Avventure alla Pria Grande – 1 (1-2) (AG 1963-005)
(dal mio diario)
Consultiamo la guida di Euro Montagna in biblioteca, senza prendere appunti.
1 novembre 1962, Ognissanti. Alberto Martinelli e io andiamo di pomeriggio a Genova-Bolzaneto. Prendiamo per il Santuario della Guardia e, muniti di cartina militare IGM, arriviamo quasi a Geo. Chiediamo a un signore anziano informazioni sulla strada per la Pietragrande (pria grande in genovese); ci risponde di prendere la stradina dopo il negozio di commestibili e salire fino a un canaletto d’irrigazione. Da lì in mezz’ora dovremmo arrivare.
Arrivati a sinistra del torrente, in corrispondenza di qualche casa, chiediamo a un altro.
– Veramente io non ci sono mai stato, ma dovrebbe essere per di qua. Ci vorrà un’ora…
Lo ringraziamo ma cominciamo a preoccuparci. Per l’altro era mezz’ora, questo parla di un’ora. Comunque proseguiamo, arriviamo ad altre case, poi a un casolare pieno di cani da caccia che ci abbaiano furiosamente. Il tempo minaccia. Prendiamo un sentierino accanto al canalino d’irrigazione e dopo due minuti incontriamo due boscaioli.
– Sciäa me scüse, va ben pe a Pria Grande? – parlo in genovese sperando di aver migliore comprensione.
– Scì.
– Quantu tempu ghe véu?
– Dexe minûti.
– Grazie.
Belli contenti ci avviamo per il sentierino pianeggiante e tortuoso, spesso a picco sul vallone sottostante. Ora però pioviggina. Andiamo avanti ugualmente, passiamo una piccola frana, un avvallamento e arriviamo ad altre case. Vediamo un vecchietto.
– Quantu tempu ghe véu pe a Pria Grande?
– Dexe minûti.
Ma ormai non stiamo neppure più a badare come ciascuno dà i suoi numeri, perché comincia a piovere a dirotto. E’ la ritirata!
Tre giorni dopo, il 4 novembre, torniamo alla carica. Per sbaglio scendiamo dal tram a Morigallo, ma si rivela meglio così. Siamo già nei pressi delle raffinerie Garrone, perciò più vicini a Geo. Ripetiamo in velocità il percorso dell’altro giorno e, dopo i cani e l’avvallamento, arriviamo alle case del punto massimo raggiunto. In effetti eravamo vicini e dopo poco ci troviamo di fronte all’enorme blocco di diabase. Il nostro tentativo sulla via normale (spigolo sud-ovest, IV-, itinerario 13a) vede i soliti tentennamenti, insicurezze, errori. E più incerti siamo, più vorremmo tentare di mettere chiodi… Alberto va a finire troppo a destra e io, che intanto ero stato in vetta, devo scendere per aiutarlo. Ritorniamo in cima assieme, poi lui scende a corda doppia mentre io sono costretto a farlo in arrampicata vista la perdurante escoriazione sulla spalla che mi ero procurato al Campaniletto di Sestri. Giunto al punto più difficile esito un attimo, ma alla fine riesco a scendere ancora un po’ e saltare a terra.
A questo punto ci rivolgiamo alla paretina ovest (13gI). Non siamo al corrente che è di ben V grado… schiodato, per di più. Assicurato dall’alto da Alberto salgo piantando due chiodi e mettendo altrettante staffe. Poi qualcosa mi dice che questa è una pratica da abbandonare. Basta mettere chiodi e staffare dove non è previsto! D’ora in poi seguirò scrupolosamente quello che dice la guida: Alberto invece se ne frega, mettere chiodi gli piace!
Comunque non mi sento di proseguire e scendo, per poi risalire ad assicurare Alberto. Lui riesce a piantare un altro chiodo più alto, ma poi annotta e desistiamo. Resta però da schiodare! Togliamo i primi due, lasciamo quello messo da Alberto. E anche quello messo in cima per fare corda doppia sulla liscia e repulsiva parete nord. Ce ne andiamo nel buio pesto, un po’ pericoloso.
