Allorché ci avviamo sul piccolo sentiero di guerra che traversa dietro al Bàffelan, il sole si è già alzato molto nel cielo. La pianura veneta, sotto a un’estesa coltre di nebbia, è proprio ai nostri piedi, davvero vicina. Il rifugio all’Alpe di Campogrosso, le poche auto parcheggiate, ci ricordano l’immediata vicinanza della civiltà cittadina. Sembra di essere sull’attico di una casa neppure tanto alta, qui sulle Piccole Dolomiti. Oppure su un’isola in mezzo ad un mare di giardini. Ma quando invece ci troviamo a salire e scendere per rampe, canalini, oppure traversare in buie gallerie di guerra, a precipizio su burroni per nulla simpatici, ecco allora restituita a questo gruppo di torrioni la loro dignità di guglie dolomitiche. Dunque, se si prescinde dall’altezza, appena inferiore di media, o dal fatto di essere quasi in bilico sulla pianura, queste montagne potrebbero, assieme al vicino gruppo del Pasubio, essere classificate come Dolomiti.
Si è parlato molto della proclamazione di gran parte del territorio dolomitico, “Monumento mondiale della Natura”. Non entro nel merito dell’opportunità o meno di tale iniziativa. Dirò solo che mi vede del tutto entusiasta, vista la qualità delle bellezze naturali di questa regione, decisamente uniche al mondo e irripetibili. E non parlo soltanto delle montagne famose, ma anche delle valli e delle altre ricchezze del paesaggio. Come sappiamo, le necessità dello sviluppo delle popolazioni locali, unitamente a quelle del turismo di massa, hanno in passato provocato danni in molte zone di questo territorio. Anche sull’entità di tali danni e sulle possibilità di reale cambio di rotta dell’intero turismo dolomitico (con tutte le difficoltà di ordine amministrativo, economico e gestionale che ne deriverebbero) mi astengo. Preferisco parlare di delimitazione dei confini: su di questa certamente non tutti sono d’accordo.
I geografi concordano che l’areale dolomitico propriamente detto è compreso tra le valli dell’Adige, dell’Isarco, la Val Pusteria, le valli del Piave, del Cismòn e del Brenta. È accettato che le Piccole Dolomiti (a cavallo tra Val Lagarina e la testata delle vallate dell’Agno e del Posina) siano chiamate tali. È accettato inoltre che le Dolomiti di Brenta, pur essendo molto a ovest della valle dell’Adige, per le loro caratteristiche assai somiglianti a quelle delle Dolomiti vere e proprie, possano essere così denominate. Stesso discorso vale per le cosiddette Dolomiti d’Oltrepiave (a est del fiume) e per le Dolomiti Pesarine, che qualcuno vorrebbe raggruppare con il nome di Prealpi Carniche o magari Dolomiti Carniche.
Non si comprende però bene quale possa essere il motivo di tale distinzione. Di certo non è quello litologico: sostenere che le Dolomiti per essere tali devono essere costituite da dolomia e non da calcare significherebbe escludere proprio la vetta più alta, e cioè la Marmolada, come sicuramente molte altre. Per non parlare di interi gruppi, compresi nell’areale dolomitico “doc”, come ad esempio il gruppo della Cima d’Asta, il quale è costituito da granito, oppure la catena dei Lagorai, fatta di porfido. Anche le ragioni di ordine idrografico portano a escludere che si possa arbitrariamente dividere in due parti il bacino del Piave, o anche quello dell’Adige e del Brenta. Le caratteristiche generali delle montagne (e non parlo delle differenze geologiche certamente esistenti) non differiscono molto. Le Dolomiti d’Oltrepiave sono assai simili a quelle che costituiscono il Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi: gruppi come il Cavallo, il Col Nudo, il Duranno, i Monfalconi, la Crìdola, il Pramaggiore ed altri non hanno nulla da invidiare né come bellezza, né come dimensioni alla Schiara, al Bosconero o ai Monti del Sole. E che dire del Monte Baldo e dell’alta valle del Sarca, entrambi a ovest dell’Adige? Hanno caratteristiche così diverse? E considerato che il problema sussiste anche per altri gruppi, vale a dire i Monti Lessini, la catena del M. Ortigara e l’Altopiano di Asiago, il Monte Grappa, il Pasubio e le Piccole Dolomiti, così trionfali in questa giornata ottobrina, non varrebbe la pena di considerare come areale dolomitico tutta quella regione di montagne che si estende dalla pianura veneta fino ad incontrare i colossi dello spartiacque alpino (Retiche Meridionali, destra idrografica della Val Venosta, valle dell’Isarco, Val Pusteria e Alpi Carniche)? Questa considerazione ha almeno tre fondamenti di ordine storico e ambientale. La storia dell’alpinismo dolomitico si è sviluppata indipendentemente da divisioni artificiali tra una zona e l’altra: si ricorda qui che la prima cima a essere stata certamente scalata non da pastori o valligiani è stata quella del Monte Cavallo, proprio sopra allo storico e splendido Bosco del Cansiglio. Dolomiti Monumento Mondiale ha giustamente considerato che i gruppi come quello delle Dolomiti d’Oltrepiave sono proprio quelli più intatti, decisamente selvaggi. E ancora, in un’ottica di protezione e anche di vera valorizzazione globale, le zone più inaccessibili hanno pari dignità di quelle che invece sono meta di milioni di turisti. Un monumento è tale infatti non soltanto se è sistemato al centro di una piazza famosa ma anche se è intrinsecamente una bella scultura.
Il gruppo dei Monfalconi (Dolomiti d’Oltrepiave). Foto: Marco Milani
Nella valutazione di quali dovevano essere i confini del “Monumento”, credo però che i confini geografici non siano stati tenuti nel debito conto. Perciò speriamo nel futuro, augurandoci che in’eventuale revisione o allargamento gli esperti tengano in considerazione questi motivi e non abbia voce soltanto chi voglia gelosamente “valorizzare” (alla vecchia maniera però) solo il proprio comprensorio. Anche coloro che sostengono che la quota media sia l’elemento più importante ai fini di una classificazione geografica, e cioè i geografi in senso stretto, potrebbero essere messi d’accordo con la voce “Alpi e Prealpi Dolomitiche”.
postato il 3 settembre 2014
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Cambiare denominazioni è arduo, se non proprio una forzatura. Per trasformare il Parco delle Prealpi Carniche in Parco delle Dolomiti Friulane c’è voluto appunto un Parco, cioè un dispositivo ufficiale, in questo caso regionale. E qualcuno non lo accetta ancora, benché si sia, dal mio punto di vista giustamente, affermato.
Io sarei per mantenere quei confini tradizionali cui anche tu accenni, grosso modo quelli descritti nelle due vecchie guide verdi di Silvio Saglio per la collana “da rifugio a rifugio” del CAI-TCI. Insomma, il Baldo non me lo vedo dentro…
Aggiungo un’osservazione, riguardante le Dolomiti patrimonio dell’umanità: non sono sicuro, non mi ricordo bene e non ho nemmeno indagato, ma quei gruppi pur centrali che non sono stati inclusi dall’Unesco non vorrei che si fossero chiamati amministrativamente fuori temendo di dover rinunciare alle loro speculazioni turistiche.