Metadiario – 294 – E’ tutta ‘na Camboggia! (AG 2017-001)
20 gennaio, le “villette fantasma”
Erano le 8.50 locali di venerdì 20 gennaio 2017 quando atterrammo all’aeroporto di Phnom Penh, la capitale della Cambogia.
Non ci aveva messo molto Elena a convincerci di fare un viaggio tutti assieme nella terra dove da circa due mesi lei e Gilles lavoravano assieme a Jef Moons al loro grande progetto Hand in hand Cambodia (Mano nella mano con la Cambogia, aiutiamo i cambogiani ad aiutare se stessi).

Da Phnom Penh un pullmino ci trasportò verso sud fino a Kep, sul mare, dove arrivammo verso le 14. Durante il viaggio non ci fu per fortuna la sensazione che il nostro autista fosse pazzo come la maggior parte degli asiatici, e tutto filò liscio su una strada comunque assai trafficata. Eravamo in Oriente e la massa umana si muoveva a onde, costringendo anche noi a una rapida regolazione delle geometrie dei nostri movimenti.
Già al nostro ingresso facemmo conoscenza con il belga Jef Moons, CEO e proprietario del resort Knai Bang Chatt (“l’alone attorno alla luna”), una struttura stupendamente ricavata dagli scheletri di due grandi villette coloniali disegnate e costruite dall’architetto cambogiano Vann Molyvann, un discepolo di Le Corbusier, ancora all’epoca della dominazione francese. Sulla spiaggia e con diciotto camere, era un resort di lusso a 5 stelle che si vantava, probabilmente con diritto, di offrire un’autentica esperienza cambogiana nel rispetto della comunità, della storia e dell’architettura locale.
Dopo una rapida sistemazione in camera e una doccia rigeneratrice, Elena e Gilles si prodigarono per introdurci nel pomeriggio nella realtà locale, alla quale si accedeva in primo luogo con il tuk-tuk (rickshaw, risciò), a motore o a pedali, il pittoresco taxi a tre ruote del Sud-est asiatico che può davvero esserne considerato simbolo.
Così girammo dal mercato generico fino al mercato dei granchi, il vero simbolo della città. Colori e soprattutto odori al massimo livello. Scoprimmo che Petra reggeva bene. Vegetariana e iperolfattiva, per lei quella era una caduta all’inferno ma non se ne lamentava, tanto era violenta l’emozione che le veniva procurata.
Ci stupì la cura con la quale i rifiuti del mercato venivano sigillati in grandi sacchi di plastica quindi messi in mare al posto che nei cassonetti.
Poi, dopo la visita a una pagoda di recente costruzione, ci dirigemmo alle cosiddette “villette fantasma”.
Nel 1908 Kep-sur-mer venne fondata dalla classe benestante francese su quello che un tempo era solo un villaggio con un paio di capanne di pescatori. Un audace esperimento che intendeva essere avanguardia di un moderno Sud-est asiatico.
Durante il suo doppio regno (dal 1941 al 1955 e nuovamente dal 1993 fino alla sua morte nel 2012) il lungimirante, anche se a volte un po’ ingenuo, re Norodom Sihanouk ebbe modo di coltivare la sua fantasia di una grande nazione Khmer, con l’intenzione di essere faro per la rinascita culturale dell’Indocina. In quest’ottica appoggiò l’esperimento New Khmer Architecture, un concentrato di idee moderniste occidentali (da Bauhaus a Richard Neutra e Le Corbusier) mescolate all’architettura tradizionale Khmer. Case su palafitte con scale impossibili, ampie finestre con geometrie bizzarre, ampie verande e terrazze.
Protagonista di questa era fu Vann Molyvann, un architetto cambogiano di Kampot che aveva studiato in Francia, come peraltro per ironia della sorte avevano fatto pochi anni prima anche molti dei leader dei Khmer Rossi.
Molyvann era figura di spicco nella Nuova Architettura Khmer, avendo lavorato su più di 100 progetti tra il 1953 e il 1970, quando riuscì a fuggire dopo il colpo di stato di Lon Nol.
I Khmer Rossi si accanirono su Kep, simbolo di tutto ciò che i comunisti cambogiani stavano combattendo: la ricchezza, l’alfabetizzazione, l’influenza occidentale, il tempo libero. Come ovunque in Cambogia, le persone erano costrette a lasciare le loro case e condotte nei campi di lavoro in campagna. Alcune ville furono rilevate dai capi dei Khmer Rossi, per la formazione dei loro quartier generale, ma la maggior parte venne abbandonata per anni, diventati poi decenni.
Volevamo vederle queste costruzioni ormai fatiscenti. Scorgemmo quelle che ancora costeggiavano il viale in cui Catherine Deneuve guidò la sua Cadillac durante Les annèes d’or, ma a fatica riconoscemmo quelle nascoste tra i cespugli e nella boscaglia.
L’edera tropicale strisciava su quelle scale tortuose, goffi graffiti decoravano le pareti, verdi per via di muschi e licheni, rifiuti senza età sparsi sul pavimento di stravaganti balconi.
Qualcuna era occupata da qualche famiglia contadina, tra bufali che pascolavano, vestiti appesi alle finestre senza vetri e bambini che giocavano. Erano poche le costruzioni acquistate da qualche riccone e in corso di restauro.
Se un giorno queste “villette fantasma” verranno recuperate, forse Kep potrà aspirare a diventare qualcosa di grande e vincere la scommessa d’essere la Saint-Tropez del Sud-est asiatico.
