Metadiario – 55 – La Sud della Palazza (AG 1974-05)
La sera del 28 febbraio 1974 tenni una conferenza a Dolo, una località tra Padova e Venezia, sulle rive del Brenta. Era organizzata da un simpatico geometra, Francesco Santon, con il quale la proiezione ebbe un seguito alcolico e simpatico a casa sua. Nell’euforia ci promettemmo grandi iniziative assieme e, devo dire, queste furono abbastanza mantenute. Carlo Zonta era un amico comune, dunque fu facile, per me, proporre a entrambi di andare a risolvere il problema della parete sud della Palazza 1914 m. Io ero già stato alla base con Guido Machetto, loro sapevano che era una partita da giocare distante, a quattro ore di marcia, su una parete che avevano sì visto da lontano ma che in pratica era loro del tutto sconosciuta.
La partenza si fissò per il 19 maggio 1974, l’intenzione era di risalire tutto il lungo vallone, raggiungere la cengia alla base e possibilmente salire anche qualche lunghezza prima di bivaccare.
Lasciata alle 4.50 l’auto alle Case Salet, nei pressi di Mas, allo sbocco della valle del Cordévole), risalimmo la val Salet seguendo tracce di sentiero o il fondo del torrente. I miei ricordi terrificanti della discesa di questo vallone con Guido Machetto si stemperavano pian piano nella tranquillità di quella domenica mattina. Dopo solo due ore, grazie ai ricordi che avevo, eravamo al «Fornel», una conca rocciosa all’inizio del grande canalone incassato che si addentra tra le pareti della Palazza a est e del Monte Alto a nord-ovest. Abbandonammo il canalone per seguire a destra un evidente cengione obliquo con vegetazione. Giunti su uno sperone erboso, la cengia continuava orizzontalmente. Vedevamo molto bene la nostra parete, incombente con il suo pilastro centrale, la linea più logica di salita. Proseguimmo sul cengione lungo un rientramento, oltrepassammo un secondo sperone erboso sempre con marcia orizzontale. Questo sperone è la continuazione in basso del nostro pilastro, ma noi continuammo a traversare nel successivo rientramento. A destra la cengia continuava fino all’evidente grande grotta che ci aveva riparato durante la pioggia torrenziale del primo tentativo con Guido. Lasciammo il cengione una cinquantina di metri prima della grotta per salire facilmente fino all’inizio di un canalone appena inclinato a sinistra. Decidemmo di attaccare lì, erano passate quattro ore da quando eravamo partiti dalle Case Salet.
Attaccai una fessura a sinistra, ne uscii dopo una decina di metri a destra, dove ormai il canale si abbatteva (IV e V). Proseguimmo facilmente nel canale obliquando a sinistra. Dopo un facile salto per mughi, attaccammo il successivo e più alto salto roccioso. Salimmo per la parete a destra di un caminetto, con qualche lieve difficoltà all’uscita (III e IV). A quel punto entrai nel caminetto per risalirlo (IV+, V-). In breve fummo (ore 10.50) alla base dello spigolo, all’attacco vero e proprio (sei ore da Case Salet).
Ripartimmo alle 11.20 e con due lunghezze di III, IV e IV+ ci portammo all’inizio di un diedro leggermente a sinistra del filo del pilastro. Superai il diedro per una quindicina di metri (IV, V-) e appena possibile traversai a destra 5 metri per fare la terza sosta sul filo. Lì trovai dei vecchi chiodi, certamente di un precedente tentativo. Il pilastro ci sovrastava imperiosamente, ma non eravamo ancora al tratto chiave, mancavano altri 20 metri di V+ e IV per raggiungere un terrazzino subito a destra del filo.
Il pomeriggio ci assicurava ancora qualche ora di luce, così attaccai subito, dopo una breve traversata a sinistra, una fessura gialla e strapiombante che saliva per una ventina di metri. Qui la lotta si fece serrata. Avevo un buon assortimento di chiodi, ma capii subito che non sarebbe stato facile. All’uscita, dopo una serie di chiodi con difficoltà di A2, non riuscivo a passare e fu con grande dispendio di astuzie che riuscii a mettere un chiodino risolutore (A4). Mi ristabilii subito a destra del filo di spigolo, facendo la sosta 5 su chiodi e su roccia grigia.
A quel punto era praticamente buio, così riscesi in doppia dai miei compagni, i quali, oltre a farmi sicurezza, si erano anche premurati di sistemare per bene il terrazzino, per un bivacco il più possibile confortevole.
