Dispersione scolastica e inclusione

Estratto da Alfabeto della scuola democratica, a cura di Christian Raimo, Laterza, 2024. 

Dispersione scolastica e inclusione
(estratto da Alfabeto della scuola democratica)
di Pietro Savastio
(pubblicato su iltascabile.com il 4 dicembre 2024)

La scuola dovrebbe servire a colmare quegli svantaggi primari determinati dalla propria estrazione sociale, secondo l’articolo 3 della Costituzione. Liberare attraverso il linguaggio, fornire strumenti interpretativi, far vivere un luogo accogliente qui ed ora, per studenti che vivono in luoghi miseri e precari, con relazioni brutali e distorte. Ma la scuola riesce in questo nobile intento?

Immagine dal film I quattrocento colpi di François Truffaut, 1959

Il rapporto della scuola italiana con le classi popolari comincia molto lontano nel tempo ed è tutt’altro che un rapporto d’aiuto. Occorre riannodare le fila della storia e risalire alle “classi differenziali” in cui venivano relegati i caratteriali, gli umili, gli indisciplinati. La logica dello Stato era molto semplice: chi non si conformava alle sue logiche e ai suoi dispositivi comportamentali veniva sbattuto altrove, in classi apposite e separate. Infatti, all’articolo 12 del testo di legge della riforma Casati, volta a regolare l’istruzione nell’Italia unificata (anno 1862), si sanciva che “possono essere istituite classi differenziali per gli alunni disadattati scolastici”. Già allora l’individualizzazione del problema.

La scuola italiana ha promosso sin dalla sua fondazione una segregazione. Da una parte un codice di condotta molto chiaro (ordine, pulizia, silenzio, proprietà espressiva), dall’altro tutto il resto (diversi corpi e funzionamenti, diversi linguaggi, diversi costumi, diversi standard igienici). La borghesia si è fatta, insomma, la sua scuola, gli altri sono stati spostati fuori e altrove, nelle classi differenziali, per l’appunto. Essere adattati, allora, significava rientrare nel canone della scuola borghese, al limite tradendo le proprie abitudini familiari e sociali se vi si voleva restare. Ad ogni modo, un ordine scolastico e morale era stato stabilito.

Successivamente, negli anni Settanta l’abolizione delle classi differenziali (legge 517/1977), venuta in un periodo di grande fermento politico, è avvenuta come una rottura inedita. È stata l’esito di un movimento sociale generalizzato, animato da idee anticlassiste, che ha investito anche l’impianto scolastico di un desiderio di riforma (se non vera e propria rivoluzione). Le analogie sono molte con la legge Basaglia (legge 180/1978) di quegli stessi anni: parimenti. L’area politica che se ne è fatta sostenitrice intendeva promuovere un principio di non separazione tra sani e malati, normali e anormali, adattati e disadattati. Nell’un caso si sono aboliti i manicomi, nell’altro le classi ghetto. Si cominciò allora a dire: il problema non è nelle persone ma nelle istituzioni sociali. Il problema non sono i disadattati ma l’idea di adattamento. Entrambe le leggi, però e tristemente, si sono rivelate vittorie dimezzate: alla promessa di liberazione per gli “internati” delle istituzioni disciplinari è seguita una restaurazione informale delle pratiche di assoggettamento. Oggi abbiamo segregazioni più diffuse, frammentate, disarticolate e perciò forse più insidiose.

Se rivolgiamo lo sguardo alla scuola unica, elementari e medie, scopriamo una cosa nota, ossia che sono rimaste informalmente le classi ghetto, le ultime sezioni degli istituti, riservate ai proletari. Poi ci sono le scuole ghetto, edificate in certi quartieri enclave (popolati prevalentemente da immigrati e famiglie autoctone che non hanno beneficiato di nessuna forma di sviluppo), scuole, queste, che vengono schivate con attenzione dalle “famiglie bene”. Se invece guardiamo alla secondaria, le famiglie si dividono subito per indirizzo: la popolazione dei licei vive nei “quartieri bene”, ha i genitori laureati e ben stipendiati. La popolazione dei tecnici e dei professionali risiede ai margini del “progresso”, in periferia, e ha i genitori working class precari, a nero se non disoccupati. Così, l’abbandono scolastico resta bassissimo nei licei (1,6%) e schizza nei tecnici (3,8%) e nei professionali (7,2%) (Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, 2022).

Ma i veri problemi si vedono non solo nella segregazione de facto, ma nelle classi a maggiore mixité. È nelle classi miste che davvero si capisce come nulla sembra essere cambiato per gli studenti non-conformi al modello lineare dell’auditorium-scriptorium. Un modello, ricordiamolo, che chiede a tutti i ragazzi, compresi quelli con vite complicatissime, di restare composti e in silenzio per ascoltare, scrivere e ripetere: tutto il loro subbuglio interiore non ha alcuno spazio previsto. E ciò colpisce anche la borghesia, sia chiaro. Quanti sono i casi di studenti di buona famiglia che, di fronte a un lutto famigliare o a una difficoltà personale, vivono un momento di smarrimento e vengono sanzionati dalla scuola con una bocciatura? Qui si capisce allora che inclusione non significa semplicemente accogliere formalmente tutti o inserire qualche portatore di handicap o svantaggiato sociale. Ci vuole molto di più. In che senso?