21 gennaio, una giornata in moto
Mi accorgo ora di non aver ancora detto con chi ho condiviso questo quasi imprevisto volo verso la Cambogia. Eravamo in cinque: Bibi, Andrea Cito Filomarino, Petra, Guya ed io. Organizzato un po’ in fretta, c’era comunque la speranza che con l’appoggio locale di Elena e Gilles ogni ostacolo sarebbe stato superato e tanta creatività avrebbe potuto svilupparsi. Accanto al grande entusiasmo della partenza c’era però la leggera preoccupazione che Petra avrebbe avuto qualche resistenza di adattamento alla vita locale. Per essere pienamente compresa, la cultura delle popolazioni asiatiche dev’essere prima di tutto accettata nelle manifestazioni più estreme (rumore, confusione, disordine, folla). E una come Petra, estremamente sensibile alle questioni igieniche e agli odori “esotici”, avrebbe potuto avere più difficoltà di altri.
La permanenza al Knai Bang Chatt era il giusto cuscinetto necessario per controbilanciare le emozioni del mondo che ci circondava con una rassicurante e comoda vita di albergo di buon gusto.
Per quella giornata noleggiammo tre motorini, guidati da Bibi, Andrea ed Elena, dietro ai quali si sarebbero seduti rispettivamente Petra, Guya ed io (che non ho mai avuto simpatia per i ciclomotori). Fu divertente la trattativa di noleggio che vide Andrea non tanto discutere sulle tariffe quanto volere per sé e a tutti i costi proprio il motorino con il quale si muoveva il proprietario. Ebbe successo, ma anche i nostri mezzi alla fine si comportarono bene per tutto il giorno. E li usammo, parecchio.
Iniziammo con la visita alle saline e al villaggio dei pescatori. La confusione era palpabile, anche se non paragonabile a quella del mercato: però la generale assenza di frenesia compensava le nostre esigenze di ordine.
Ciò che maggiormente disturbava era l’estremo degrado in cui versava la battigia, letteralmente invasa dai rifiuti, prevalentemente dalla plastica abbandonata. Le abitazioni erano delle palafitte sospese sullo schifo: gli abitanti ci vivevano a piedi nudi e noi ci meravigliavamo delle passerelle di legno di accesso alle case, ricoperte dalle ciabatte disposte in ordine, in contrasto con i rifiuti sottostanti.
Riuscivamo a controllare il disagio delle nostre coordinate mentali messe a confronto con le dinamiche del movimento umano attorno a noi ma non ci era possibile accettare la normalità di una plastica smisuratamente invasiva. Il pensiero che una tale condizione fosse assai probabilmente diffusa in pari modo nelle migliaia di km di costa del Sud-est e della Cina ci era decisamente insopportabile.
Mentre mi aggiravo in mezzo a quel brulicante sfacelo imponendomi di fare fotografie mi accorsi che la suola di una delle mie scarpe si stava staccando dalla tomaia. Interpretai questo fatto come il suggerimento di allentare le difese, togliere corrente al giochino delle foto che mi separava e favorire il contatto con quel suolo e con quella gente che, un po’ inconsapevolmente, ritenevo di minor valore nei rispetti di indiani, nepalesi, tibetani e anche islamici, complice l’assenza di manifestazioni in qualche modo religiose. Ma la cosa più incredibile fu che lo stesso incidente capitò ad Andrea, più o meno nello stesso momento!
Le suole furono attaccate in qualche modo con dello spago e proseguimmo il nostro viaggio fino quasi al confine con il Vietnam, dove il traffico di merci trasportate in modo pericoloso superava ogni limite. Poi, attraverso immense risaie popolate dalle onnipresenti bufale e sfiorando qualche pagoda, tutte nuove e prive di vero fascino al di là dei colori e delle forme, ci dirigemmo all’interno alla ricerca di un sito di arrampicata di cui avevo saputo su internet. Non per scalare (non avevamo portato alcun tipo di equipaggiamento) ma per vedere almeno che cosa poteva essere l’attrezzatura. Non che ci interessasse molto, tanto è vero che alla fine tralasciammo le ricerche, rinunciando davanti a un risalto che si affondava in uno stagno e preferimmo tornare sulla costa e a Kep.
A una grande cena nel nostro albergo seguì un’altra notte pienamente ristoratrice.
Hand in hand Cambodia
Questo progetto, ideato nel 2014, era parte integrante di una visione ancora più ampia, Embrace Cambodia, che intendeva far convivere crescita economica con bellezza e vulnerabilità ambientali, per una crescita sostenibile a lungo termine nella regione di Kep/Kampot.
Dal punto di vista turistico il “Best of Kep” si concentrava su tre pilastri, cioè il Parco nazionale di Kep, il litorale e le isole. Mentre la crescita economica nazionale si aggirava attorno al 7,5% annuo, nel 2013 la crescita del turismo in Cambogia aveva raggiunto addirittura il 19%.
Nel 2006 Knai Bang Chatt aveva avviato un programma quinquennale di sviluppo sostenibile nel villaggio di Chamcar Bei (zona di Phnom Voar), a 17 km da Kep. Attraverso un programma di sviluppo partecipativo e con un approccio olistico incentrato su programmi di salute, istruzione e generazione di reddito, si era lavorato “mano nella mano” con 550 famiglie guidandole nella creazione di una vita più sostenibile.
Il progetto era stato avviato con 40.000 $ e nel 2011 fu concluso con un budget finale di 1.000.000 $ e la consegna agli abitanti del villaggio.
Quindi Hand in hand nel 2015 fu avviato alla seconda fase, questa volta incentrata sulla conservazione e sulla crescita sostenibile della vita marina nella regione di Kep. Il progetto si concentrò su Koh Karang, una piccola isola situata a 8 km dalla costa di Krong Kep. L’isola era troppo piccola per essere sviluppata commercialmente o sfruttata per attività turistiche generiche. Era un’isola quasi inesistente che ospitava un solo guardiano e dove a volte i pescatori gettavano l’ancora durante le tempeste. Un’isola che nessuno voleva, ma con una bellezza intrinseca, circondata da coralli e vita marina.
Il progetto voleva proteggere l’isola e i suoi dintorni, preservare e valorizzare i coralli e la vita marina creandone un santuario; sostenere e istituire programmi di generazione di reddito; lavorare per l’istruzione e la sensibilizzazione dei pescatori; costruire una piattaforma di ricerca e tecnologia.