Durante il bivacco non sognai neppure e il mattino dopo, con tempo stupendo, ripresi come un automa i soliti gesti. Quanti morti avrà fatto quella primavera l’Himalaya?
Francesco ed io risalimmo a jumar la corda fissa, mentre a Carlo toccò la parziale schiodatura del tiro in artificiale.
Continuai per altri 25 metri in un incavo dello spigolo mirando su roccia ottima a un intaglio sul filo (V e A1, poi A2 con due passi di VI). La sosta 6 era di nuovo comoda. Proseguii più facilmente a destra dello spigolo per una decina di metri fino a un mugo (IV-) e altra cengia comoda. Da lì in poi si vedeva che avremmo dovuto sempre stare un po’ a destra del filo. Su per una lunghezza, con successiva sosta 8 un po’ a d. (IV+). Poi altro bellissimo camino-diedro (V-), seguito da un canalone e da una rampa a sinistra. Dopo una paretina di 6 metri (V), salii una fessura camino (IV+) e la sua strozzatura finale (VI). Sosta 9 su cengia con mugo. Si vedeva che ormai il pilastro era nostro, ma c’era ancora bellissima roccia da arrampicare. Salito a sinistra del mugo, traversai a destra per rientrare in un diedro aperto che risalii per altri 20 m (IV), con però l’ultima fessura di 6 metri di VI- che faceva accedere alla piccola nicchia dove feci la sosta 10. Salii la fessurina subito a destra per 12 m (IV), ritornai a sinistra e fui ancora sul filo dello spigolo per uscire sul grande pendio erboso che con altri 150 metri portava facilmente alla vetta. Erano le 15.
Decidemmo di chiamare questo nostro itinerario di 400 metri via del Pilastro. Una montagna questa dove ebbi modo di vivere stati d’animo molto diversi tra loro. Pratica, esperienza e amicizia si univano per contrastare la sensazione di fondo di non essere più “forte” come una volta. Sono solo i miei compagni a non avere alcun dubbio su di me.
Per la discesa puntammo a est. Scendemmo tutta la cresta turrita a volte con mughi e in arrampicata. In due tratti fu necessario scendere a corda doppia, poi la sommità piatta dell’ultimo avancorpo. Scendemmo il salto a sud-est e con tre corde doppie da 40 m raggiungemmo i pendii erbosi che in qualche modo e con qualche irregolarità ci portarono fino alla cengia erbosa continuazione di quella seguita per andare all’attacco. Per individuarla ci fu utile un torrione di circa 50 metri staccato dalla parete che emerge come una sentinella della cengia in questione. Arrivammo alle Case Salet alle 21.
Il 26 maggio tornai a Dolo da Francesco. C’era anche Nella. Il tempo così così ci consigliò di passare la giornata, anche con altri amici, sulla storica via Carugati-Berti (200 m, III e IV) della parete nord-est di Rocca Pendice, la palestra dei padovani. Fu una giornata assai rilassante.
Il 1° di giugno 1974 invece Nella ed io portammo due amici del tutto neofiti sulla via normale (Boccalatte) della Sbarua. Roberto Orlandi e Italo Maccagnan erano davvero felici di questa loro nuova esperienza.
Il giorno dopo ci spostammo in val Maira, questa volta per salire il Camino Palestro della Rocca Castello. Roberto, Nella ed io incontrammo là gli amici genovesi Nello Tasso e Sandro Massa. Così salimmo in vetta alla Rocca Castello tutti e cinque assieme.
Nel frattempo era uscito il libro della spedizione all’Annapurna. Sapevo che ci stavano lavorando, ma volutamente avevo evitato di propormi, ritenendo che avrebbero pensato che volevo inserirmi ad ogni costo. Ricevuto il volume, presi foglio e penna e scrissi a Guido Machetto.
«Milano, 3 giugno 1974. Caro Guido, come ti avevo promesso, ti scrivo. Non mi rimane che riconfermare quanto avevo subito pensato dando un’occhiata al libro. L’ho guardato e letto attentamente, e la mia impressione è veramente favorevole. A parte la perfezione dei soggetti scelti, l’impaginazione e la resa tecnica delle diapositive, a parte lo sforzo (coronato da successo) di rendere in immagini ciò che è una spedizione in terre così lontane e difficili, a parte ancora un evidente interesse per l’uomo (tema di fondo da me sempre condiviso) e a parte infine la polemica sui volti mancanti dei due scomparsi (che ritengo abbastanza superflua), è evidente che il risultato non può che essere apprezzato da tutti. E’ il più bello ed ultimo sforzo che la spedizione potesse fare. Purtroppo a me rimane un’impressione negativa nel senso che gli scritti tuoi, di Gianni e di Carmelo, per quanto misurati e pressoché completamente aderenti alla realtà, non rispecchiano più una spedizione (fallita, pur sempre però “una”) ma denunciano invece, con l’assenza degli altri, una rottura.