Il 10 novembre 1962 torno alla Pietragrande con Marco Ghiglione. Ormai conosco il tragitto a memoria, ci mettiamo solo 25 minuti dalla fermata dell’autobus “C”. Ha piovuto recentemente, la roccia è umida. Io ho un paio di scarponcini, lui le scarpe da tennis (come del resto avevo io la volta scorsa). Scivola, cade due volte. Lo aiuto. Poi vado in cima a sistemare la corda sul cippo e quando mi volto per scendere ad aiutarlo, mi accorgo che è lì accanto a me: è a piedi nudi, con le scarpe in bocca! La mia spalla è guarita, così finalmente posso scendere in doppia a ovest. Altra cosa: dobbiamo togliere i chiodi lasciati la volta scorsa. Solo quello sulla Ovest mi fa penare, devo addirittura fare un piccolo pendolo per raggiungerlo! Ora voglio fare la 13b, sulla parete sud-est. Lui mi assicura dall’alto. La parete è caratterizzata da un pilastrino appena staccato, con la punta a circa due terzi della parete: il “Colonnino”. Ho difficoltà a fare in modo che la corda mi sia proprio in verticale. dalla cima del Colonnino inizia il vero difficile… però c’è un chiodo. Senza pensare alla grande stupidaggine che sto facendo ci metto il moschettone e la corda. Quando mi alzo per superare il muretto finale (IV) la corda fa fatica a seguirmi. Lo credo! Fa un angolo a 360° e Marco invece che recuperarmi mi deve dare corda, come fossi da primo. La stessa idiozia l’ho fatta a Pietralunga, ma ora credo questa sarà l’ultima volta. Insomma, sono incrodato. Dico a Marco di aiutarmi, quello si mette a scendere sulla corda singola, mi oltrepassa, stacca quel maledetto moschettone, si tira sulla corda come Tarzan e si rimette in posizione per farmi salire.
L’8 dicembre torno alla Pietragrande con Alberto. Alle 15.25 siamo operativi alla base del roccione. Voglio rifare il 13b e ancora con la corda dall’alto. Alberto sale in cima per assicurarmi. Raggiungo velocemente la sommità del Colonnino.
– Alberto, sposta la corda!
Silenzio. Io devo andare a destra e nessuno risponde. Allora urlo e, tanto per cambiare, litighiamo. Arrampico rabbioso su quel IV grado e giunto in cima mi sfogo urlando. Ora tocca a lui scendere e provare. Ma naturalmente sbaglia e sale per il 13bI, che è di V grado. Cosicché deve tornare a terra e chiede corda. Io gliela do prontamente, così può scendere, attaccare nel punto giusto e raggiungermi. Sempre con la corda dall’alto ci facciamo entrambi la variante 13aI.
Ora però viene il bello, perché abbiamo intenzione di salire sul più alto spigolo nord-est (13d), esteticamente assai bello, dato di IV+ e V-.
Sulla sommità, in corrispondenza dello spigolo, c’è un grosso macigno, attorno al quale faccio un bulino con la corda. Dopo di che mi metto dentro l’anello del nodo, in modo che se lui cade io non cado e lo posso tenere meglio (un’autoassicurazione davvero basic, NdR). Gli urlo che sono pronto, anche se non lo posso vedere. Lo sento salire, piano e imprecando, poi lo vedo quasi vicino a me, su una placchetta liscia. E’ felice e mi decanta la via, dicendo che non ha mai fatto nulla di più bello, ecc. Tocca a me, anche se l’oscurità sta arrivando. Arrivo quasi al primo chiodo, ma poi mi faccio calare.
Alberto impietosamente comincia a sfottermi, poi però mi faccio mostrare dove è passato. E’ passato sulla destra, evitando i pezzi più difficili! Mi riprometto per la prossima volta di fare anche io così almeno non sfotterà più. La discesa per il sentiero al buio è come al solito disperata.
