestito o al massimo si toglieva le scarpe senza lacci. Noi giovani gli procuravamo un po’ di legna ma era del tutto inutile, perché non aveva più voglia di riscaldare nessuna casa: gli era entrato il gelo nel cuore e non badava più al freddo dell’inverno.
Quando un uomo non accende più il fuoco nel camino è segno inequivocabile della sua fine.
Ogni tanto lo interrogavo sul perché di quei comportamenti. Cercavo di capire cosa passasse in quel cervello smarrito, ma la risposta era sempre la stessa: «Parcì è caro morì».
Negli ultimi anni i cavalli del giudizio si erano lanciati sempre più lontano. Iniziò una ricerca giornaliera e metodica sulle rive sconvolte di quella che era stata una delle più grandi dighe del mondo. Tra macerie di ogni tipo, in un caos incredibile di tronchi, lamiere, pezzi di case, tavolame e alberi spezzati era convinto di poter trovare la fede nuziale della sua povera moglie.
Lo incontravo quasi tutti i giorni mentre tornava su dalle sponde martoriate, avvilito; ogni volta teneva in mano qualche reperto che la sua immaginazione malata attribuiva all’una o all’altra famiglia scomparsa. Un giorno lo vidi arrivare con lo schienale di un lettino. Disse che era di Lucia. Lucia era una mia coetanea morta assieme ai fratellini nell’acqua del Vajont. Affermò di riconoscere bene il pezzo, perché quel lettino lo aveva costruito lui stesso. Cominciai a convincermi che era proprio ”andato”.
Seguitò per mesi a condurre la sua caparbia ricerca. Si fermò solo d’inverno quando la neve coprì il terreno occultando agli occhi smarriti i nefasti risultati dell’ingegno umano.
Un pomeriggio d’estate mi venne incontro tutto agitato tenendo una mano infilata nella tasca della giacca. Portava sempre la giacca qualsiasi stagione fosse.
«L’ho trovato» disse sottovoce.
Gli brillavano gli occhi. Entrammo nell’unica osteria riaperta dopo i fatti del Vajont. Mentre si sedeva accanto a me, senza togliere la mano di tasca, mi sussurrò di ordinare due quarti di rosso. Poi lentamente lo tirò fuori. Teneva stretto un sudicio fazzoletto a fiorellini; lo svolse e, al centro della tela, comparve quello che per lui era l’anello matrimoniale di sua moglie.
«Eccolo qua finalmente! Glielo avevo comperato a Brescia» mormorò.
Presi quel piccolo oggetto tra le dita e non ci misi molto a scoprire che si trattava di un umile cerchietto d’ottone, di quelli usati per far scorrere le tendine nel bastoncino di sostegno. Provai tenerezza verso quell’uomo che, solo nella follia, era riuscito finalmente a fare suoi quei sogni che un cervello sano non oserebbe neppure pensare.
Mi guardai bene dal deludere la sua certezza e gli feci i miei complimenti. Era raggiante. Si vedeva che andava fiero di se stesso per quel ritrovamento. Passammo la serata a bere vino. Avvertii i miei amici di essere accorti e di non ridere quando avrebbe mostrato anche a loro il suo piccolo tesoro. Mi raccontò di averlo trovato sotto una trave assieme a molti altri, attaccati a uno straccio.
«Quelli non li ho toccati – disse – perché sono delle altre mogli».
Sicuro di conoscere le proprietarie iniziò a no minarle una per una. Erano tutte donne della sua frazione, morte con la famiglia nell’acqua del Vajont.
Da quel giorno sembrò più tranquillo e smise di cercare ricordi sulle sponde del lago maledetto.
Nei mesi che seguirono, qualche volta lo mettevo alla prova per accertarmi se conservava sempre il suo monile. Gli chiedevo a bruciapelo: «Pin, fammi vedere l’anello di tua moglie».
«Eccolo qua» rispondeva svelto, mentre dal taschino interno della giacca estraeva orgoglioso il cerchietto.
Era diventato lucido da sembrare oro autentico, tanto lo maneggiava e lo strofinava. A volte io e gli amici, fingevamo cinicamente di corrompere la sua fedeltà dicendogli che a Longarone c’era un orefice che lo avrebbe reso milionario in cambio di quell’anello. Ma lui, sdegnosamente offeso, rifiutava fermamente e non voleva nemmeno udire quella proposta.