Sorvolando sugli aspetti legali ed economici del progetto (di dieci anni) e sugli aspetti più tecnici va precisato che per attuare un piano di sviluppo sostenibile, Knai Bang Chatt non aveva bisogno di “possedere” l’isola.
Il progetto non interferiva con alcun’altra idea di sviluppo nazionale o regionale esistente. Nessun funzionario né alcun magnate cambogiano era interessato a quell’isola. Che sarebbe stata restituita dopo 10 anni. Ecco perché quell’iniziativa privata meritava la necessaria attenzione.
Nella regione di Kep le risorse naturali locali erano sottoposte a forte pressione. Le condizioni ambientali non potevano migliorare se si pensava solo alla crescita economica e alla ricchezza personale, se si trascuravano le norme e i regolamenti e se non si implementava un sistema solido e controllabile. Attraverso la ricerca e l’istruzione, Koh Karang poteva fungere da “laboratorio del futuro”.
22 gennaio, Koh Karang
La mattina era dedicata alla visita all’isolotto di Koh Karang, il punto centrale del progetto cui stavano lavorando Elena e Gilles. Raggiunta la spiaggia di Krong Kep, salimmo su una barca a motore e traversammo gli 8 km di mare che ci separavano da Koh Karang. Quando sbarcammo, l’impressione fu quella di trovarci su un’isola che avrebbe potuto essere quella di Robinson Crusoe, senza possibilità d’incontrare alcun Venerdì. Gilles ed Elena ci fecero fare il giro, comprensivo del punto più alto (al massimo una decina di metri sul livello del mare), illustrandoci le proprietà naturalistiche del luogo e raccontandoci del progetto che ho cercato di esporvi qui sopra. Condividendone gli obiettivi, eravamo assai fieri dell’entusiasmo che i nostri ragazzi dimostravano, ma allo stesso tempo personalmente non riuscivo a distrarmi da due sensazioni un po’ fastidiose. La prima riguardava il mare che era ben lungi dai colori e dalla trasparenza cui tante località marittime ci hanno abituati. La nostra idea di “santuario marino” necessariamente ci riporta agli atolli del Pacifico, al mare dei Caraibi o della Thailandia piuttosto che al Mediterraneo della nostra Sardegna o della Grecia. Era il terzo giorno che avevo a che fare con un mare di color beige: e se prima potevo pensare che dipendesse dalla vicinanza dei centri abitati della costa ora, a 8 km di distanza, continuavo a non vedere differenza… Non sapevamo se era un fenomeno temporaneo o stagionale: e di parlarne con Gilles o Elena non me la sentivo.
La seconda sensazione aveva a che fare con l’esperienza che un italiano di media cultura e di media età necessariamente ha della burocrazia e della corruzione. Abituati alla nostra Italia e ai suoi scandali, non potevamo pensare a quante difficoltà i nostri potessero incontrare sul loro cammino idealistico. Ostacoli che in effetti Gilles ci confermava, raccontandoci episodi di corruzione piuttosto che di insabbiamento di buoni propositi.
– E’ tutta ‘na Camboggia! – se ne uscì Andrea seduto su un sasso mentre ascoltava.
Nessuno di noi l’aveva mai sentita, ma è un’espressione che si usa, anche se senza “tutta” e la doppia “g”. La frase idiomatica E’ ‘na Cambogia indica una situazione caotica (una caciara convulsa) e si riferisce alla feroce e sanguinosa guerra civile fra il 1967 e la metà degli anni ’80 costata alla Cambogia fra le 800mila e i 2 milioni e mezzo di vittime. Ma qui l’espressione perdeva il suo significato tragico di lutto e dolore per concentrarsi sul casino di interessi e di egoismi che forse gli italiani possono capire così bene da scoprirne pure gli aspetti più umoristici e simpatici.
Ad ogni modo ci fu uno scoppio d’ilarità che ancora oggi ogni tanto ci ricordiamo ridendo.
Tornati a Krong Kep continuammo i nostri giri. Andammo a visitare la Butterfly Farm, dove ci attendeva una miriade di farfalle colorate in uno splendido ambiente botanico. E’ un giardino ecologico privato, di proprietà di americani, dedicato alla conservazione dell’ambiente locale e a una formazione volta all’allevamento delle farfalle e al mercato delle esportazioni.
Attraversammo un rigoglioso giardino ricco di fiori di ogni tipo, che conduceva alla struttura principale: un rifugio ben curato al centro del parco. Il personale era cordiale e accogliente e ci guidò attraverso il processo di allevamento dei bruchi, spiegandoci il loro ciclo vitale e permettendoci di assistere alla loro trasformazione in farfalle (oltre 35 specie).
Poi c’inoltrammo nella “valle delle scimmie”, fino al Gibbon Valley Retreat, una pensione con bar che funge anche da affascinante (anche se un po’ bizzarro) zoo dove è possibile accarezzare scimmie (come la simpaticissima Kiwi), ma anche (chi vuole) serpenti e ricci.
“Tutti i bungalow qui hanno un campanaccio che gli ospiti possono suonare di notte se vengono visitati da uno degli animali selvatici locali e hanno un po’ di paura”, ci disse Nikki, co-proprietaria del Gibbon Valley proveniente dalla Tasmania. “Qui c’è tantissima fauna selvatica. I gibboni, ad esempio, erano una vista comune in questa parte del Parco Nazionale” continuò.
“Purtroppo, però, sono stati tutti cacciati per essere mangiati durante gli anni dei Khmer Rossi… Il nostro piano è quello di reintrodurli e la pensione e il bar sostengono questo obiettivo”.
Nel frattempo una scimmia accarezzava la testa di Andrea. Nessuno si accorse che la furbetta riusciva a fregargli le chiavi del motorino. Ma non sfuggì a Nikki che la costrinse a restituire il maltolto.
