Giulio Giorello – 3 (3-3)
(continua da https://gognablog.sherpa-gate.com/giulio-giorello-2/)
La ricerca è un dramma. Me lo ha fatto scoprire lui
di Maria Elisabetta Marelli (la regista)
(pubblicato su la Lettura il 12 luglio 2020)
«Siamo esseri finiti e finita è la nostra prospettiva». Era un pomeriggio d’autunno quello in cui davanti a una birra, rigorosamente irlandese, Giulio Giorello mi parlava di Luca Ronconi e di come era riuscito a mettere in scena l’Infinito, il concetto della matematica per definizione irrappresentabile. Eppure il regista aveva mostrato in modo plastico proprio le grandi lotte di idee dentro la matematica dell’infinito. Eravamo passati a un «whiskino», come usava ordinarlo al bar; l’amico Bernardi che ci aveva messi seduti allo stesso tavolo se n’era ormai andato, lasciandoci a parlare di teatro.

Con l’indole fanciullesca che lo contraddistingueva, Giorello si mostrava incuriosito dal fatto che volessi dedicarmi ad Alan Turing rappresentando i suoi scritti, rielaborando e mettendo in scena, in tempo reale, i suoi studi e il suo pensiero. Aveva a quel punto accettato di farmi da consulente scientifico. Riteneva che proprio per il fatto che quella di Turing fosse stata una rivoluzione non ancora finita, la curiosità intorno a lui sarebbe cresciuta sempre di più mostrandola al grande pubblico; e sarebbe cresciuta in ugual misura anche tra gli addetti ai lavori, che a teatro sarebbero arrivati proprio per «vedere» la messa in scena delle idee, e dare forma a ciò che per loro natura dovrebbe rimanere nella sfera della logica. Mi faceva notare che «teatro e teoria hanno la stessa radice comune e anche idea se la si pensa in greco». Era chiaro quindi che il teatro e la scienza fossero per lui strettamente legati e che la storia l’aveva già mostrato: mi ricordava ad esempio Galileo, che scriveva la scienza in forma di dialogo.
Giorello vedeva quella di Alan Turing come la quarta rivoluzione, quarta di una serie in cui l’orgoglio umano aveva perso qualche pezzo. La prima era stata quella copernicana che aveva avuto nella sintesi di Newton la sua maggiore conquista e l’uomo perdeva la pretesa di essere al centro del cosmo; la seconda — diceva — era stata la rivoluzione darwiniana, in cui l’uomo perdeva la pretesa di essere signore della natura, ma si accompagnava invece all’animale, perché in sofferenza, speranza e dolore facciamo parte di «un’unica rete della vita». Poi c’era stata la rivoluzione aperta da Freud, in cui le passioni che pretendevamo di dominare con la razionalità erano spesso dominatrici della stessa. Ed è proprio la razionalità a mostrare che molte cose che pensiamo tipicamente umane, oggi sono eseguite da un computer: è questa la rivoluzione a cui ha dato inizio Turing. È la «drammaticità intrinseca della ricerca scientifica» ciò che la lega al teatro; e Giorello, oltre a intuire questa affinità, è stato un grandissimo spettatore, e ha talvolta regalato, con generosità, pillole di genialità nelle sue lezioni tra le mura dei teatri.

Scavalcava gli steccati con l’esercizio del dubbio
di Telmo Pievani (l’allievo)
(pubblicato su la Lettura il 12 luglio 2020)
Se sfogliando il Corriere della Sera incontravi un articolo che leggiadramente mescolava gli sviluppi del falsificazionismo popperiano e la filosofia della matematica, gli anarchici del Seicento inglese con Topolino e Tex Willer, passando per la storia di qualche ribelle irlandese, allora potevi star sicuro che nasceva dalla penna e dallo stile di Giulio Giorello. E subito dopo ti chiedevi da dove avesse preso quelle citazioni e come gli fosse venuto in mente di collegare Lenin, Gilgamesh, Joyce e Paperon de’ Paperoni.
Le sue gremite lezioni alla Statale di Milano erano costruite nello stesso modo, fuochi d’artificio culturali. Qualcuno ha detto che non ha lasciato un’opera fondamentale. Non è vero: la sua opera era disseminata. Nel mosaico apparentemente frammentario dei suoi lavori c’erano una logica, una coerenza, una trama di parole chiave ricorrenti. Innanzitutto, il suo è un insegnamento di libertà, di antidogmatismo, di esercizio sistematico e dissacrante del dubbio. Insofferente agli steccati disciplinari, vedeva la scienza come una continua messa in discussione dei presupposti altrui e propri, antidoto contro ogni settarismo, fanatismo, militanza ideologica, contro le Chiese di ogni sorta. Amava gli scienziati inquieti, che cambiano il mondo con un buon teorema o con una teoria dirompente. La conoscenza cresce infatti grazie alla critica, anche corrosiva.