A guardare bene, è proprio nel sistema scolastico che lo stigma sociale si è storicamente rinforzato se non addirittura “prodotto”. La scuola, nelle sue diverse articolazioni, ha edificato una certa visione culturale della “norma” e della “devianza”. Prima ha costruito un meccanismo presunto educativo (silenzio-seduti-ascoltate-ripetete), poi ha adottato una certa postura stigmatizzante verso chi non si conformava a questo meccanismo. Pierre Bourdieu l’ha definita, analizzando i sistemi scolastici negli anni Sessanta, violenza simbolica, spiegando come lo Stato (e la scuola in particolare) agisse come una “banca centrale del capitale simbolico e culturale”, istituendo differenze che diventano disuguaglianze, diversità che diventano esclusione.

Le cose non sono cambiate con una semplice legge che riammetteva formalmente i “bruti” tra i “civili”. Non basta un colpo di spugna a fare l’inclusione, se non è avvenuta una vera trasformazione nei modi di pensiero. Dall’abolizione delle classi differenziali si è infatti instaurata la logica dell’integrazione, che è ancora oggi dominante: c’è un dentro e un fuori, persone perbene e persone “malamente”, persone educate e persone maleducate, persone integrate e persone da integrare. I secondi, se vogliono, possono convertirsi. In quel caso saranno ammessi nel consesso delle persone perbene. L’invito è sempre lo stesso: conformarsi, tradendo le proprie inclinazioni, eventualmente le proprie origini, tutti quei codici culturali e di classe da cui si proviene. Mica che quella scuola tutta rigida forse è adatta solo ad alcuni? Eppure, era chiaro già allora che solo una modifica complessiva dei metodi e dei contenuti didattici avrebbe reso davvero possibile l’inclusione.

Chiediamoci, allora: non è l’istituzione ad essere ancora inadatta all’inclusione? Forse non sono gli studenti ad abbandonare, ma la scuola ad espellere? Chi ha specifiche caratteristiche fisiche, cognitive, relazionali, umorali, pone una questione sociale, culturale e politica: la scuola di oggi e di ieri è stata in grado di contemplare altri corpi, altri funzionamenti, altri linguaggi? Di fronte alla differenza, la scuola in essere è sempre oscillante tra due posizioni: una pietistica, una, invece, disciplinare. A seconda se siano poveri docili o poveri indocili, la risposta cambia. Scriveva Maud Mannoni ne L’educazione impossibile, nel 1974:

Il bambino a scuola è preso tra la seduzione e la punizione come metodo educativo. L’alternativa è d’altronde del tutto relativa: la condotta autoritaria o liberale procede in effetti a una stessa violenza, aperta o mascherata. Al bambino si domanda di sottomettersi alle esigenze e alle stereotipie di un codice di buona condotta; il discorso in cui è preso non è così nient’altro che un rituale che definisce condotte da tenere, determina ruoli da svolgere.

L’obiettivo è comunque sempre lo stesso: farne un nostro simile, un borghese di buone maniere, con o contro voglia. E quando c’è buona volontà, tutto bene, lo si può aiutare, compensare i suoi “deficit”, persino dispensarlo e fargli fare qualcosa alla sua portata. Quando invece c’è rifiuto della cultura e dei modi borghesi, quando c’è voglia di vita e movimento, o rifiuto delle forme imposte, allora la risposta istituzionale è tutta disciplinare (spesso in nome del suo bene). A buona riprova basti pensare che a scuola, generalmente, si preferisce l’apatia all’irriverenza. La prima non disturba, la seconda questiona.

La scuola, dunque, attende dallo studente che esegua ciò che è stato previsto per lui. La libertà lasciata al ragazzo è illusoria: questi non ha altra via di riuscita che nell’adattamento al mondo scolastico così com’è fatto: sedentario e verbocentrico. Lo studente può venir ammesso a scuola solo se rinuncia a tutto ciò che è, solo se rinuncia al suo desiderio di muoversi, ridere, scherzare. E quando i metodi di manipolazione morbida falliscono, l’istituzione ritorna alla coercizione. Non si fa, non si deve, “se fai questo… allora…” e via con le minacce e le pene, in un crescendo: ti metto la nota, ti sospendo, ti boccio… ti do il foglio di via, il daspo e poi persino il carcere.
Inutile, allora, moltiplicare gli appelli a “prolungare l’esperienza scolastica degli svantaggiati”, se la scuola è quella che è. Sempre Mannoni osservava:

L’obbligo scolastico prolungato fino ai sedici anni è nocivo a una categoria di ragazzi ribelli a ogni inquadramento nella scuola. Questi ragazzi, che a quattordici anni sanno appena leggere e far di conto, hanno un passato assai pesante di insuccessi scolastici. […] Per questo tipo di ragazzi una vita in istituzione è distruttiva; essi hanno bisogno di poter lasciare un determinato luogo […] per trascorrere un periodo nel mondo del lavoro.