La difficoltà di raggiungere il Gibbon Valley Retreat, situato nel cuore del Parco Nazionale di Kep, alla fine di un sentiero roccioso, è parte del suo fascino unico. “Gli ospiti sono spesso piuttosto sorpresi quando li vado a prendere alla fermata dell’autobus”, ci disse Nikki mentre una delle sue scimmie macaco dalla coda corta le si arrampicava sulle spalle.
Ma, per quella giornata, le emozioni non erano finite. Alla sera, infatti, in luogo del normale pasto in hotel, era previsto l’invito a cena nella casa che Elena e Gilles abitavano. Ci arrivammo all’imbrunire, uno chalet che richiedeva qualche minuto di cammino dopo aver posteggiato i motorini. Era situato alla fine di una radura sul limitare della foresta, su un solitario rilievo dal quale si vedeva ben poco d’altro oltre alla natura attorno che, a quell’ora, ci sembrava particolarmente selvaggia. Facemmo a tempo per un commovente aperitivo sulla terrazza prima di ritirarci nell’angusto ma accogliente locale di soggiorno per la cena. Dove scoprimmo che loro due non erano gli unici abitanti, data la presenza tutt’altro che discreta di una quantità incredibile di gechi e altri generi di lucertoloni.
23 gennaio, La Plantation
Al mattino fummo iniziati alle piccole meraviglie del Sustainable Research Center di Kep, ovviamente gestito da Gilles ed Elena. Un centro di ricerca sostenibile si concentra sulla ricerca e l’innovazione per affrontare le sfide ambientali, sociali ed economiche, promuovendo pratiche che soddisfano le esigenze attuali senza compromettere le generazioni future. A Kep si agiva nell’agricoltura sostenibile, nell’economia circolare, nelle energie rinnovabili e nella gestione responsabile delle risorse. Dopo aver visto il laboratorio tessile e le coltivazioni idroponiche gestite con tanto amore da Elena e da qualche volonteroso allievo locale, fummo ingaggiati in un lavoro, che ci appassionò collettivamente, di tipico “upcycling”. Con un apposito strumento con punta di diamante incidemmo decine di bottiglie di vetro. L’incisione circolare veniva poi passata su una fiamma e infine immergevamo l’intera bottiglia nel ghiaccio. Bastava una leggera pressione per ottenere dal fondo della bottiglia un bellissimo bicchiere, il cui orlo in seguito passavamo a lungo con carta vetro sempre più fine.
Ci spostammo con un taxi verso la vicina Kampot, una città ben più grande di Kep. Prima di entrare nell’abitato, optammo per la deviazione del Secret Lake e dell’azienda di produzione del pepe La Plantation. E’ un grande sito di agriturismo sociale e responsabile che sapevamo aperto tutti i giorni dell’anno. Lì scoprimmo come vengono coltivati e lavorati il famoso pepe di Kampot, le spezie locali, i frutti e le piante. Al nostro arrivo fummo accolti da una guida che ci accompagnò in un tour della piantagione di pepe e spezie e del frutteto, spiegandoci i loro metodi di agricoltura biologica. Con orgoglio ci diceva che il pepe di Kampot era stato eletto il miglior pepe al mondo da chef e buongustai… In effetti ne fummo convinti e, dopo la degustazione, ciascuno di noi acquistò discrete quantità di pepe che ci durarono degli anni…
Fare il bagno in acque non trasparenti non è così spontaneo…
Per gli alpinisti anziani, con equilibrio compromesso e dolori da polimialgia, salire su una barca è impresa da non sottovalutare.
Per la notte Elena aveva riservato tre bungalow alla Greenhouse, un rilassante rifugio sul fiume a 8 km dalla città di Kampot. Dati i prezzi preferimmo non approfittare della pensione completa che ci avrebbe imposto i piatti francesi e cambogiani del famoso Snow’s bar.
Sempre nell’ottica del risparmio Elena aveva evitato i bungalow “Riverfront” con vista sul fiume e acqua calda, ma anche i “Deluxe”, uguali ma senza vista sul fiume. La scelta era caduta invece sui bungalow con bagno privato leggermente più piccoli con acqua fredda che si trovano più indietro rispetto al fiume. Dopo le notti al Knai Bang Chatt una sistemazione del genere significava un netto avvicinamento alla natura selvaggia… I bagni disponevano di servizi igienici adeguati, un grande specchio, lavandino e ripiano, e docce completamente chiuse. Avevamo un balcone con amaca e panchine, ma anche tavolino e sedie, che dava su un ben curato e incantevole giardino di fiori e rigogliose piante e alberi tropicali: stretti e tortuosi sentieri lastricati ci collegavano con la reception e con gli ambienti comuni. Un grosso cane amichevole di nome Momo pattugliava il terreno, tenendo d’occhio le galline che razzolavano liberamente. All’interno dei bungalow c’era un ventilatore a soffitto, una zanzariera e il soffitto di paglia era coperto da un telo protettivo. L’atmosfera era comunque molto rustica, sottolineata da sconosciuti rumori notturni e dalla presenza di molti insetti.
La traversata di un meandro buio in una grotta turistica cambogiana diverte di certo se fatta con i giovani.
Per la cena optammo, chissà perché, per il ristorante svizzero dell’Auberge du Soleil a Kampot. Ovviamente ci fu offerta la raclette: Andrea scoprì che il proprietario era del Vallese, lo stesso uomo che qualche anno prima aveva sistemato la lavastoviglie del Pinot noir, lo chalet che Andrea possiede a Verbier…!