Il giorno dopo, ancora alle 15.25 in punto, siamo ancora là a insistere. Con la corda dall’alto riscatto il mio onore messo a dura prova ieri sera. Io vorrei che ci dedicassimo a ripetere come si deve il 13 d, Alberto invece vuole salire la parete nord, che la guida descrive come muro di VI-A1 e alto ben 14 metri. Come se non bastasse non vuole salire canonicamente sul 13e, dove si vede qualche chiodo arrugginito: vuole fare una via nuova, sulla parete nord ma abbastanza vicino allo spigolo nord-est. E la vuole salire in artificiale, come naturalmente si richiede sul sesto grado (le idee sull’artificiale e sulla libera erano poche ma confuse, NdR). Tenta di scendere su una corda sola, poi sente male alla spalla e ritorna verso di me a fatica. Un cacciatore passa di lì e ci osserva.
Alberto scende arrampicando per la via normale, io intanto rimango in cima a gelare. Poi finalmente parte, assicurato da me. Lo sento chiodare come un dannato, imprecando. Ormai è quasi buio e gli urlo ripetutamente di scendere.
– Scendi!
– Taci, scemo, e lasciami schiodare!
Questo in sintesi il dialogo.
Sono un ghiacciolo, nella mia tuta di cotone. Finalmente mi dice di aver finito e di scendere pure. Mi precipito in basso e lo raggiungo, sotto alla parete nord. Due chiodi sono rimasti infissi. Mi arrampico per levare almeno il primo, all’altro penseremo la prossima volta. Ora è proprio buio pesto.
Il 23 dicembre 1962 siamo ancora, alla solita ora (15.30), alla base della Pietragrande. Sorpresa: troviamo gente. E’ la prima volta che incontriamo qualcuno qui. Non socializziamo. Salgo per la via normale e vado a legare la corda al masso, poi butto giù l’altro capo. Accanto a me altre tre corde sono ancorate.
Recupero Alberto che comincia a chiodare, questa volta attrezzato pure di una staffa a quattro gradini di metallo. Mentre comincio già a battere i denti, ecco che arriva da me il tizio che il 21 ottobre al Masso del Ferrante ci aveva insegnato la corda doppia. Dopo i saluti, gli dico: – Chissà quanti errori sto facendo, eh?
E lui: – No, errori no!
Poi scende a recuperare una staffa che aveva lasciato lì al mattino. Fa un freddo cane, in fondo a questa valletta umida.
Dopo un po’ Alberto esce dalla Nord sulla Est e quindi mi raggiunge raggiante. Entrambi scendiamo per la normale, ma ci ritroviamo in attesa che uno scenda a stento. A terra, corriamo alla base della parete nord: Alberto mi mostra il suo itinerario. Mentre lui torna su ad assicurarmi, io mi lego e mi armo di martello per poter schiodare. Ci sono cinque chiodi, e agli ultimi tre è appesa una staffa per ciascuno. Senta togliere i primi due, agguanto la prima staffa ma sento che non sono in forma. Scendo, afflitto e scoraggiato.
– Non ce la faccio, Alberto!
Allora lui mi butta giù la corda e scende per la normale. Poi si lega e io rimango in basso ad assicurarlo. Salendo leva tutti i chiodi in modo magistrale e io sono pieno di ammirazione per lui. Speriamo che un altro giorno anche io possa fare la stessa cosa (Naturalmente nessuno dei due si rendeva conto che, se il primo di cordata toglieva i chiodi mentre saliva, rimaneva col peso sempre su quello dopo, correndo il rischio dunque di cadere senza scampo alla prima fuoriuscita, NdR). Nel buio totale cerchiamo di raggiungere gli scalatori che erano con noi ed erano partiti prima. Senza riuscirci.
