In un tempo in cui il femminismo ha perduto i propri confini, che appaiono quanto mai sfumati come quelli di tutti i valori umani, e viene spesso scambiato per la volontà di acquisizione di caratteristiche maschili da parte delle donne – aspetto che finisce per destabilizzare anche l’universo maschile – sento opportuno mettere in risalto alcune pratiche proposte dalla Libreria delle Donne di Milano, che oltre a essere editrice e punto vendita, offre momenti di aggregazione e scambio che possono promuovere l’identità femminile e maschile, rafforzando la capacità di preservare il proprio benessere e far valere i propri diritti alla vita.
La Libreria delle Donne di Milano conferma d’essere da sempre, più che una semplice libreria, un prezioso presidio culturale.
I brani proposti sono una selezione di uno dei Quaderni di Via Dogana, dal titolo Femminismo Mon Amour – Pratiche femministe per donne e uomini (Grazia Pitruzzella).
Autocoscienza… ancora?
di Silvia Motta
È possibile oggi, ancora, riproporre e praticare l’autocoscienza, cioè quella potente invenzione politica che come una formula magica è stata alla base della miriade di gruppi che con la loro esistenza hanno dato vita al movimento femminista degli anni ’70?
Continuo a fare dentro di me il confronto tra allora e oggi, a cercare di capire perché in quegli anni l’autocoscienza si è imposta con tanta velocità e facilità, mentre oggi, pur riconoscendone l’importanza e il valore, se ne constata anche la difficoltà.
Le giovani chiedono a noi più anziane come si fa a fare l’autocoscienza. In questa domanda c’è secondo me la grande differenza tra la situazione degli anni ’70 e quella di adesso. Allora godevamo di un con testo molto favorevole: c’era stato il ’68.
Le studentesse e gli studenti del ’68, da pochissimo presenti in massa nelle università, si sono trovate/i nella condizione di poter esprimere tutto il loro disagio e la loro avversità verso un mondo dove la famiglia e la società erano un concentrato di autoritarismo e di divieti. Per le studentesse in particolare questo ha significato, insieme alla presa di coscienza rispetto alle disuguaglianze sociali, l’avvio di un processo di consapevolezza su di sé in quanto donne.
Questo in quanto donne è stato la chiave che ha aperto alla nascita del movimento. Mettere al centro il proprio essere donne è stato un gesto di profonda rottura rispetto al millenario oscuramento ed emarginazione che avevamo ereditato e noi stesse interiorizzato. Si è concretizzato nel riunirsi solo tra donne, cosa che oggi può apparire un po’ scontata perché le donne si sono fatte più spazio nella società e nel mondo. Allora invece suscitavamo riprovazione, sospetto, incomprensione o ilarità.
Per i compagni dell’Università di Sociologia di Trento dove allora ero andata a studiare, l’allontanamento di quasi tutte le donne dalla politica del movimento studentesco è stato un trauma, una cosa incomprensibile perché le relazioni erano amichevoli, piacevoli, improntate prevalentemente al rispetto e alla stima. Ma noi ragazze, senza ripensamenti, avevamo bisogno di una stanza tutta per noi.
La forza di questo gesto di separazione ha reso spontaneo, privo di artificiosità quello che avveniva nel gruppo di autocoscienza e il metodo degli incontri. Chi voleva si metteva in gioco parlando di un problema legato all’essere studentessa – cioè di sesso femminile – e questo apriva lo scambio e il confronto fra tutte per rielaborare, oltre le proprie percezioni e proiezioni, la specificità di una condizione di sotto missione che ci accomunava e che volevamo smantellare. A questo proposito, i documenti delle donne americane e quelli di gruppi di donne italiane preesistenti al movimento delle studentesse (DEMAU, Rivolta Femminile) ci hanno fornito contenuti fondamentali. Questo ha avviato un processo di cambiamento che ha avuto grandi conseguenze sul piano personale e sociale.
Oggi non è più cosi. Tante, troppe cose sono cambiate perché si possa riprodurre tout court questa onda spontanea e gioiosa che portava a riunirsi, aggregarsi, prendere la parola, agire. E produrre vistosi cambiamenti nella società.