24 gennaio, sul fiume Teuk Chhou
La prima parte della giornata fu dedicata ad un giro in barca sul maestoso fiume di Kampot, il Teuk Chhou. Guidati con professionalità dal sereno e tranquillo giovane svedese Bjorn, ne seguimmo il corso per parecchi chilometri, addentrandoci sempre di più in quella che ci sembrava la vera Cambogia, lontana dal traffico e dalla costa. Osservare il paesaggio da un fiume era come guardare la campagna che scorre attraversandola su un treno. Le curiosità si assommavano e la quiete del viaggio favoriva le domande a Bjorn che rispondeva sempre dando prova di conoscere quei posti quasi come un nativo. Faceva assai caldo e, a dispetto della lieve brezza provocata dal nostro moto, sudavamo copiosamente. Ci fermammo perciò per un veloce spuntino su una graziosa spiaggia sabbiosa: venne spontanea a più d’uno la voglia di un bagno.
Erano tanti però gli interrogativi legati a quel semplice desiderio. Guya, per esempio, era terrorizzata dalla possibile presenza in acqua di ogni genere d’essere vivente, fosse insetto o anfibio. Il colore del fiume non incoraggiava di certo, quel marroncino impediva la vista di qualunque animale. Ma, a poco a poco, incoraggiati da Bjorn, tutti cedettero al desiderio di frescura. L’ultima a immergersi fu Guya e comunque rimase ben vicina alla riva dove poteva toccare con ai piedi i sandali. Elena nuotava con sprezzo d’ogni pericolo (la corrente era davvero lenta). Io pensavo alle discariche selvagge e, grazie alla mia storica inimicizia con l’acqua, me ne guardai bene anche solo dal bagnarmi i piedi. Rimasi in mutande sulla spiaggia e sono convinto che nessuno osava sfottermi solo perché ero il reverendo padre. Ma dietro chissà quante me ne dissero… Qualcuno tirò fuori (e forse fui io) che, specialmente per le signore, uno dei pericoli più subdoli era proprio quello di ritrovarsi con qualche pesciolino o anche rettile-anfibio nelle parti intime… Chissà perché, dopo aver evocato quel genere di immagini, il bagno terminò, con molta più celerità di quando era iniziato.
Iniziò così il viaggio di ritorno, che vide qualcuno addormentarsi al sole e al ronzio del motore.
Nel pomeriggio ci risolvemmo a visitare le grotte di Phnom Chhnork. Le raggiungemmo dopo una breve camminata attraverso le risaie dal Wat Ang Sdok, curate meticolosamente. Pagata la tariffa d’ingresso ci ritrovammo come guida un ragazzo che parlava discretamente l’inglese ma la cui frase preferita (e ripetuta davvero molte volte), era un enigmatico “it is what it is”.
Una scalinata di 203 gradini, ben tenuta, risaliva il fianco della collina per poi scendere in un antro affascinante come una cattedrale gotica. Vedemmo subito la cosiddetta stalattite dell’elefante e la sagoma di un altro pachiderma riconoscibile sulla piatta parete di roccia sulla destra. C’erano due “camini” di roccia che svettavano verso il cielo, in parte coperti da fogliame di un verde rigoglioso. Si sentiva il brusio di una colonia di pipistrelli.
Nella camera principale della grotta c’era un tempio in mattoni, risalente al VII secolo (epoca Funan) e dedicato a Shiva. Quindi più antico degli iconici templi di Angkor Wat, il che lo rende uno dei monumenti storici più antichi della Cambogia. La struttura era in ottimo stato di conservazione perché la grotta lo proteggeva a dovere. Poi vedemmo la stalagmite che rappresentava il lingam (simbolo fallico).
Non c’era nessun altro turista in quel momento, perciò l’insieme di arte e natura nella solitudine avrebbe potuto creare quell’atmosfera mistica che i depliant promettevano, visti i grandi segreti che la tradizione aveva conservato riguardo a quel luogo. Ciò che nessuno conosce, neppure i più esperti, è sempre fonte di misteriosa attrazione. Le tranquille e fresche profondità della grotta avrebbero potuto trasportare in un’altra epoca, offrendo uno spazio sereno per la riflessione… come del resto suggeriva anche il sereno Buddha reclinato, simbolo di pace e spiritualità, adagiato all’interno della grotta.
Ma, da buoni visitatori occidentali, rimanevamo lontani dalla riflessione, dalla meditazione e in definitiva da ogni pace interiore.
Frizzi e lazzi nostri erano sottolineati dai ben collaudati commenti della guida, abituato a tenere alto l’interesse di un pubblico superficiale anche grazie a osservazioni ammiccanti al limite del buon gusto.
Non c’era modo di trovare un posto tranquillo, fare un respiro profondo e lasciarci avvolgere dalla quiete…
La grotta aveva anche un passaggio labirintico, tra stalattiti e stalagmiti, dal fondo irregolare e scivoloso, in un meandro che permetteva un’uscita alternativa adatta solo a chi non patisce di claustrofobia. Bibi e Guya rinunciarono, mentre noi ci avventurammo in quel budello roccioso. L’eccitazione di Petra ed Elena, ben avvertita dalla sensibilità della nostra guida maschio giovane, si traduceva in urletti e scherzi. Il totale congedo del silenzio.
La giornata terminò a Kampot, in un giro serale che non previde neppure una vera e propria cena, solo birra e stuzzichini.
Brindisi con birra cambogiana a Kampot.
Una visita al mercato di Kampot.
Continua la visita al mercato di Kampot là dove la normalità locale si scontra con la nostra distorta sensibilità.
25 e 26 gennaio, l’isola di Koh Thmei
Koh Thmei (Isola nuova), immediatamente a sud-est del promontorio di Sihanoukville, e la vicina isola di Koh Seh sono nel Parco Nazionale di Ream e ne costituiscono il terzo orientale. Purtroppo vi sono diversi progetti su larga scala, tra cui un ponte che dovrebbe collegare l’isola alla terraferma nel punto in cui questa è più vicina (circa 300 m). Ma nel 2017 non c’era ancora stata alcuna modifica. So però che all’inizio del 2018 lo sviluppo dell’isola ha subito un’accelerazione, in parte grazie al lancio del progetto Golden Silver Gulf Tourism Zone, che comprende Koh Thmei.
