Oltre i numeri, le imprese parlano di uomini e di valori simbolici.
Altri Sesti
(il sesto grado tra storia e mito)
di Enrico Camanni
La storia dell’alpinismo non si dovrebbe scrivere con i numeri, ma con quel coro di fattori che segnano il mutare dei tempi e delle culture. In questo senso, all’impresa di Gustav Lettenbauer ed Emil Solleder non andrebbe attribuita una cifra; piuttosto un insieme. Divenne famosa non solo perché fu effettivamente una gran via su una grande parete, tra le più belle e desiderate da tedeschi e italiani; accanto alla portata tecnica dell’impresa, bisognerebbe considerarne il valore simbolico, l’attenzione che in quegli anni si prestava all’alpinismo e lo spirito di competizione amplificato dalle ideologie.
Fragili artisti
L’immagine retorica del rocciatore presa a prestito dal soldato era funzionale alla propaganda dei regimi. Bastava confondere il combattente con lo sportivo per ottenere la proiezione pubblica della scalata e dello scalatore che segnò un tempo fecondo di realizzazioni: gli anni Venti e Trenta del Novecento, cioè gli anni del sesto grado. Fragili artisti, come il triestino Emilio Comici, diventarono modelli di roccia per assecondare il mito della virilità gradito al regime. Le imprese di uomini tendenzialmente riservati come Solleder, Giusto Gervasutti, Giovan Battista Vinatzer, Gino Soldà, Mathias Rebitsch e Anderl Heckmair vennero distorte dalle parole d’ordine delle dittature: conquista, cameratismo, audacia, sacrificio, morte, vittoria. Il sesto grado fu il logo dei trionfi verticali, ma nella fretta di porre numeri e definire valori si confusero la scalata libera e l’artificiale, il prima e il dopo, la propaganda e la passione. Tutto doveva apparire eccezionale, intonso, straordinario, anche se gli alpinisti del Ventennio non erano degli esaltati. Non lo era Lettenbauer e tantomeno Soldà, Gervasutti, Raffaele Carlesso o Riccardo Cassin. Reinhold Messner ha notato la naturalezza delle loro imprese e l’atteggiamento di quei giovani uomini davanti al rischio: «Essi arrampicavano senza chiedersi continuamente il perché, senza domandarsi ‘Ma avrà senso?’, ‘Non è forse una cosa da malati fare il sesto grado?’. Arrampicavano perché gli piaceva arrampicare e amavano superare difficoltà sempre maggiori, e in questa attività non vedevano nulla di malato, erano orgogliosi di quello che facevano… ».
Il trentino Renzo Videsott, per esempio, era uno scalatore colto e sensibile. Rinuncerà addirittura all’alpinismo per dedicarsi alla difesa dello stambecco. A cavallo della laurea Renzo aveva messo insieme una bella lista di prime ascensioni nei gruppi del Brenta e del Civetta, ma era soprattutto lo Spigolo sud-ovest della Cima della Busazza ad attrarre le sue attenzioni e anche quelle del compagno di cordata Domenico Rudatis, l’ideologo del sesto grado. Lo spigolo si innalzava a pochi passi dalla grande Civetta e sarebbe stata una degna risposta alla “Solleder”. Nell’estate del 1929 i due frequentano il rifugio Vazzoler e cercano l’accesso al ciclopico bastione. Una mattina Renzo confida a Domenico di aver «sognato molto chiaramente un grande camino», anche se non ha ben capito dove si trovi. Partono subito per la Valle dei Cantoni e mentre vagano tra fantasia e realtà Videsott individua il passaggio del sogno. «Dove?», chiede Rudatis eccitato. «Subito a sinistra dello spigolo: è proprio il mio camino!». Così inizia l’avventura: trovano la via e al secondo tentativo scalano lo spigolo, eguagliando il primato dei tedeschi.
Prima vennero l’Agnèr e il Pelmo
Sempre nel 1929 giunge l’eco di un’altra scalata di sesto: la parete nord-ovest della Sorella di Mezzo del Sorapìss. Gli autori sono i triestini Emilio Comici e Giordano Bruno Fabjan. Gian Piero Motti nota che «a differenza di altre imprese della medesima difficoltà compiute in quel periodo, la salita di Comici fu piuttosto pubblicizzata e per molto tempo la si considerò come il primo sesto grado italiano. La parete, alta 600 metri, in effetti offre alcuni tratti di difficoltà veramente notevole, ma nell’insieme non è superiore alla Solleder». Ci sono dei precedenti. Sempre secondo Motti, il vero exploit del dopoguerra è opera di una cordata italiana – la guida fassana Francesco Jori con Arturo Andreoletti e Alberto Zanutti – che «nel 1921 scalano in prima ascensione la gigantesca parete nord dell’Agnèr, realizzando un’impresa di assoluto valore, non certo inferiore a quelle compiute in seguito al Pelmo e al Civetta». Piero Rossi precisa che «la scalata superava notevolmente quella del Civetta in altezza, non era troppo inferiore come difficoltà e nell’insieme, data la severità dell’ambiente, poteva essere considerata della stessa classe».
Anche per quanto riguarda gli scalatori d’oltralpe, prima di quella del Civetta viene la parete nord del Pelmo, non così lontana, salita da Roland Rossi e Felix Simon nell’agosto del 1924, dunque un anno prima della Solleder. «Di questa via all’epoca si seppe pochissimo e solo in seguito a ripetizioni posteriori essa acquistò il suo esatto valore: una scalata di V e VI grado in arrampicata libera con pochissimo impiego di mezzi artificiali. Ciò non sorprende in quanto Rossi era uno dei migliori arrampicatori del Kaisergebirge, avvezzo alla tecnica del chiodo e alle manovre di corda», conclude Motti.