Seguendo un itinerario di accesso diverso (finalmente abbiamo letto bene la guida), molto meno pericoloso e più breve, il 24 aprile 1963 mi ritrovo alla Pietragrande con Marco Ghiglione. E’ la prima volta che vedo questo grande masso con il cielo sereno e una temperatura accettabile. Salgo per la via normale e butto la corda sul versante ovest. Oggi vogliamo esercitarci con i nodi prussik. Così saliamo e scendiamo entrambi mentre arriva un amico di Marco, Ennio Remondino. Nl frattempo Marco riesce a sbucciarsi la spalla scendendo a corda doppia… Sulla parete ovest c’era un conto in sospeso, l’itinerario 13gI, tentato con Alberto il 4 novembre scorso usando senza pietà staffe eccetera. Ora invece voglio fare le cose in regola, per questo V grado. Attacco bene e vado slegato fino allo strapiombo con relativa facilità. Qui ci sono ottimi appigli per le mani, ma i piedi fluttuano. Cerco di piantare un chiodo, visto che quello che la guida dice d’esserci, non c’è. Però, per quanto cerchi affannosamente una fessuretta, non ne trovo. Ora sono affaticato, perciò appoggio lì il chiodo, scendo un po’ e poi faccio un salto di due metri fino a terra. Riposo. Intanto Marco ed Ennio tentano, senza convinzione. Poi ritento ancora io ma sono troppo stanco. Ennio se ne va. Noi andiamo allo spigolo nord-est per fare il 13d, già fatto da Alberto e da me assicurati dall’alto e con variante più facile. Oggi invece voglio seguire il vero itinerario e con assicurazione dal basso. Raggiungo il primo chiodo dal quale pende un cordino. Ma io non mi fido e il moschettone lo passo nell’anello. Poi però sono bloccato, e mi sembra per tre ragioni. Primo, le difficoltà: non ci sono appigli per le mani. Secondo, mi ricordo male quanto letto in biblioteca sulla guida al riguardo della posizione del secondo chiodo. Terzo, occorre spostarsi leggermente sulla parete nord, ed io invece sto provando diritto. Troppi pensieri! Sono qui, più che altro tenuto di peso da Marco, ma non riesco a far nulla. Sudo, mi agito, poi comincia a piovere. Quando smette, attacca il mio compagno, munito delle mie scarpe “a carro armato”. Ma è un tentativo condannato in partenza. Allora mangiamo pane e formaggio, facciamo delle foto. Poi io ritento, ma non c’è nulla da fare. Almeno vedessi il secondo chiodo!
E arriviamo così alla settima visita alla Pietragrande: una gita che non dimenticherò mai.
E’ il 15 giugno 1963. Con Alberto abbiamo intenzione di fare la parete sud-est della Pietragrande per la via a destra del Colonnino, it. 13bVI. E’ di VI grado e richiede l’uso di mezzi artificiali per tutta la salita, di una decina di metri. Seguono 5-6 metri di IV. Raggiunto il roccione alla solita ora (15.25). Dietro mia istruzione, lui si lega con i due capi dell’unica corda che abbiamo. L’inizio è duro. La salita è lenta per il continuo armeggiare con le staffe, i chiodi e il martello. Dapprima è proprio impacciato, poi prosegue più spedito mentre io lo sostengo sui chiodi. Un indefinibile orgasmo ci prende tutti e due, questa verticalità impressionante ci prende entrambi, ci ubriaca. E ci fa commettere errori. Nemmeno io me ne rendo conto, però di mano in mano che lui procede leva la corda dai moschettoni a lui sottostanti, lasciandola solo nell’ultimo chiodo. Mi domando cosa si è legato a fare con due corde… Poi accade l’inevitabile. L’ultimo chiodo si stacca e Alberto cade giù senza che io possa fare nulla per trattenerlo. Cade su un macigno vicino a me, poi rotola un po’ e si ferma sul sentiero. Sono inorridito. Temo il peggio e, tremando, mi avvicino a lui per vedere se almeno la testa è salva: e lo è per fortuna. Lui comincia a lamentarsi, anzi a urlare di terrore. Ha certamente un piede rotto. Si è rotto il malleolo, diranno poi in ospedale.