La scuola è divenuta un luogo patogeno per migliaia di ragazze e ragazzi svantaggiati, i quali vivono un’istituzione che “vorrebbe salvarli riportandoli dentro”, come scrive Salvatore Pirozzi in Viva l’evasione scolastica (2016). Pare che nessuno, invece, voglia mettere mano a spazi, tempi, modi didattici, relazioni, gerarchie di saperi. Cosicché ancora oggi, a distanza di anni dalle intuizioni della pedagogia nuova, non si contano tutti i momenti e gli aspetti “di mortificazione, di sforzo non motivato da un interesse, di indottrinamento, di acquisizione mnemonica e meccanica” (Francesco De Bartolomeis, Cos’è la scuola attiva, 1975).

Gli effetti sono che all’allievo, applicando metodi sbagliati, è paradossalmente impedito ad apprendere e crescere. Con la pretesa di annientare l’ignoranza e la maleducazione, si finisce per annientare il desiderio autonomo del ragazzo. Gli si intima una norma inadatta cosicché l’immagine di sé ne esce irrimediabilmente compromessa per la continua disistima di cui è oggetto. Con il tempo la scuola non può che apparirgli penosa e mortifera. Non saprebbe dirlo espressamente, perché gli studenti riottosi non sono né intellettuali né rivoluzionari, ma con ogni suo gesto ci parla di quel che non va. Egli è il “sintomo della malattia delle istituzioni”. In un certo senso, il disperso scolastico è stato sapientemente “prodotto”. Occorre allora intendere il “rifiuto di adattarsi” quale un “segno di sanità nel ragazzo che rifiuta quella menzogna mutilatrice in cui la frequenza scolastica lo imprigiona”, per usare ancora le parole di Mannoni.

Fino ad oggi la scuola ha proposto una grande simulazione statica della vita, cercando di raccontare la realtà o a voce o per iscritto, dentro aule chiuse; ha fatto ricorso a rapporti disciplinari, sospensioni e prediche moralistiche per disconfermare gli inevitabili comportamenti oppositivi degli studenti (soprattutto quelli proletari). Oggi, allora, occorre trasformare modi, tempi, luoghi ed esperienze scolastiche affinché queste contemplino il corpo, il movimento, il personale, il ludico e molto altro, che è poi il modo per destrutturare l’assetto verbocentrico e sedentario che è corrente. Se si smantella l’apparato stigmatizzante, si può smantellare anche la forma-scuola. Se si smantella la forma-scuola si può smantellare anche l’apparato stigmatizzante.

La sfida che questi ragazzi ci pongono è allora quella di una modifica radicale dell’istituzione: i corpi degli studenti in dispersione chiedono un sistema diverso. Come insegnanti ed educatori siamo chiamati a interpretare la dialettica conflittuale che essi ci propongono, per trarne le dovute conseguenze su cosa non va nel nostro modo di fare. La loro “devianza” ci dice moltissimo su di noi. Essi non sono dei semplici ribelli, ma persone che cercano di esprimere la propria soggettività nella società mentre questo gli viene continuamente impedito. Hanno bisogno di esprimere la propria personalità, cioè di avere un potere e una responsabilità nella gestione del proprio ambiente di vita: è così che si diviene soggetti adulti.

Occorre, allora, creare un ambiente educativo nel quale sia possibile fare e lavorare (dunque attivarsi), ma anche appartenere e decidere (dunque prendere parola).

Fare e lavorare, perché sono queste esigenze primarie dell’essere umano, che deve usare la sua natura creativa o rassegnarsi ad essere infelice e miserabile. Il che implica, a scuola e non solo, “un programma rivoluzionario per restituire all’uomo i suoi strumenti”, come scriveva nel 1971 Paul Goodman in La gioventù assurda. La scuola è il luogo in cui il ragazzo è infantilizzato e spossessato della sua capacità creativa, della sua possibilità di azione. La scuola è il luogo in cui il ragazzo viene passivizzato. Se davvero si capisce il danno che tutto questo produce, si può cominciare a innescare alcune trasformazioni sostanziali, di cui la storia dei metodi “attivi”, le mille pedagogie, montessoriane, freinetiane, decrolyane, deweyane, e successive che sono ricchissime di esempi.

Appartenere e decidere perché ognuno possa partecipare di un potere di decisione sullo spazio in cui vive, sentendosene parte. La classe è un luogo nel quale ci si trova a vivere per sorte con persone molto diverse da noi e che non ci siamo scelti. Allora, essa non può che configurarsi come un organismo vivo nel quale la soggettività di ciascuno sia tenuta in debito conto e concorra alla costruzione del gruppo-classe. Come si sta in questo spazio? Quali regole vigono? Lo si decide insieme. Questo implica una nuova identità per il docente: non vanno cambiati i rapporti umani, ma vanno rivoluzionati i rapporti sociali tra insegnanti e studenti, tra borghesi e classi popolari, tra persone che hanno il potere e persone che non lo hanno. Eliminare l’alto e il basso, smetterla di credere che ci sia un polo positivo e un polo negativo. Così facendo si ridà potere agli adolescenti subalterni, il che equivale a ridare potere ai subalterni in generale.