Per questo era un laico nel senso più autentico e radicale del termine, e per tutta la sua carriera ha saputo mantenere questa cifra con un’onestà e una purezza di pensiero esemplari. Giorello è stato anche un campione di generosità intellettuale. Non diceva mai di no, non si risparmiava. Lo invitavano, lui partiva in treno o si faceva dare un passaggio, e andava a tenere conferenze negli angoli più sperduti (spesso i più vivi) della penisola. Con due appunti presi a mano su un foglio, parlava per un’ora di libertari e illuministi. E poi si andava tutti a bere una pinta di birra. Ha introdotto in Italia schiere di autori sconosciuti che adesso popolano le librerie.
La sua collana «Scienza e idee» con l’editore Cortina, 300 titoli, ha fatto scuola nella saggistica scientifica. Di nessuna chiesa, appena ristampato, è il suo libro manifesto. Giorello era pienamente inserito nel dibattito internazionale della filosofia della scienza e ha capito che la disciplina anche in Italia doveva aprirsi a regioni nuove come le neuroscienze e la biologia evoluzionistica.
Anche l’amore per il fumetto e la disponibilità a dialogare con chiunque senza alcuno snobismo fanno parte della sua eredità, di quella colta e rigorosa leggerezza che oggi è così rara nel dibattito pubblico. L’Italia non ha perso soltanto un grande filosofo della scienza, ma anche un uomo pieno di curiosità e di affettuosa ironia. Un uomo libero.

Aveva il gusto di indagare i sentimenti di noi giovani
di Sofia Viscardi (la youtuber)
(pubblicato su la Lettura il 12 luglio 2020)
Ho incontrato Giulio Giorello un pomeriggio estivo nella redazione del «Corriere». Non ero un’adulta, non ero una ragazzina, già youtuber, non ancora scrittrice. Non sapevo chi fosse, avevo appena pubblicato il mio primo romanzo, Succede, e mi avevano avvertito che avrei incontrato un professore dell’Università di Milano. Importante. Un filosofo. Della scienza. Che già mi sembravano due idee contrastanti. In questi anni sono cambiati i miei capelli, il mio modo di vedere il mondo e anche le domande che mi faccio. E qualcuno mi ha spiegato che la scienza e la filosofia stanno insieme nell’epistemologia.
Fino ad allora nessuno di autorevole si era davvero interessato a quello che facevo e tutte le interviste o chiacchierate destinate a un pubblico adulto mi sembrava cercassero maliziosamente di farmi dire delle cose che non volevo. Il professor Giorello è entrato abbattendo tutti gli stereotipi e i miei timori. Non mi voleva inchiodare a nessuna storia già scritta. Abbiamo girato un video. Nessun pregiudizio. Era molto curioso dei miei sentimenti. L’amore, l’amicizia, la paura, la solitudine che avevo raccontato. Squadernando i ruoli, quasi fossi io la professoressa, aveva studiato, si era preparato, aveva sottolineato rigando con il pennarello vari passi del mio libro.
Voglio farvi risentire la sua voce, la sua curiosa generosità umana e intellettuale nei miei confronti, avevo diciotto anni e nessun certificato di maturità che attestasse neppure la mia percezione nel mondo, se non tanti follower su YouTube. «Si vedono dei bei problemi nel tuo libro — mi dice — per esempio a pagina 153 scrivi che hai mille domande, mille preoccupazioni, mille dubbi, un casino di cose da raccontare e nessuno a cui dirle. Dici: questa è forse la solitudine. Un pezzo di notevole bellezza. I dubbi, la solitudine. È la linea per leggere il libro». E ancora mi ha fatto notare che gli adulti in questo romanzo, in particolare i professori, non fanno di certo una gran figura. Che gli piaceva un passo a pagina 83 su Milano d’inverno. Quando è fuori dalla finestra e noi siamo rintanati sotto le coperte. Non quando alle otto di un gelido mattino ho perso l’autobus e devo correre come una pazza per arrivare a scuola. Ecco, mi ha detto, questo non è molto cambiato, l’ho vissuto anch’io, se non che ai miei tempi c’era il tram.
E poi il Berchet. Per lui il liceo, cinque anni, sarà stato il più bravo. Per me uno solo. Che non è andato bene. Perché più che al latino e al greco ero interessata a capire come tirarmi fuori. E quindi facevo i video su YouTube. Avevo diciotto anni e diciotto anni sono ieri, e ieri è stamattina presto, e sembra lontano anni luce. E il professore Giorello non c’è più, ma mi ha lasciato uno straordinario ricordo di sé. Quello di un maestro, che ho intravisto, che mi ha detto: è ok essere chi sei.
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Per quanto concerne il passato le grandi opere filosofiche che hanno segnato la svolta sono prettamente legate al 700/800 epoca di Leibniz,con il suo approccio al calcolo infinitesimale ed alla ricerca ‘della logica applicata al linguaggio, di Locke con il suo innovativo empirismo materialistico , di Hume con lo studio sulla percezione dell’Io.Filosofi poliedrici che spaziavano multidisciplinarmente dalla filosofia alla matematica,dalla logica alla linguistica,dalla storia alle scienze naturali,dalla filologia alla fisica.E’ giusto ritenerli i precursori della moderna filosofia e delle scienze ad essa collegate.