So che tu il libro lo hai scritto veramente col cuore, su questo non ho dubbi, ma ritengo tu abbia sbagliato a escludere il nostro aiuto: non tanto perché io o qualcun altro scrivessimo qualcosa, ma proprio soltanto per evitare, con una pur minima nostra partecipazione, che il giudizio degli altri, del mondo alpinistico o di chi vuoi, potesse anche lontanamente avere dei sospetti su di te (vedi Mario Pozzo). Per respingere definitivamente ciò che hai potuto pensare, ti riconfermo la mia disponibilità per una riedizione. Ricordo che nel nostro incontro ultimo di Biella mi chiedesti foto di Kathmandu: ebbene le foto sono sempre qui, e oltre a quelle da me fatte in spedizione e che sono state utilizzate per il libro, anche quelle fatte in precedenza sono a disposizione. Anche se, mi rendo conto, le possibilità di una riedizione sono esigue. Ti prego di dirmi se hai delle copie da vendere. Ne vorrei qualcuna. Alessandro».
Il 9 giugno 1974 con Giovanni Favetti ci recammo all’attacco della Pala del Cammello, per la via Annamaria, una via difficilissima aperta da Aldo Anghileri e Sergio Panzeri. Alla base trovammo per puro caso i Ragni di Lecco Piero Maccarinelli e Amabile Pae Valsecchi, dunque salimmo assieme, in quattro ore, quest’itinerario che certamente era uno dei più difficili e impegnativi dell’intera zona lecchese.
Qualche giorno dopo mi arrivò la risposta di Guido Machetto, un po’ freddina e sostenuta ma certamente con un tono assai più conciliante di quello tenuto nel nostro incontro-scontro di Biella del novembre precedente.
«Biella, 12 giugno 1974. Caro Alessandro, se una lettera di questo tono fosse arrivata a me o meglio ancora a Gianfranco Bini (l’autore di Lassù gli Ultimi e co-autore di Annapurna, NdA) due mesi fa certamente saresti entrato a far parte del libro. Se mi conosci sai che sono il primo a coinvolgere gli altri nelle mie cose e, astuto e calcolatore come sei, mi stupisce che tu non ci abbia pensato.
Dalla spedizione sono tornato con un bell’esaurimento e, ammesso che te ne fossi accorto, toccava a te fare la prima mossa. Comunque ho parlato con Bini e in linea di massima siamo d’accordo, se ci sarà una ristampa, di ampliare il libro con altre foto e scritti.
A Biella per Mario Pozzo il libro è “bruciato”, non si vende; negli altri centri va di più, Bini è certo di venderlo ma dubbioso sulla ristampa. Si vedrà dopo l’estate, il libro avrebbe bisogno di pubblicità positiva come libro in sé e non come spedizione. Costa 10.000 lire pulito e ne puoi avere quante coppie vuoi da Bini, Via Italia 22, Biella, tel. 23367, o dal fratello del Bini a Milano-Pero (è lui che li distribuisce, ma non conosco l’indirizzo).
Come spedizione devo farlo avere ancora a: Jenei, Vibram, Cege&Mussy, Cebe, Ragno e poi Zonta, Ates e Scarpa. Se fossi comodo farli avere a qualcuno di questi fammelo sapere. Ti saluto, saluti a Nella».
Il 16 giugno 1974 tornai alla Torre Castello in Val Maira. Non so più come mai mi trovai a scalare con Carlo Carlaccio Carena, del quale non ero amico ma solo conoscente. Di lui sapevo le storie che Motti e Manera mi avevano raccontato, storie degne di costituire trama portante per un libro intero che forse un giorno verrà scritto dal diretto interessato, Ugo.
Con Carlaccio salii lo Spigolo Maria Grazia alla Rocca Castello, poi dopo essere scesi ci dedicammo a una via nuova sulla Punta Figari, a destra della via Ghirardi. Ma per qualche motivo che non ricordo rinunciammo e dunque proseguimmo per il camino Gedda.
Evidentemente la primavera di grandi prime non mi era bastata e volevo continuare con un altro bel boccone, la parete sud-ovest del Pelmo. Per l’occasione ricostituimmo la cordata vincente Gogna-Ghio-Favetti e così il 22 giugno 1974 ci trovammo ad arrancare in un misto mortificante di neve molle e ghiaie.