A quel punto l’insegnante può abbandonare il centro della scena, smettere di essere contemporaneamente portatore assoluto del sapere e garante dell’ordine. Può divenire facilitatore sia nella costruzione della conoscenza sia nella costruzione della comunità di convivenza e apprendimento. Egli deve riconoscere la differenza costitutiva della propria posizione (insegnante, generalmente bianco, di classe media e buona cultura, integrato) che non è lì per instaurare il proprio sapere e un regime di muta ubbidienza, ma per dare vita insieme ai suoi studenti a uno spazio a un tempo di confronto e costruzione del sapere. Non deve più tentare di imporre il suo modello di condotta e la sua verità, ma piuttosto avviare uno scambio relazionale e discorsivo che possa smuovere veramente qualcosa nell’animo dei ragazzi.

Potrebbe apparire paradossale, ma è solo a partire dall’accettazione del ragazzo con cui si entra in relazione che si apre una possibilità per il suo cambiamento. È nel dialogo tra parti che avviene la trasformazione, ma solo se si è disposti a farsi trasformare. Lo studente “poco di buono” potrà aprirsi e cambiare se troverà un docente che lo farà sentire accettato così com’è; si chiuderà in se stesso e nelle sue convinzioni, invece, se si sentirà giudicato o punito per il suo modo di essere. “Nella mancata accettazione, nella disconferma, nel disprezzo più o meno velato nei confronti del modo di essere degli studenti (e delle loro famiglie) va con ogni probabilità cercata la ragione del diffuso insuccesso scolastico di studenti provenienti dai ceti meno abbienti” scrive Antonio Vigilante in Ecologia del potere.

Per queste ragioni la didattica inclusiva appare come grimaldello per destrutturare e ristrutturare la scuola. Fare spazio a tutti e a ciascuno, perché non ci sia più un “noi” e un “loro”. Smetterla di marchiare gli studenti “quello che disturba”, “quello che dorme”, e via dicendo. Verrà il giorno in cui gli adolescenti avranno davvero voce in capitolo nella costruzione del sapere e nella costruzione della comunità scolastica. Quel giorno, la loro vita tornerà ad appartenergli e saranno liberi oltre ogni potere.

Pietro Savastio è nato a Milano e da qualche anno vive a Napoli, dove lavora come ricercatore sociale e insegnante. Scrive e discute di politica e conflitti, cultura e controeducazione, perlopiù su riviste come Gli Asini, Jacobin e cheFare.

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Dispersione scolastica e inclusione ultima modifica: 2025-02-18T04:14:00+01:00 da GognaBlog

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24 pensieri su “Dispersione scolastica e inclusione”

  1. Prendendo come spunto l’uso del niqab da noi, è stata approvata qualche g fa in Regione Lombardia la mozione che vieta burqa e niqab nei luoghi pubblici. Non è passato per il momento l’emendamento che estende tale divieto anche alle scuole. La mancata approvazione dell’emendamento è la conseguenza di “bisticci” fra i partiti della maggioranza regionale: alla relativa votazione, i consiglieri di Forza Italia (8) si sono assentati, così l’emendamento non è stato approvato per un solo voto. È solo questione di tempo, perché gli sfrigolii fra i partiti sono come quelli di un matrimonio, per cui al prossimo giro si approverà anche il divieto nelle scuole. Al giro dopo tale mozione si estenderà a alle regioni governate dal centro-destra, che sono la maggioranza. Al giro dopo ancora il concetto sarà recepito da una legge dello Stato, visto che la maggioranza del Parlamento è di centro-destra, e al giro dopo ancora diventerà legge a livello europeo, perché questa è la tendenza dominante in Europa. A quel punto, con questo impianto legislativo, sarà difficile, per i magistrati orientati a sinistra, mettere i bastoni fra le ruote, vedi caso Albania. Ecc .ecc. ecc.. Vedrete che, passetto dopo passetto, cambieremo TUTTO e arriveremo anche a riscrivere la Costituzione, come io sto dicendo pubblicamente dal 2010 circa. Anzi, mi sto convincendo che tanto vale agire a livello europeo, stante la gerarchia delle fonti, e (anziché perder tempo in faticose battaglie italiane) questi principi li incardineremo direttamente nella legislazione europea, che “comanderà” su quelle nazionali.
     