Il contesto adesso, per un insieme di ragioni, è molto più complesso. Non c’è più quel clima sociale favorevole, quell’energia che ha caratterizzato gli anni ’70, che ha funzionato da motore del cambiamento, favorendo così “il nuovo” e anche la nascita di quel movimento di donne.
Inoltre, non c’è più la necessità e l’urgenza che sentivamo allora e che ci aveva così motivato, proprio perché le conquiste fatte hanno aperto spazi (o sprazzi) di libertà femminile prima inesistenti. D’altra parte quelle che per noi “vecchie” sono state grandi conquiste, per chi allora non era neppure nata sono qualcosa di naturale, scontato. È il mondo (migliore) che hanno trovato.
Questo non vuol dire che non ci sia più presenza attiva, visibile e politica delle donne nella società. Basti pensare al #MeToo, dove la presa di coscienza delle donne che hanno denunciato e la dinamica di contagio mondiale che ne è derivata, ricorda moltissimo quel che è avvenuto negli anni ’70. E ancora, la denuncia e la lotta contro la violenza dei maschi (molestie e femminicidi) è una bandiera intorno alla quale si riempiono le piazze in tutto il mondo. È di pochi giorni fa l’ondata di riprovazione che ha suscitato, non solo in Spagna, il bacio rubato a Jenni Hermoso, la calciatrice della Nazionale femminile, dal presidente della Federcalcio.
Purtroppo queste azioni tendono a risolversi in leggi contingenti, deboli, spesso inutili e fatte male da maschi e anche da donne che non amano riconoscersi come donne. Sono leggi incapaci, per loro natura, di operare a una reale modificazione della cultura e dei comportamenti diffusi. Anzi, il panorama attuale ci restituisce una situazione davvero critica dove addirittura si tenta di portare indietro le cose e smantellare le preziosissime conquiste fatte dal movimento delle donne.
Se quanto detto può mettere a fuoco alcuni aspetti delle difficoltà soggettive che complicano oggi il risorgere dei gruppi di autocoscienza nella forma esatta di com’era agli esordi del femminismo degli anni ’70, che dire del fatto che questo dovrebbe realizzarsi in una società gran demente diversa da quella di cinquant’anni fa? Una società dove la rivoluzione tecnologica – questa sì – ha cambiato modalità di comunicazione, di relazione, di lavoro e di organizzazione? Un mondo dove altri problemi che in quegli anni poco ci sfioravano, come il cambiamento climatico e lo spostamento di grandi masse di persone sul pianeta, oggi si impongono come una realtà quotidiana e urgente?
Quindi, in questo contesto, cosa può voler dire riproporre o continuare a fare l’autocoscienza si sintetizza per me in questi punti:
– l’autocoscienza, cioè il partire da sé per andare oltre sé come metodo e forma di pensiero, è ciò che intendiamo e continuiamo a inten dere come base del fare politica, tutta la politica, non solo quella che ri guarda le donne;
– gli strumenti a disposizione per fare politica si sono moltiplicati, per tutti e anche per noi donne. Questa è una meravigliosa opportunità e un vantaggio, ma anche un possibile ostacolo. È un vantaggio perché ci permette una capillarità prima sconosciuta per realizzare forme nuove di organizzazione e di scambio. Le ragazze oggi possono utilizzare i social, aprire siti o realizzare podcast. È invece un ostacolo se l’incontro in presenza, in carne e ossa, viene relativizzato o del tutto scavalcato. Parliamone ancora per andare avanti.
(6 ottobre 2023)
Autocoscienza e storia vivente
di Marina Santini e Luciana Tavernini
Da anni facciamo parte di una Comunità di storia vivente, prima quella di Milano e dal 2019 di quella di SAMI (Savona-Milano). La storia vivente è un’invenzione simbolica di Marirì Martinengo la cui pratica prende avvio nel 2006 dopo la pubblicazione del suo libro La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna «sottratta» (1) e il riconoscimento da parte di Maria Milagros Rivera Garretas del suo portato innovativo per la storia.
La pratica della storia vivente mantiene elementi dell’autocoscienza che alcune di noi negli anni Settanta hanno praticato.