La nebbia avvolgeva già alla base la massiccia struttura del Pelmo. Giovanni e Flavio mi precedevano in questa forzosa realizzazione dell’ultimo sogno della serie. I nostri sacchi erano pesanti perché il progetto ancora una volta era una «prima», sulla parete sud-ovest del Pelmo. Un canalone di neve e di ghiaccio s’insinua per centinaia di metri nel cuore della montagna, tra il Pelmetto e il Pelmo. Alcune cenge si dipartono sulla destra e danno rilievo alla parete terminale gialla e strapiombante ma solcata da una vaga fessura che più in alto diventa camino. Slegati salimmo nel canale, a fatica ci vedevamo uno con l’altro, ogni tanto un richiamo mi faceva sobbalzare nell’atmosfera ovattata in cui eravamo immersi. Non sapevo ancora che quello era l’atto finale, prima di una serie di fatti che avrebbero radicalmente mutato la mia esistenza. Allora salivo meccanicamente, stando solo attento a non scivolare, perché non avevamo i ramponi e disponevamo solo di una piccozza. Quella primavera era stata un’orgia di «prime». Anche lì, al Pelmo, il tempo non era così brutto, forse la nebbia si sarebbe alzata e almeno avremmo visto la famosa fessura un po’ più da vicino. Flavio e Giovanni sembravano fiduciosi. Diedi loro il cambio nel canalone che sembrava non finire mai e mentre la nebbia c’inseguiva mi sorpresi a fantasticare sulla parete nord-ovest del Pizzo Badile in solitaria: non appena se ne fosse andata un po’ di neve…
Dopo seicento metri di canalone non avevamo idea di dove fossimo, perciò ci fermammo ad aspettare una schiarita. Questa si fece attendere un’ora, ma alla fine giudicammo di essere sul percorso giusto, dovevamo solo obliquare un po’ a destra e raggiungere una stratificazione di cenge ricoperte di neve, subito sotto la grande cengia sottostante la parete. Di buona lena e legati in cordata obliquammo, in cerca del posto migliore per bivaccare. Liberammo un terrazzino dalla neve, fino a scoprire la ghiaia ghiacciata. Ci accoccolammo in attesa del buio ormai vicino.
Non fu una notte cattiva, ma neppure troppo buona. In compenso rimanemmo allegri, come sempre quando si è più di due. Il mattino dopo avevamo voglia di salire e partimmo molto presto. Dopo qualche lunghezza eravamo alla base della parete sulla cengia Grohmann e s’indovinava una giornata sufficientemente serena per non farci tornare indietro con qualche scusa. Flavio provò una parete a sinistra del fondo della fessura, ma presto ebbe a che fare con roccia non troppo solida e priva di fessure. Provò in libera ma, pur calzando le sue solite scarpe da pallacanestro, non riusciva a progredire molto. Disse che bisognava chiodare «di fino» ed io pensai che se si incominciava così proprio lì dove pensavamo di filare lisci, chissà dopo sugli strapiombi: certo due giorni non sarebbero bastati. L’istinto ci suggeriva di abbandonare, ma ancora una volta sentivo che ero io che dovevo decidere. Nel frattempo Flavio scendeva su un chiodo. Quando ci fu accanto, avevo deciso. Il dietro-front fu rapido e indolore, non c’era molto spazio per pensare durante le manovre di discesa. Ma anche in seguito non ritornai mai su quella decisione, perché fu un procedimento d’istinto. Altre volte avevo forzato le cose perché sentivo una vocina che da dentro m’incitava a continuare, in quella occasione invece dentro di me c’era il silenzio. Non ebbi quindi a pentirmene, però avvertivo che qualcosa in me stava cambiando, perché non sentivo alcun bruciore per la sconfitta. Mi sentivo un fallito, perché stavo per non credere più in ciò che per tanto tempo avevo creduto.
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Accidenti, le ultime parole sono un macigno, frutto delle esperienze precedenti, ma anche di qualcosa non ancora raccontato?
Attendo con ansia la prossima puntata
Se no sbaglio questa via fu poi realizzata da Bee, Miotto e Groaz.
via di non ritorno che porta in nuove strade.
Anche se poi mi sembra che Alessandro, a questo mondo, sia sempre rimasto ben legato.
Al solo vedere in foto i Galibier Super Guide Desmaison, mi fanno male i piedi.
Si capisce da ogni tuo racconto che l’Annapurna segnò una via di non ritorno, ma credo che ogni alpinista, prima o poi ne incontri una. Se non ci pensa la montagna, ci si arriva con l’età. E come via di non ritorno non voglio dire che sia sempre una cosa negativa, anzi.