  2. Cmq, io NON polemizzo con la preside di Monfalcone: lei ha fatto la cosa più pragmatica, stante l’attuale quadro normativo in essere. Non spetta alla singola preside di un singolo istituto scolastico “governare” l’integrazione. E’ dovere del mondo politico farlo, con norme apposite. il mondo politico è nominato legittimamente dagli elettori e se prevale, nell’opinione pubblica, una certa “istanza” che richieda il controllo dell’immigrazione e la definizione di un quadro normativo incentrato su un semplicissimo principio di base per regolare l’integrazione (=se vuoi stare qui, devi europeizzarti, sennò ARIA!), gli elettori premieranno i partiti che intendono “fare” queste cose. Certo, fera la semplice volontà dell’elettore in cabina elettorale, e la concretizzazione finale (=testo di legge nazionale o europea, impossibile da sottoporre a “interpretazioni” distorsive da parte di quei magistrati, orientati a sinistra) ci sono dei tempi tecnici, ma prima o poi al risultato finale ci si arriva. E’ solo questione di tempo. CONT

  3. “la volontà dominante è la stabilità della società all’occidentale”
    Se per società all’occidentale si intende quella di governi che spiano giornalisti, di ministri che continuano a mentire in Parlamento, di presidenti del consiglio che tacciono perché non sanno ancora cosa vuole il presidente che impone dazi e scatena guerre commerciali…beh, non sono sicuro che sia proprio la volontà dominante.
    Comunque è una cosa pessima.

  4. A me quella di Monfalcone sembra una soluzione molto “paracula”.
    .
    .
    Cinque studentesse entrano ogni giorno a scuola con i tratti del volto travisati ; venerdì prossimo una accoltella un compagno , che cosa dicono i testimoni, che e’ una delle cinque che andavano a scuola mascherate ?

  5. il tema nel niqab oggi sarà anche così, ma se la politica, con il sostegno degli esisti elettorali, vorrà cambiare le cosa, potrà farlo in fuituiro. A me pare che, dal semplice banale episodio del niqab ai rimpatri in stile Trump, ormai la strada è stata imboccata. il treno dei diritti appartiene al passato e ora la volontà dominante è la stabilità della società all’occidentale. Chi vuole restare non può non occidentalkizzarsi/europeizzarsi7italianizzarsi, lasciando perdere le consuetudini non compatibili con la cultura e i valori occidentali. Sennò va a cercaresi un altra residenza sul pianeta. Questa impostazione sta venendo fuori, nella cittadinanza occidentale, in modo sempre più vistoso e impossibile da contrastare. Quindi tutto il resto, piano piano, si adeguerà: le politiche governative si adegueranno, laddove non siano giò adeguate, la legislazione seguirà e financo gli orientamente giurisprudenziali, ove necessari, saranno inevitabilmente coerenti con l’impostazione. In tutto que4sto discorso la scuola può fiocare un ruolo fondamentale: cosi come attraverso la scuola possiamo pensare di educare i ragazzi di Caivano a “decaivanizzarsi”, possiamo anche pensare che, attraverso la scuola di stampo italiano, i giovani immigrati possano progressivamente europeizzarsi, perdendo quelle consuetudini che impediscono loro di integrarsi bene in una società occidentale. Sennò resteranno sempre degli individui ai margini della società, se non addirittura in cconflitto con essa.

  6. Se vogliamo insistere sull’esempio del niqab nell’istituto di Monfalcone (fatto che tra l’altro non è una novità di quest’anno scolastico), bisogna dire che l’istituto ha fatto una scelta pragmatica e ineccepibile.
    Preso atto che 1. non è suo compito legiferare in merito alla liceità del niqab (e quindi non può obbligare chi lo indossa a toglierlo) e che 2. ESISTONO alcune (pare 5) studentesse che frequentano legittimamente l’istituto e indossano questo indumento, ha a) risolto l’aspetto della sicurezza facendo identificare da un’insegnante le studentesse al loro ingresso e b) assolto al suo compito di fare quanto possibile per limitare la dispersione scolastica (cioè evitare che le ragazze abbandonino o, rectius, evitare che le famiglie ritirino le ragazze, gettando così alle ortiche ogni possibilità di integrazione).
    Non mi sembra di vedere un’altra soluzione.

  7. Appunto, il tema dell’integrazione NON si risolve a colpi di norme giuridiche, ma di scelte politiche. Dipende da che modello di società si predilige. E alla fin fine decide la maggioranza, attraverso le elezioni, dando la preferenza a questo o a quell’altro schieramento che opereranno in una direzione o in quella opposta. le leggi verranno licenziate dai conseguenti parlamenti/governi e tutto si orienterà orienterà in modo coerente.
     