A dispetto dei soli 300 m, tutti i trasporti partivano dall’estuario del fiume Prek Toek Sap, cioè dal villaggio di pescatori di Koh K’chhang, a una distanza di circa 3 km a nord. Sull’isola non esistevano strade, neppure sterrate. Vi era un unico punto d’appoggio turistico, situato sulla costa sud-est, il Koh Thmei Resort.

Dal villaggio di Koh K’chhang (sull’estuario del fiume Prek Toek Sap) ci si imbarca con mediocri previsioni del tempo verso l’isola di Koh Thmei, nel Parco Nazionale di Ream.
Anche se dovevamo imbarcare il nostro bagaglio completo (non avevamo lasciato nulla a Kep), le operazioni furono veloci: purtroppo infatti sembrava che le previsioni meteo dessero un peggioramento del tempo, dunque mare molto mosso. A prescindere dal fatto che i giubbotti di salvataggio non erano sufficienti per tutti, una volta giunti più o meno a metà traversata, in mare aperto, la barca iniziò a basculare in modo preoccupante. Il marinaio locale era imperturbabile, così spiavo il volto di Andrea, grande skipper di provata esperienza e con centinaia di regate alle spalle: lo vedevo tranquillo, ma io non lo ero affatto. Ero l’unico, cazzo, ad avere paura. E non so se mi dava più fastidio la paura o il fatto d’essere il solo ad averla… So solo che ero l’unico a dichiararlo apertamente. Sul momento ero però anche contento che nessuno avesse le mie paturnie, così almeno non si creava alcuna psicosi collettiva… Ma poi, in seguito, realizzai che nessuno aveva fatto fotografie o riprese video: il che autorizza qualche dubbio sulla generale impavidità.
Ad ogni modo giungemmo a destinazione, una spiaggia deserta sulla quale sporgeva il verde della foresta. I bungalow erano celati tra grandi alberi, era davvero un bel posto. Peccato soltanto per la solita acqua color marroncino. Ma lì, in quelle acque basse tipo Adriatico, un bagno me lo concessi anch’io, perché nel frattempo il mare si era calmato. C’eravamo noi e due coppie di clienti del resort, una vera gioia! Perfino la minuscola stazione di polizia, in quella solitudine, era la benvenuta: ma, se c’era il poliziotto, di certo dormiva.
A metà pomeriggio, qualcuno stufo di prendere sole lanciò l’idea di fare una passeggiata all’interno dell’isola. Ci addentrammo perciò in una specie di giungla modesta seguendo una vaga traccia di passaggio di animali. Il cielo si era però coperto e, giunti ad un certo punto, non eravamo più sicuri del nostro orientamento. Così, giocando ai grandi esploratori, facemmo ritorno al litorale dove ci attendeva il rito dell’aperitivo.
Dopo una lussuosa cena ci concedemmo numerose partite a calcetto, sempre divertente. Dalle travi del soffitto di legno ci osservavano parecchi gechi, dei quali uno era veramente enorme, raggiungeva di certo i 40 cm di lunghezza.
La mattina dopo la tranquillità della situazione fu turbata da una lieve incazzatura di Elena. Mi aveva prestato la sera prima la sua Settimana Enigmistica e io la mattina presto prima di colazione le avevo fatto tutti i cruciverba considerati difficili. Questa limitazione, invece che giustificarmi, in realtà m’incolpava sempre di più, significando in tutta evidenza che io non la ritenevo così abile per risolverli…
Anche per smaltire quella piccola delusione, Elena si accodò a Bibi e Petra che avevano deciso di fare un altro giro nella “giungla”, mentre noi rimanevamo sulla spiaggia pronti a chiamare soccorso. In quell’escursione ci fu una serie di piccole gag filmate, al termine delle quali ci fu l’urlo disumano di Petra che aveva appena sfiorato una ragnatela con al centro un ragno enorme.
La serenità di una colazione sull’isola di Koh Thmei.
Giretto mattutino (26 gennaio 2017) di mamma e figlie nella giungla domestica dell’isola di Koh Thmei, con sorpresa finale.
Trasferta aerea da Sihanoukville a Siem Reap. Ognuno esprime i propri desideri.
La barca venne a prenderci puntuale e quindi, toccata la terraferma, il nostro viaggio proseguì in auto fino all’aeroporto di Sihanoukville. Da lì ci recammo in volo all’interno della Cambogia, a Siem Reap. Raggiungemmo la nostra sistemazione in tuk tuk, cantando a squarciagola le canzoni cambogiane che conosceva Elena. L’albergo era di buon livello.
27 gennaio, Angkor Wat
Il gruppo, dopo aver sperimentato tanta gradita solitudine, temeva che la visita agli stranoti templi di Angkor Wat fosse un po’ spiacevole per via della prevedibile folla di turisti.
– A me però non importa che là ci sia tanta gente… l’importante è che non ci siano molti cinesi! – enunciai.
La mia avversione per il popolo cinese e anche per la sua cucina che allora mi era stomachevole era cosa nota a tutti i familiari. Era più forte di me, non riuscivo a sopportare le modalità (da me toccate con mano durante il viaggio del 2000) con le quali il popolo tibetano aveva dovuto annullarsi di fronte allo strapotere cinese. In realtà, ora che è passato qualche anno in più, il mio malessere nei confronti dei cinesi si è decisamente smorzato. Ma nel 2017 era ancora abbastanza un nervo scoperto.
Il 27 gennaio a cuor leggero ci facemmo trasportare ai templi e quasi subito scoprimmo che, già di prima mattina, c’era una vera e propria invasione di cinesi… Le code per l’acquisto dei biglietti si svolgevano in un ambiente paragonabile a quello della Stazione Centrale di Milano a fine anni Sessanta…
La dura realtà era che il giorno dopo, il 28, sarebbero cominciate le due settimane di festeggiamenti per il… Capodanno cinese!