Come allora si svolge in un piccolo gruppo di donne che si incontra periodicamente e che mette al centro il partire da sé per l’espressione dell’esperienza di ciascuna. C’è il desiderio di interrogarsi a fondo, in relazione con le altre che ascoltano e pongono domande perché sentono risuonare in sé le tue parole. Sono le altre, in una circolarità di fiducia, che ti danno misura, aiutano a far emergere il tuo vissuto e a trova re le parole per raccontarlo. Con la pratica della storia vivente cresce la coscienza dell’energia che le relazioni duali portano nel gruppo. Quello che si indaga sono i nodi personali che ciascuna si porta dentro e di cui non ha mai parlato, che l’hanno imbrigliata perché l’interpretazione corrente era patriarcale, falsa e non corrispondente alla propria esperienza.
Per trovare un simbolico che la rappresenti cerchiamo di individuare nel nostro vissuto una “immagine guida”, cioè la visione di una si situazione concreta in cui si è creato il groviglio. E ritornandoci in «un percorso a spirale, creiamo un doppio movimento: un’immersione profonda in sé che faccia affiorare una verità soggettiva e la offra alle altre che, riconoscendola e aiutando a illuminarla, permettono di renderla pubblica» (2), con la scrittura.
È l’atto trasformativo che libera la singola e fa nascere una nuova storia. Se come si dice “tutta la storia è storia contemporanea” perché fa storia ciò che interessa al presente, la storia vivente non pone più al centro il potere e le dinamiche sociali, ma come scrive Marta Milagros Rivera Garretas «fa la rivoluzione di dire e mostrare che ciò che interessa al presente, a ogni presente, è il sentire dei vissuti di donne e uomini che viviamo nel mondo e sono vissuti costitutivi dell’essere» (3). Da quando i nostri vissuti non sono più deformati o annullati da interpretazioni ideologiche, camminiamo più leggere e incisive nel mondo.
(13 novembre 2023)
Note
(1) Marirì Martinéngo, La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna «sottratta», ECIG, Genova 2005.
(2) Comunità di storia vivente di Milano (a cura di), La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi, Moretti&Vitali, 2018, p. 126
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Scrive ilfetido al commento #33 de “Delle comete e di quello che ne rimane”
Certo che se nel 2025 una donna, che fa video stupidi finché si vuole ed sfrutta la propria bellezza per fare soldi, è ancora definita “una troietta”, allora di strada non è che ne abbiamo fatta tanta.
En passant, visto che sono una capra ignorante, chiedo a te, o a uno dei tanti eruditi commentatori, qual è il maschile di “troietta”, il maschile di “sgualdrina”, il femminile di “galantuomo”.
Qualcuno mi aiuta?
PS: rispondo qui perché nell’altro topic sarei stato fuori tema.
Crovella @16:
Ma davvero?!?
Proprio come le generazioni precedenti!
Chi l’avrebbe mai detto?!?
Ma dai… parlare oggi, nel Terzo Millennio (!), di autocoscienza è roba da secolo scorso, da collettivi studenteschi degli anni Settanta, da frasi condite dal classicissimo “nella misura in cui…”, ecc ecc ecc. Come se viaggiassimo ancora sulla 127! E’ roba da soffitta ideologica. Le prime che rifiutano questo approccio sono le nuove generazioni femminili che, ribadisco (perché lo verifico sistematicamente nel mondo del lavoro), vogliono raggiungere gli obiettivi perché sono professionalmente “brave” e NON perché sono “donne”
Grazie a te che hai scritto, e quindi cosa ne pensi del tema dell’articolo?
Grazie, Fabio e Placido.
Invito tutti gli altri – bravi a scrivere sotto uno pseudonimo e non) a leggere con attenzione l’articolo (non solo questa volta) e a guardarsi intorno, visto che sono profonde le differenze tra uomini e donne e preziose sono le loro virtù, se si hanno gli strumenti e le capacità per metterle a frutto.
Non tutti hanno il coraggio d’essere profondamente uomini e donne.
Ci può essere anche un’altra chiave di lettura. Per fare esplodere davvero l’economia basata sul consumismo non c’era di meglio da fare che dare uno stipendio/salario alle donne …eh via il gioco è fatto……”lo stipendio è mio e lo gestisco io”……. libertà /denaro/consumo…….fine della liberta…..o meglio libertà di consumare
Riassunto del commento #5:
“Bimbe, vi abbiamo lasciato sfogare e vi abbiamo fatto qualche concessione, quindi adesso basta: fate le brave e smettetela di infastidirci, che abbiamo altro a cui pensare.”