Una tripletta straordinaria
E prima della Grande Guerra? Ancora non si affrontavano pareti così difficili, ma probabilmente il sesto grado esisteva già. Nel senso che era stato scalato, anche se non dichiarato ufficialmente. Il precursore del massimo grado fu l’ampezzano Angelo Dibona, dapprima umile pastore all’Alpe di Federa e poi guida impeccabile e geniale scalatore di ogni verticale, dalle crode dolomitiche alle pareti del Monte Bianco e degli Écrins. La tripletta firmata nel 1910 da Dibona, Luigi Rizzi e i fratelli viennesi Guido e Max Mayer ha dello straordinario. Nel 1910 Dibona ha trentun anni ed è montanaro a tutto tondo, capace di intuire la via su pareti chilometriche, affrontando con serenità dei problemi giganteschi. Per tre volte tocca il limite delle difficoltà in roccia, senza dubbio sopra la soglia del quinto grado. Gli storici attribuiscono alla parete nord della Cima Una nelle Dolomiti di Sesto una gradazione certa di quinto grado superiore, forse sottostimato, e non si potrà più raggiungere un giudizio definitivo perché nel tempo la via è stata sconvolta dalle frane. Ma il vero dilemma nasce per l’altra impresa: la parete sud-ovest del Croz dell’Altissimo nelle Dolomiti di Brenta, ottocento metri d’altezza e circa mille di sviluppo, un itinerario assai tortuoso tra cenge, muri friabili e gole scavate dall’acqua, dove Dibona superò una grotta sbarrata da un soffitto. Il giornalista de La Stampa Alberto Papuzzi ha ripetuto la scalata nell’agosto del 1989 riferendo: «Bisogna percorrere l’aspro passaggio incastrati sul soffitto, con le gambe in spaccata. Non ci sono appigli e le scarpette scivolano sulle pareti viscide… Sulla parete di sinistra sono fissati quattro chiodi tutti in linea, a cui sono appesi altrettanti cordini di canapa intrecciata. Passiamo con pazienza i moschettoni nei chiodi e procediamo con fatica aggrappandoci a questi ausili artificiali… ». Ed ecco il mistero: come ha fatto Dibona a passare senza chiodi? Sarebbe sesto grado o settimo inferiore, addirittura, secondo l’autorevole opinione del roveretano Maurizio Giordani. Che la via di Dibona fosse estrema per il tempo lo attesta il fatto che ci salirono solo lui e Preuss prima della guerra, e poi si dovette aspettare ben diciassette anni per la terza ripetizione, che non risolse l’enigma.
Tra dubbio e leggenda
Nel 1929 passarono Renzo Videsott e Domenico Rudatis, e non fu una coincidenza di poco conto. Erano proprio loro: gli scalatori del sesto grado. Rudatis, fine intellettuale e scrittore, nel libro Liberazione si sofferma sulla scalata in cerca di risposte. Raggiunti il diedro e la famosa grotta, i due hanno l’impressione che il passaggio sia sbarrato; poi Rudatis vede quattro chiodi infissi nella fessura: «Due sono nuovissimi e mi sembrano appena piantati. Ritengo siano stati lasciati da Steger. Ma altri due sono parzialmente rugginosi e ovviamente vecchi. Se non sono stati piantati da Preuss ovvero dal suo compagno Relly, devono essere stati piantati da Dibona o da Rizzi… Si sa che Preuss non piantava chiodi, ma Relly potrebbe aver compreso che in quel punto l’assicurazione era legittima. Dibona mi aveva detto che non aveva usato chiodi scalando il Croz dell’Altissimo; tuttavia Luigi Rizzi era una guida troppo esperta e responsabile per aver trascurato in quella pericolosa situazione la necessaria assicurazione per il capocordata e gli altri compagni che erano personalità importanti. Per mio conto aggiungo un chiodo per completa tranquillità. Videsott avanza in spaccata fino al termine del soffitto, poi sposta la testa all’infuori ed estende un braccio ricercando un punto dove attaccarsi… In circa mezz’ora siamo sopra il soffitto».
La descrizione di Rudatis certifica la presenza di due vecchi chiodi sul passaggio chiave, ma non risolve il dubbio: i ferri erano di Preuss e Relly o di Dibona e Rizzi? Fa un’enorme differenza, perché se i primi non avessero piantato nessun ferro e fossero passati in arrampicata libera avremmo un exploit probabilmente ineguagliato nella storia dell’alpinismo, che anticiperebbe o addirittura supererebbe le estreme difficoltà degli anni Venti. Alessandro Gogna, basandosi sull’esperienza di alpinista e di storico, esclude la prima ipotesi: «Come si fa ad attribuire la responsabilità dei chiodi a Paul Preuss e Paul Relly, quando si sa che Preuss mai piantò un solo chiodo, anzi non aveva neppure il martello? È pur vero che Preuss impiegò ben due ore a superare la grotta… ma se il martello non ce l’aveva, per esclusione la paternità dovrebbe dunque essere della cordata Dibona… Un’altra ipotesi potrebbe far pensare a un tentativo di ripetizione (dopo quella di Preuss, ma comunque anteguerra) da parte di una cordata di ignoti che, giunti al masso squarciato, per qualche motivo abbiano rinunciato non prima di aver cercato di passare con i chiodi». Il dubbio resta e posa altro mito su un’impresa comunque eccezionale, che dimostra l’abilità degli arrampicatori del primo Novecento e soprattutto la tranquillità con la quale uomini come Dibona si avventuravano su pareti che ancora oggi incutono soggezione.
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