Questa sgradita coincidenza ci fece ancor più concentrare nella visita, che continuò per tutto il giorno, di Angkor Wat; ma la cavalcata continuò senza sconti anche a Bayon, Baphuon, Ta Nei, fino a Ta Prohm. In questi siti giganteschi, strapieni di cose da vedere, la folla cinese ci circondava di continuo. Per fare una foto erano estenuanti attese e goffe acrobazie. Devo riconoscere che la gente era abbastanza ordinata, rispettosa delle file e soprattutto decentemente silenziosa. Ma ciò non bastava a non fare apparire assurdo quel rivolgersi all’arte maestosa di quei siti come ad una torta di nozze da tagliare a fette. Tutti dovevano avere la loro parte, nessuno rinunciava al selfie obbligatorio, imperversava la prolunga del selfie stick, spinto commercialmente proprio da aziende cinesi. C’era un’infinità di chioschi che vendeva i peggiori souvenir di plastica. Gruppi di ragazze che cinguettavano a bassa voce tra di loro, bambini che si perdevano e piangevano, gente che si accasciava all’ombra di qualche muro, anziani in evidente difficoltà, padri che dietro ai loro occhialini leggevano le guide a mogli e figli attenti, guide cambogiane che gestivano gruppi anche di trenta o quaranta persone con consumata precisione. Per tutte quelle ore ci concedemmo solo delle pannocchie di granturco e qualche bibita. Alla sera eravamo davvero sfiniti, pure la nostra guida confessava di esserlo: ma non so quanta di quella bellezza abbia potuto rimanere dentro di noi.
Il nostro albergo ci attendeva a Siem Reap con tutti i suoi comfort: aperitivo, cena e buon umore ci fecero presto dimenticare ciò che avevamo appreso in quelle condizioni di consumismo drammatico. Tramite ovviamente altro consumo…
28 gennaio, Tonlé Sap Lake
Il giorno dopo fu dedicato a una località assai vitale, il Tonlé Sap Lake, dal 2001 zona dichiarata “riserva della biosfera” da parte dall’UNESCO.
Un lago nel cuore della Cambogia, sulle cui rive vivono tre milioni di persone, molto diverso dai normali più o meno grandi specchi d’acqua. Pare che vi si peschi più della metà del pesce consumato nel resto del territorio.
Ciò che rende davvero straordinario il Tonlé Sap è il mutamento subitaneo e radicale cui va incontro nella stagione delle piogge (da giugno a ottobre) il più grande bacino di acqua dolce di tutto il Sud-est asiatico.
La superficie quadruplica (mediamente, da 3.000 a 12.000 km2) e la profondità passa da 2 a 10 metri. Le foreste tutt’intorno vengono allagate e le acque del fiume Tonlé Sap, normalmente emissario del lago, vengono riconvogliate all’interno del bacino dall’imponente Mekong.
Si verifica l’inversione della corrente, perciò una quantità immensa di acqua torna all’interno per diventare il perfetto luogo di riproduzione di ogni tipo di pesce, il che attira uccelli da ogni parte.
Il poco tempo a disposizione ci costrinse a limitare i nostri interessi alla visita ai villaggi galleggianti che ne costeggiano le rive, anche se la stagione secca non favoriva certo la grandiosità di un paesaggio dominato dall’acqua.
Vedemmo come in questi villaggi tutta la vita si svolga sul lago. Mercati, scuole, officine, luoghi di meditazione e preghiera, pescherie. Questa gente e l’acqua sono un organismo unico, in piena simbiosi con l’ambiente circostante.
A Chong Kneas ci dissero che durante la stagione delle piogge, quando il lago aumenta drasticamente in profondità e superficie, il villaggio si sposta per diversi chilometri.
Ma questo equilibrio era grandemente minacciato. Come sulla costa marittima, anche qui la spazzatura e la plastica imperavano e non sembrava che la gente se ne rendesse conto.

Mille cose da vedere comunque attorno, sopra e sotto alle palafitte. Dai capannelli di gioco d’azzardo con bambini ai sorrisi di chi veniva fotografato, fino agli inviti in casa. Elena e Bibi furono introdotte ad una festicciola, noi altri quattro preferimmo continuare a girare quel mondo pieno di vita.
Poi visitammo un centro tessile dove si lavorava la seta, nonché il grande mercato. Mi rifiutai, contrariamente ai miei compagni, di visitare le piscine dei coccodrilli, preferendo altri particolari di quel posto meraviglioso.
La sera, a Siem Reap, cenammo nel gigantesco Koulen Restaurant, una roba di almeno 1.500 coperti. Alla fine fu offerto a tutti i clienti (una platea immensa) uno speciale spettacolo di danza.
La visita di Elena e Bibi a una casa privata di Chong Kneas.
29 gennaio, ritorno a Phnom Penh
Il mattino dopo imbarcammo il nostro bagaglio su un pullmino Mercedes per fare ritorno a Phnom Penh, un viaggio da 315 km, davvero molti per gli standard asiatici. L’amico Luca Mozzati mi aveva raccomandato la visita ad alcuni templi situati sulla strada, poco conosciuti ma a suo dire bellissimi e soprattutto senza tanto turismo. La sosta a Sambor Prei Kuk ripagò e sostituì in memoria la deprimente esperienza di Angkor Wat.
Incontro con la piccola venditrice di sciarpe a Sambor Prei Kuk .
Sambor Prei Kuk è comunque il gruppo di monumenti preangkoriani più imponente della Cambogia e comprende più di 100 templi (prevalentemente in mattoni) disseminati nella foresta, alcuni dei quali sono tra i più antichi del paese, roba del VII secolo.
Visitammo l’intero complesso principale, costituito da tre gruppi di templi, ognuno racchiuso dai resti di due mura concentriche. Molte delle statue originali le vedemmo il giorno dopo al Museo Nazionale di Phnom Penh.