In giro non c’è nessuno, siamo soli. Provo a chiamare aiuto: niente! Metto un fazzoletto bagnato sul suo piede, poi, cercando di tranquillizzarlo, vado a chiamare una barella. Percorro a rotta di collo il sentiero per Geo, ma mi fermo alla prima casetta: ci sono due donne e le prego di salire su per tenere un po’ di compagnia ad Alberto e prestargli le prime cure. Poi riprendo a correre. A Geo vado a chiamare la “Croce”, ma l’autoambulanza è in un paese vicino. Per telefono però riusciamo a informarli della necessità d’aiuto alla Pietragrande. Poi telefono ai genitori di Alberto, non dicendo però che è caduto dalla roccia. In seguito riusciremo a mantenere questo segreto, sostenendo che è rotolato giù da un sentiero.
Mi metto in attesa, in preda a un nervosismo indicibile. Poi, non potendo più resistere, salgo di nuovo alla Pietragrande, di corsa. Incontro quelle donne che mi ridanno i miei vestiti, la macchina fotografica, lo zaino. Le ringrazio di fretta e furia, poi continuo a salire. Mi riprendo il materiale tecnico, perché Alberto è già stato portato via. Sulla famigerata paretina lasciamo sei o sette chiodi e quasi altrettanti moschettoni. Il resto riesco a riprenderlo. Giunto a casa riesco a nascondere tutto. In seguito riesco ad andare in ospedale a trovarlo. Ne avrà per due mesi costretto a letto, poi ancora con la gamba ingessata per un bel po’. L’estate è rovinata. In più ha quattro materie da dare a ottobre e chissà come farà. Io sono come paralizzato. Per un po’ dubito della mia passione. Sono disgustato, angosciato. E rimarrò così parecchi giorni. Il giorno dopo mi ritrovo con papà e mamma in una gita a funghi, immaginate il mio stato!
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Ho cominciato anch’io alla Pietra Grande… Si partiva di lì noi di Bolzaneto, perche ci si arrivava a piedi; poi ci si appassionava e si cominciava ad andare al roccione di Cravasco, a Rocca Maja, in Baiarda e ai torrioni di Sciarborasca. Cominciammo con le pedule rigide, poi scoprimmo le Superga Blu e sulla Pietra ci si divertiva davvero anche se ci si bruciava ancora la spalla facendo le doppie, quelle con un cordino tra le gambe ed un moschettone, solo dopo sarebbe arrivata la prima placchetta ‘tipo Sticht’ fatta in alluminio e poi il mitico 8 della Clog. Quando arrivarono le Tampico già si parlava di Finale, di Grillo (non Beppe, Sandro) e si andava da Bagnara per vedere il mitico Calcagno (per comprare non avevamo soldi…). Quando finalmente andai al corso di roccia alla Ligure arrampicavamo già con le scarpe morbide (sempre le Superga, mica le San Marco) ma gli istruttori pretesero che si usassero sempre solo gli scarponi rigidi e pesanti “perché poi in montagna mica ci vai con le pantofole…” Che tempi ! Incontravi Calcagno e Pastine in invernale su Punta Martin o seguivi Franco Piana che ti faceva da istruttore alla Pania della Croce. Sono tornato qualche anno fa alla Pietra Grande, mi sembrò più piccola di allora, ma più saggio e prudente di allora, forse solo più vecchio e pesante, ‘ho trovato lungo’ sulla normale…
Passione! Sembra anche a me di essere lì. Sono stato alla Pietra Grande un anno fa, è piena di spit e il sentierino di mezz’ora era scivolosissimo dal fango. E’ incredibile leggendo questi racconti come le dimensioni della Pietra Grande possano essere viste come a ognuno piace. E’ alta pochi metri, forse 20 nel punto più alto, eppure sembra infinita nelle fantasie di chi trovava avventuroso passarci le giornate tra “sprinae e maccaja”.
Non ho capito molto nelle manovre di corda che si susseguivano nel racconto di Sandro, ma quelle parole sono servite ad ampliare le dimensioni della Pietra Grande in maniera psichedelica, oltre che fisica.
Una cosa da Swinging London anni ’60/’70, e senza LSD!
Potere della scrittura.