«Piuttosto crepo di fame» ribatteva alle nostre insistenze.
Non visse molto, dopo il ritrovamento della fede nuziale. Forse un anno e mezzo, o due. Venne portato all’ospizio di Longarone. Quasi tutte le sere noi giovani calavamo nel paesino rinato a divertirci e spesso incontravamo il vecchio amico e trascorrevamo qualche ora con lui.
Lavoravamo già da tempo nelle imprese di costruzione e le nostre tasche avevano incominciato a conoscere qualche lira. Ma erano tasche bucate e si svuotavano facilmente. Lo rifornivamo di sigarette e di qualche soldo. Voleva tornare a Erto:
«Non sopporto le suore del ricovero – ghignava – perché non mi lasciano fumare in camera».
Infatti a qualsiasi ora della notte si passasse davanti all’ospizio, si notava sul poggiolo il lumicino della brace accesa e, nell’ombra, la sagoma del Pin che fumava appoggiato alla ringhiera.

Verso la fine era diventato gonfio e tremolante. Gli occhi, un tempo implacabili, stavano nascosti dietro un velo acquoso e giallognolo che non lasciava speranza. La cirrosi venne in suo aiuto e Pin si spense serenamente, assistito dall’amico sacerdote don Martin, anch’egli vecchio ospite della casa di riposo e compagno di osterie.
Quando fu raccattato il suo umile guardaroba, prima di buttarlo gli inservienti ispezionarono i vestiti perché non venisse lasciato dentro qualcosa di valore, ma da quelle tasche uscirono solamente cicche di sigarette, fazzoletti sudici, fiammiferi sparsi e qualche moneta da poche lire. Dal taschino interno di una giacca saltò fuori anche un cerchietto d’ottone, di quelli che servivano un tempo a sostenere le tende delle cucine. Dopo una rapida occhiata gli assistenti si affrettarono a buttare tutto nel cassone dell’inceneritore assieme ad altre povere cose appartenute all’anima semplice del vecchio Pin.
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Il Volo della martora è anche secondo me il migliore dei libri( quanti sono?) scritti da Mauro Corona , una novita , fresco e onesto. Poi , nel tempo, il suo “personaggio” pubblico è entrato nel mondo del business e dello spettacolo.
Bello e misurato
Il volo…resta (ed è per me)libro ,forse irripetibile ;anime e storie legate ad un fatto a ad una terra e gente unico/che. Poi sta ‘ martora ha spiccato il volo ed è entrata in tutte le auto della provincia …mannaggia! A noi 2 volte il tubo del servosterzo un tubo intercooler più un innumerevole mangiata di tubetti lavavetri …dimenticavo anche tutti gli assorbi rumore del cofano motore.
L’ha stregato la Bianchina…
Mauro Corona ha saputo esprimere i suoi sentimenti in maniera sublime, poi è cascato nella trappola della TV …pazienza, il vecchio Pin resterà per sempre con noi.
Saluti.
Non è un racconto.
E’ vita vissuta.
Anch’io non vado pazzo per Corona, ma questo libro (è del 1997, forse il suo secondo in assoluto) raccoglie storie vere, magari un poco romanzate, ma vere.
Trasformare un anellino in ottone delle tende nella fede nuziale ha una potenza espressiva esplosiva. Il vecchio Pin con queste pagine rimarrà per sempre nella memoria collettiva anche se si sarà disfatto nella terra che ora lo accoglie. A me si è stretto il cuore.
Saluti.
MS
Quelle poche volte che ho visto qualche minuto di Corona in TV, non mi è piaciuto, come anche un suo libro di 10-15 anni fa di cui non ricordo il titolo. Mi parve scritto per seguire un andazzo di linguaggio scurrile, per essere alla moda. Questo racconto invece mi è piaciuto moltissimo, scritto con sensibilità, empatia, cuore. Bellissimo, per me.
Non vedo Corona in TV, ammesso ci vada ancora. Di sfuggita, mi capitava facendo zapping, e non mi piaceva. Come non mi piacque un suo libro di cui non ricordo il titolo, secondo me scritto solo per soldi e essere alla moda. Questo racconto invece mi pare molto bello, scritto mettendoci dentro sincerità, empatia, cuore. Complimenti.
Dalle mie parti si dice: al ma fàc ègn la pèl de póia..
I bei racconti di Corona!