    Al netto della mia preferenza  per una società europea che conserva la sua “europeità” al limite inserendo dentro gli immigrati, ma solo se si europeizzano, resta la considerazione oggettiva che l’integrazione intesa come “laissez faire” (io-europeo caucasico- sono così e vivo così, tu – islamico-sei cosà e vivi cosà) ha di gran lunga meno probabilità di raggiungere una situazione di equilibrio e di stabilità, quindi di tranquillità. perché perdureranno all’infinito i motivi di contrasto. Se invece restano da noi solo gli immigrati che si europeizzano, non ci saranno grandi diversità nello stile di vita di ciascuno: saremo davvero tutti “europei”. cmq l’esperienza storica, in frtabncia, in belgio, ha dimostrato che lasciare che gli immigrati, in particolare islamici, restino sempre nel loro stile di vita islamico (in nome del “rispetto” delle diversità) ha generato solo banlieue e quartieri ghetto e quindi gravi, se non gravissimi, problemi sociali (e prodromi di radicalizzazione e terrorismo islamico). Guardate con tutta la buona volontà e mettendo da parte ogni mio pregiudizio verso gli islamici: NON è quella che piace ai sostenitore dell’ideologia woke la strada da percorrere. Bisogna andare nella direzione OPPOSTA e occorre farlo fin dalla scuola. Per cui dovremmo intervenire fin dalle piccolezze quotidiane e TOGLIERE il niqab alle ragazzine islamiche che vanno così a scuola, sennò non annulleremo mai le differenze, ma le renderemo croniche e insuperabili per sempre.

  8. una veloce ricerca su internet ha portato alla luce questo riferimento giuridico (che vale ben oltre le ore trascorse dentro una scuola). – La legge 22 maggio 1975, n. 152, recante «Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico», all’articolo 5, dispone che «È vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo.

    Un’altrettanto veloce ricerca ha portato alla luce che:

    [il] Consiglio di Stato, sezione VI, decisione n. 3076 del 19 giugno 2008, […] ha chiarito che […] è possibile far rientrare tra i giustificati motivi che consentono di coprire il volto anche quello religioso o culturale. Nello specifico, il Consiglio di Stato sottolinea che il «velo che copre il volto» non è utilizzato generalmente per evitare il riconoscimento, ma costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture. Dunque, secondo il Consiglio di Stato la legislazione vigente consente l’uso di indumenti quali il burqa e il niqab anche in luogo pubblico perché il motivo religioso rientra tra i «giustificati motivi» che escludono l’ambito di applicazione dell’articolo 5 della legge n. 152 del 1975.

    La materia quindi è tutt’altro che chiara.
    E in ogni caso, quello del niqab è solo un esempio.

  9. Si deve far di tutto per contrastare gli abbandoni scolastici, sia di ragazzi “italiani” che immigrati, ma il percorso NON è l’inclusione passiva (=caro studente, fai quello che vuoi perché così sei tu e io ti accetto in ogni caso come sei). Anzi la scuola deve essere il momento cardine dove ragazzi/e diventano cittadini consapevoli e maturi del domani. 
    Il discorso vale per ragazzi italiani, ma ancor di più per i ragazzi immigrati.
    L’esempio del niqab di Monfalcone è sorregge il mio ragionamento che la scuola è determinante per integrare i giovani immigrati, ma SOLO se siano nell’ottica di europeizzare/italianizzare gli immigrati. Io NON credo in una società IN EQUILIBRIO dove ciascuna fa come gli va. L’equilibrio si potrà raggiungere solo se puntiamo all’europeizzazione degli immigrati, cosa che comporta l’abbandono delle loro consuetudini non conformi con quelle europee.
     
    Per quanto riguarda il contrasto della consuetudine del “volto coperto” con norme giuridiche in essere, una veloce ricerca su internet ha portato alla luce questo riferimento giuridico (che vale ben oltre le ore trascorse dentro una scuola).
     
    – La legge 22 maggio 1975, n. 152, recante «Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico», all’articolo 5, dispone che «È vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo.

  10. Forse è proprio li il problema , non è stata fatta una vera integrazione, sono stati creati dei ghetti. Il risultato è stato  isolamento, divisione, lontananza, diffidenza,  invece che convivenza.

  11. Seguendo questa strada negli ultimi 20 anni si è arrivati in tutta Europa a periferie di lingua araba , a Parigi come a Bruxelles , come a Stoccolma , come a Rotterdam.

  12. Integrazione non vuol dire rinnegare la propria personalità, la propria fede e la propria cultura.
    Integrazione vuol dire convivenza nel rispetto delle diversità.

  13. Nessuno ha mai sostenuto che si desiderino gli abbandoni scolastici.

    Che c’entra: l’articolo verte proprio sugli abbandoni scolastici, che comunque esistono e NON riguardano soltanto gli studenti con cittadinanza non italiana.

    attraverso il sistema scolastico, dobbiamo aiutare le ragazze islamiche a superare definitivamente le loro consuetudini

    Direi piuttosto che dovremmo imparare (tutti, non solo gli studenti) a NON giudicare le “consuetudini” delle altre persone, siano esse italiane o straniere, a meno che OVVIAMENTE non siano in contrasto con il nostro ordinamento.
    Per fare un esempio spiccio e riduttivo: se veramente vogliamo che le ragazze e le donne di religione islamica siano libere, allora non dovremmo stigmatizzarle (per non dire di peggio) se decidono di indossare il niqab (non mi risulta sia illegale, ma chi può smentire è il benvenuto), né se decidono di NON indossarlo.