Trovo tutto ciò molto “british” e in effetti Genova è la città italiana più inglese, si dice. Causa dei Lloyd Marittimi, della storia del Rugby, del Football and Cricket Club detto Genoa, dei negozi di Via Roma e XXV Aprile, e non è finita…
Non molti anni fa ho guidato una ragazza inglese alle 5 Torri per scalare qualche via. Dopo la prima mi ha detto: ma qui non si scala un bel niente!
Non capivo. Ne facciamo un’altra un po’ più difficile, la Myriam di V grado. In cima mi dice che sulle Alpi non si scala perché ci sono già tutti i chiodi al loro posto e noi non dobbiamo fare niente, a parte salire sulla roccia.
Bel punto di vista eh?!
Mi racconta che nel tempo libero va (anche da sola a volte) a scalare su dei massi alti 3-4 m. dove passa le ore a scegliere il successivo nut per progredire qualche centimetro. Poi deve scegliere un friend e passano le ore e lei sale altri cm. La sera, se tutto va bene, arriva in cima a una “via” soddisfatta.
Soddisfatta perché si è dovuta impegnare molto per posizionare tutti quegli aggeggi di progressione. Per lei scalare è quello. Altro che arrivare su una bella cima con vista o fare dei bei movimenti. Tanto da lei piove sempre e non si vede niente.
Mi dice tutto ciò in maniera così disincantata e naturale che la butterei giù, ma poco dopo scopro che mi è simpaticissima.
Mentre scendiamo mi chiedo perché e mi do la risposta da solo. La relatività delle cose della vita mi salta all’occhio e mi conforta.
Mi sento meglio, ora che ho scoperto che sono così adattabile ed elastico. Infatti anche a me da sempre non mi è importato molto dei canoni dell’alpinismo così come ce lo hanno insegnato i Padri Fondatori.
Stessa sensazione l’avevo provata quando avevo accompagnato un fotografo di Liverpool su Punta Salinas in Sardegna, uno dei belvedere più suggestivi che conosca. Al tipo cadde lo sguardo su uno stercoraro, che è un insetto che arrotola in palline gli escrementi degli altri animali per deporvi all’interno le sue uova. Era la prima volta che ne vedeva uno ed ha passato due ore a fotografarlo, in barba al motivo per cui eravamo andati fin lassù: il panorama sul Golfo di Orosei.
La frase di Bonatti che dice che “più in alto si sale e più lontano si vede” mi è sempre sembrata più adatta a un albero della cuccagna che ai monti. Ognuno ci trovi un po’ quello che vuole. Prima che ci mettano tutte quelle regole che vogliono metterci, restiamocene liberi, dai.
L’alpinismo è gioia di vivere e sposta le montagne. Null’altro?
Brutta esperienza Sandro.
Un fatto simile l’ho visto accadere circa un mese fa alla falesia di Gavorrano. Un ragazzo saliva da primo (da 1 come dicono i moderni falesisti) un tiro. Arrivato un pò oltre la metà, si fa ricalare e mentre il compagno lo cala toglie tutti i rinvii rimanendo solo sull’ultimo. Già questo è assai assurdo.
Parte l’altro legato alla corda rimasta rinviata nel solo ancoraggio e senza rinviarla negli ancoraggi sottostanti (quindi solo su un punto di assicurazione) arriva a stento all’ancoraggio. Lo supera con difficoltà e quando sta per rinviare vola.
Il compagno che gli stava fecendo sicura da seduto e un pò distante dalla roccia viene sollevato, la corda è passata in un solo ancoraggio , quindi attrito zero. Risultato: nella caduta si rovescia e arriva a circa mezzo metro da terra.
Il ragazzo si è preso un bello spavento (anche noi) ma fartunatamente non si è fatto nulla.
Quando gli ho chiesto come mai avevano fatto tutta quella sere di cazzate, non mi hanno saputo rispondere. Gli sembrava che andasse bene fare così. In fondo siamo in falesia e anche se era un solo ancoraggio è più che solido visto che è un fix.
Diciamo che quel giorno si è giocato il jolly.
Straordinari gli “scarponi” !! Grande passione…