All’inizio degli anni Settanta Sambor Prei Kuk fu bombardata dall’aviazione americana che supportava la lotta del governo di Lon Nol contro i Khmer Rossi: alcuni dei crateri delle bombe, pericolosamente vicini ai templi, li vedemmo pure noi. Ombreggiata e ricoperta di foreste, Sambor Prei Kuk aveva un’atmosfera serena e rilassante sottolineata dai suoi sentieri sabbiosi.
Verso le 14 riprendemmo il viaggio. Tutto sembrava filare liscio, anche grazie alla buona guida del nostro autista, su una strada asfaltata e neppure troppo trafficata. Ma verso le 15.30 qualcosa successe a quel motore. Raggiungemmo a fatica l’abitato della cittadina di Kampong Thma, dove l’autista sapeva essere una buona officina.
Faceva un caldo esagerato, il verde e l’ombra di Sambor Prei Kuk aveva lasciato luogo alla polvere appiccicosa di una cittadina senz’altra attrattiva che il consueto brulichio. Non si sapeva quanto tempo la riparazione avrebbe richiesto, la giornata sembrava sfumare nell’indefinito disprezzo di ogni programma. Ci sedemmo ai tavolini di un bar purtroppo in pieno sole, non c’era altro vicino all’officina. Elena ed io ordinammo qualcosa da mangiare, di aspetto e di odore così repulsivo da allontanare la povera Petra che stava cedendo. Il caldo la faceva stare male.
– Vorrei una pesca… non ci sarà qualche banchetto che vende pesche?
– Improbabile – risposi senza molta pietà – però c’è sicuramente altro genere di frutta.
– Basta, fa un caldo bestiale… non ne posso più… voglio tornare a Berlino! Sì, voglio casa mia a Berlino, con le mie comodità, nel pulito e soprattutto con quel freddo che ti fa rannicchiare nel cappotto…
Andrea ed io facevamo continue spole verso l’officina per vedere a che punto eravamo e per valutare soprattutto se era il caso di prendere un altro taxi, visto che avevamo l’albergo prenotato a Phnom Penh, che la strada era ancora lunga e che la notte dopo avremmo fatto ritorno in Europa.
Nel frattempo Bibi, Elena e Petra giravano il mercato alla ricerca di frutta che potesse soddisfare Petra, sempre più depressa. Poi Bibi fece a Elena la ceretta alle gambe… l’ultima cosa che ci si potrebbe aspettare da persone normali in quella situazione.
Insomma eravamo tutti di cattivo umore: ma in quella arrivò la notizia che il Mercedes era stato riparato e si poteva ripartire. Giungemmo all’albergo di Phnom Penh poco prima di mezzanotte, ostacolati da un traffico serale esagerato.
30 gennaio, Toul Sleng
Dedicammo la mattina intera alla visita del Museo del genocidio di Tuol Sleng. Conoscevamo per cultura generale gli orrori del periodo dei Khmer Rossi, ma non immaginavamo che l’uomo potesse raggiungere quei vertici di crudeltà. Ne uscimmo sconvolti, arricchiti dalla sofferenza di tutti quei martiri innocenti.
Il numero di morti attribuibile al regime dei Khmer Rossi varia a seconda delle fonti, ma in generale si colloca tra 1,5 e 2 milioni di persone negli anni 1975–1979, ma qualcuno parla di 3 milioni. In quel periodo il Paese perse tra il 21% e il 24% della sua popolazione di allora.
Sono stati rinvenuti circa 1,3 milioni di vittime sospette di esecuzione in 23.745 fosse comuni.
Wikipedia riporta che:
“Non venivano usati i proiettili perché ‘… sono troppo costosi per simili esecuzioni’, come affermato dal direttore del centro, il Compagno Duch. Questi rivelò anche più macabri dettagli, quali il fatto che fosse obbligatorio per guardie e carnefici mostrare allegria durante la strage perché la tristezza sarebbe stata vista come una sorta di partecipazione al tragico destino degli epurandi, quindi un pericoloso indice di presunta colpevolezza anche da parte del personale di sicurezza. Per tal motivo era la norma che costoro ridessero durante la strage da loro stessi perpetrata. Le uccisioni erano collettive, ma al momento dell’esecuzione si era uccisi singolarmente. Le esecuzioni avvenivano – previo trasporto dei prigionieri su autocarri in numero di venti condannati per ogni camion, da Tuol Sleng a Choeung Ek – all’imbrunire, perdurando fino a notte fonda”.
I cartelli esplicativi raccontavano delle realtà pazzesche e il linguaggio museale ne amplificava l’emozione. Fu con sollievo che uscimmo da là e andammo a visitare il Museo Nazionale di Phnom Penh.
Nel tardo pomeriggio ci recammo ad uno dei tanti mercati. Petra aveva rotto la valigia e c’era bisogno di comprarne una. Fu l’ultima occasione di vedere i cibi più rivoltanti e di sentire gli odori più esotici. Mentre si definiva l’acquisto con quello che ormai avevamo soprannominato “il sig. Beatles”, Elena gli disse che era in grado di contare fino a venti in lingua cambogiana. Beatles non ci credeva e la sfidò. Furbescamente Elena faceva finta di esitare sulla sua affermazione, così il venditore (che a tutti i costi voleva chiudere la giornata con una buona vendita) le promise uno sconto del 30% se l’avesse sentita sciorinare tutti quei numeri. Alla fine Elena accettò, vinse la scommessa e tutti noi ce ne tornammo in albergo con un bel valigione nuovo made in China.
In tarda serata avevamo il volo di ritorno: la vacanza di dieci giorni era finita, con un bilancio che ci ricordava la dolcezza e la simpatia del popolo cambogiano. Un popolo che ha superato la tremenda prova dei Khmer Rossi poteva farlo solo grazie al suo carattere mite. Un contrasto che ci resterà sempre nel cuore.
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Spettacolare
Massacrante.
Anche per l’enorme assortimento di vestiti e cura nel portarli.
Con tutto quello che ho daffare più di un’ora mi hai preso…. però che carrellata camboggiana, bello bello!!!