  14. Nessuno ha mai sostenuto che si desiderino gli abbandoni scolastici. Anzi! La società iper-competitiva in cui viviamo necessità individui sempre più preparati e “svegli” e la scuola è tassello fondamentale a tal fine. C’è un discorso parallelo: la scuola è anche il canale principale per l’integrazione. Ma una integrazione, perché sia sana e felice (per entrambi i “lati”) deve avvenire avendo come obiettivo l’europeizzazione/italianizzazione di chi vuole stabilirsi qui e NON il riconoscimento della loro diversità (ideologica, comportamentale, consuetudinaria). Altrimenti non è “vera” integrazione, una integrazione veramente fruttifera per la società di domani. La scuola può lavorare moltissimo, ma nel senso che, attraverso la trasmissione delle nozioni in senso stretto (importanti anche loro, ma “strumentali” all’obiettivo primario) la scuola 2lavora2 sui ragazzi italiani educandoli a esser, domani, cittadini maturi e consapevoli, e sui ragazzi immigrati aiutandoli a europeizzarsi/italianizzarsi. Il recente episodio di Monfalcone, dove pur di legittimare il noqab di alcune ragazze islamiche, una scuola ha previsto, ogni mattina, una proceduta di riconoscimento facciale delle ragazze in una stanza separata, è una sconfitta e non una vittoria, come invece la considerano i fautori della ideologia woke. Noi, attraverso il sistema scolastico, dobbiamo aiutare le ragazze islamiche a superare definitivamente le loro consuetudini (conflittuali con il sistema di valori dell’Occidente) e non “accettarle”, altrimenti NONB ci sarà mai integrazione.

  15. La scuola è un presidio di civiltà e democrazia, quindi ogni esclusione ed ogni abbandono sono una sconfitta non solo per la scuola, ma per l’intera società.
    Cito dall’interessantissimo 30° Rapporto ISMU sulle migrazioni 2024, zeppo di cifre e dati:

    […] i giovani che si sono fermati alla scuola secondaria di primo grado, mostrano che nonostante la riduzione del divario tra nativi e non nell’ultimo decennio, nel 2022 gli ELET (Early Leavers from Education and Training) nati all’estero sono ancora il 28,7% dei 18-24enni stranieri, ovvero il triplo degli autoctoni, che scendono al 9,7%. Per quanto concerne i “giovani in condizione di NEET”, il trend mostra stabilità, con una quota di NEET nati all’estero che si attesta al 29% del totale di tali giovani fra i 15 e i 29 anni, residenti in Italia, circa il doppio degli italiani (17,9%). Lo svantaggio a sfavore degli stranieri è peggiorato in una decade di circa un punto percentuale.

    Per quanto riguarda il rendimento (cito sempre il suddetto rapporto), stando alle prove INVALSI, gli allievi stranieri conseguono in italiano punteggi significativamente più bassi di quelli di italiani, mentre in matematica il gap è molto più ridotto e in inglese conseguono invece risultati notevolmente migliori di quelli italiani, soprattutto nell’ascolto.
    Va anche registrato che

    continua a diminuire la popolazione scolastica nel suo complesso, a causa del calo costante degli studenti italiani che negli ultimi anni non è più compensato dall’aumento degli studenti con cittadinanza non italiana

    visto che (dal rapporto sul 2023):

    I tassi di natalità della popolazione straniera vanno infatti progressivamente convergendo verso quelli degli italiani: dai 23,5 nati per mille abitanti del 2004 (con oltre 14 punti di vantaggio sugli autoctoni) si è scesi nel 2022 a un più modesto 10,4 per mille (con solo circa 4 punti in più).

    Evidentemente le donne straniere si trovano a dover affrontare, oltre a quelli connessi con la propria condizione di straniere, gli stessi ostacoli di quelle italiane.
     

  16. …si è appena visto chiaramente il valore che il Mondo attribuisce al governicchio italiano e anche la corsia preferenziale che Trump riserva alla sua trumpetta…

  17. Far passare le cose che non piacciono come oggettivamente “sbagliate” è un gioco delle tre carte di pessima fattura. Premesso che il bene è nemico del meglio (e, quindi, anche questo governo ha dei difetti che sarebbero da correggere), il governo in carica è tutt’altro che un governicchio. Altrimenti non si spiega come il mondo abbia potuto elaborare un’opinione così positiva del “nostro Premier” (come lei ama farci chiamare), definita da Politico, a fine 2024, “la donna più potente d’Europa” . Infatti, per quanto dotato di un carisma personale, un premier da solo non arriva a guadagnarsi una così elevata stima e considerazione internazionale (come gode oggi la Meloni), se dietro si sé ha solo un “governicchio di incapaci”. Evidentemente ciò che fa questo governo, nel campo della cultura e dell’istruzione come in ogni altro settore, non piace ai suoi detrattori: tuttavia ciò accade non perché il governo sia fallimentare, ma perché i detrattori sono prevenuti aprioristicamente verso un governo di tale impostazione.
    PS: al momento ci sono altre priorità da risolvere, ma prima o poi si arriverà anche a rimettere in sesto il modello italiano dell’istruzione.