Arriverà un giorno, abbastanza presto temo, in cui le donne si lamenteranno del fatto di essere solo loro a dover partorire e gli uomini risponderanno che i problemi alla prostata non è giusto vengano solo a loro…..e così dopo tutto essere sapiens aver scoperto la fisica quantistica e tante altre belle cose …..non è servito a molto…..
il personale non è per niente politico, purtoppo, ora
e le vogliamo sempre più fighe, anche se ci piace cucinare
Chi si sobbarca ancora la cura della casa e dell’intera famiglia, pur lavorando anch’essa fuori, eh, chi?
Trova la differenza…
Merci Fabio.
Carlo, sante parole.
Bruno io credo che sostanzialmente una donna sia un essere umano femmina adulto.
Mentre un uomo è un essere umano maschio adulto.
Fine della discussione.
Non voglio aprire fronti di guerra né tanto meno polemizzare/ferire specifiche persone, ma esprimo, con serenità, una considerazione generale che affonda più o meno nello stesso substrato: io mi sono rotto della continua litania che noi maschi siamo “colpevoli”. Certo vi sono specifici individui fragili e/o “marci dentro” che ammazzano donne solo perché li hanno lasciati oppure altri che scrivono commenti da caserma in calce a foto femminili, come riporta la cronaca di questi giorni. Ma il fatto che l’intero genere maschile sia da considerare abominevole mi infastidisce assai. A suo modo questa tesi è la corrispondente, sull’altro fronte, di ciò che fanno i commentatori “volgari”.
Anche il tema del cosiddetto gender gap è ora che vada attenuato nei toni. Che fosse giusto lasciare legittimo spazio alle donne era talmente ovvio che infatti è accaduto. Però molto è alle spalle. Guardando in giro per il mondo ormai abbiamo sistematicamente donne che occupano posizioni di rilievo come Premier di governo, leader dell’opposizioni, presidenti della Corte Costituzionale, amministratrici di grandi aziende, giornaliste, intellettuali, scrittrici ecc ecc ecc. Che invece le donne (intese come “insieme”) debbano ancora acquisire ulteriore forza e consapevolezza (rispetto a quelle che hanno già) nella “lotta di genere”, a me pare una tesi viziata da un rancore di fondo, che oggi, nella stessa caparbia intensità, non ha più lo ragion d’essere di 50 anni fa. Insomma, ai mie personali occhi, è uno dei tanti rimasugli ideologici del Novecento… Infatti mi pare che tale tesi sia sostanzialmente sbandierata da persone “non giovanissime”, mentre (salvo eccezioni che ci possono sempre essere) le generazioni femminili più recenti non stanno a perdersi in queste discussioni di principio, ma vanno diritte “sul pezzo” e affrontano la vita con un approccio quasi esclusivamente meritocratico: vogliono arrivare agli obiettivi perché sono “brave” e non perché sono donne.
Dice il saggio: “La grazia femminile è una di quelle cose che rendono piú bello il mondo”.
Se per autocoscienza si intende la coscienza che le donne hanno di sé stesse in quanto donne, nasce spontanea una domanda: qual è la differenza tra le donne e gli uomini? Una volta c’era l’opposizione tra la gentilezza femminile e la violenza maschile, tra la grazia femminile e la forza maschile, per esempio, ma oggi nulla impedisce alle donne di essere forti né agli uomini di essere gentili. Basta considerare lo sport per esempio, dove le differenze tra le prestazioni tra i sessi vanno scomparendo, oppure la guerra. Negli eserciti moderni è pieno di donne pronte a prendere le armi per difendere la patria. Voglio dire: se non ci sono più differenze, che senso ha riunirsi per riflettere sulla differenza, su una cosa che non esiste? Al di là delle differenze e delle discriminazioni gli uomini e le donne si ritroveranano insieme negli stessi valori universali o almeno condivisi.
Ciao Bruno, perché non ti sembra possibile proporre l’autocoscienza?
La crisi del femminismo dipende in buona parte dall”inconsistenza del suo postulato fondamentale. Non è possibile riproporre ancora l’autocoscienza come coscienza di sé, come la differenza tra gli uomini e le donne, senza sapere mai in che cosa consista la differenza.