  18. Se le tue considerazioni sulla scuola inclusiva in senso “italianizzante” sono valide e valutando contestualmente i tagli alla scuola e gli attuali ministri dell’Istruzione (senza merito) e della Kultura, arrivo a si può capire l’ostinazione del governicchio dei sovranisti limitati circa il respingimento dei migranti e il supporto fattivo ai torturatori…

  19. Le mie considerazioni precedenti, elaborale con riferimento a ragazzi/e italiani/e, valgono a maggior ragione verso i figli degli immigrati. Infatti partendo dall’assioma di fondo “Se vuoi stare qui, deve accettare di italianizzarti”, non c’è miglior strumento di “italianizzazione” della scuola incentrata sul modello italiano, che educhi e diffonda valori, consuetudini e comportamenti “italiani”. Quindi non è una scuola inclusiva nel senso woke, cioè “tutti facciamo come sono e noi li accettiamo tutti a scuola così come nella società”, ma una scuola inclusiva nel senso che, attraverso la scuola, italianizziamo anche chi non ha precedenti radici italiane. Il tassello è fondamentale per una integrazione felice.

  20. Scuola : “un ottico distratto forse a volte incompetente che vuol dar a tutti gli stessi occhiali…”

  21. La scuola italiana è un Minotauro con incredibili eccellenze ed incredibili abissi..
    .
    Gli insegnanti italiani sono un ibrido fra il Robin Williams de : “L’attimo fuggente” ed il peggiore impiegato postale , e spesso l’impiegato postale è vezzeggiato dal sistema più di Robin Williams…I risultati dei test Invalsi ci rappresentano bene : buttiamo un’accozzaglia di nozioni nella testa degli studenti , senza che loro capiscano a cosa servano , infatti è come se non fossero mai andati a scuola : non sanno fare una proporzione.

  22. Essendo io, per casualità della sorte (perché “lì” sono nato e cresciuto), un classico esempio della borghesia (non intendo il concetto in senso economico, ma ideologico), a me il modello scolastico italiano piace molto e lo considero ampiamente migliore di altri esempi alternativi, tipo quello americano o anglosassone. Certo la scuola italiana è  oggi molto “ammaccata” e andrebbe rivista, ammodernata e rilanciata, ma sempre all’interno dei suoi binari ideologici. Il modello scolastico italiano (espressione della borghesia) è  incentrato proprio sull’assioma che l’articolo cita, abbastanza all’inizio, come un suo difetto (mentre io lo considero un suo pregio). Cioè che, a prescindere dalle specifiche materie trattate (latino, matematica, storia, ecc. ) , la scuola punta (o “dovrebbe puntare”) a insegnare ordine, pulizia (sia fisica e morale), senso civico, educazione, maturità, consapevolezza ecc. In altri termini, la scuola italiana NON è una scuola esclcusivamente tecnica, cioè che si limita a insegnare nozioni tecniche, ma è prioritariamente una “scuola di vita”. La critica che una scuola di questo tipo NON sia inclusiva è del tutto soggettiva e arbitraria, perché poggia sulle prerogative della visione “woke” (=ognuno libero di fare come vuole e come è). Se tutti venissero educati secondo criteri “borghesi”, avremmo una scuola assolutamente inclusiva (perché tutti gli allievi convergerebbero nel modello proposto) e, io cono convinto, avremmo anche una prospettica collettività di adulti più maturi e più consapevoli di come vediamo oggi in giro. Io sono convinto che l’imbarbarimento culturale e sociale cui, anche in Italia, stiamo assistendo da alcuni decenni, pur avendo diverse cause, poggi anche se non soprattutto sul desiderio (assurdo e fallimentare) di far diventare la scuola italiana “inclusiva” a tutti i costi, in base alle prerogative woke. Il wokismo, nato tempo fa negli USA, là sta passando di moda e siccome le mode americane arrivano (in un senso o nell’altro) da noi con un cero ritaro temporale, io confido che prospetticamente si attenuerà anche qui, permettendoci di riproporre lo modello storco (anche se ammodernato) della scuola italiana.

  23. Il problema della scuola è che nonounisce chi è violento e non esopelle gli ignoranti. La scuola deve essere meritocratica e fon sfornare una serie di opersone ignoranti. La palla dell’inclusione sinceramnte ha rotto e porta solo a terrorismo e violenza, Se nn sanno la lingua gli immigrati non devono entrare. Punto. Basta con questo buonismo da quattro soldi che porta solo morte

  24. La scuola è un apparato repressivo grazie alla influenza mefitica dei grandi sindacati corporativi (alias confederali) che non solo hanno ostacolato qualsiasi alternativa, ma hanno rafforzato anche il controllo gerarchico sugli insegnanti. Senza libertà, senza la libertà di insegnare, non è possibile alcuna didattica attiva e inclusiva.

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