I pascoli per la mente
(scritto nel 1995)
A poca distanza da Chiavenna c’è un versante ombroso e cosparso di grossi blocchi di roccia: è il terreno ideale per la costruzione di decine di crotti. I vani e gli anfratti sotto ai macigni, in cui spira una corrente d’aria fredda a temperatura costante, sono stati richiusi con muretti a secco nella parte anteriore, ottenendo cantine ideali per bresaole, formaggi e vinelli locali. Subito al di fuori, all’ombra dei castagni, alcune panche invitano alla sosta. A qualcuno è stata aggiunta una struttura in pietra, come una casa che cresce attorno alla cantina. Ma i crotti per i chiavennaschi sono molto di più che cantine e non sono case; sono luoghi d’invito, di festa, dove capita d’essere invitati a «berne una volta». Sono in definitiva una «scuola di umanità» (ignoto del ‘700). Al di sopra del castagneto, ma poco oltre, su un ripiano a circa 500 metri, gli antichi ghiacciai hanno lasciato una testimonianza spettacolare del loro lavoro quaternario. La lenta azione di smerigliatura che i detriti caduti sul fondo dei crepacci, unitamente all’acqua di fusione, producevano sulla superficie di pietra oliare ha creato delle escavazioni arrotondate e lisce, larghe fino a tre metri di diametro: una pozza d’acqua piovana ne occupa quasi sempre il fondo. Intorno, chiari blocchi erratici di granito spiccano nel verde della vegetazione e sulla roccia scura. Dalla parte opposta della valle si nota l’elegante sciarpa bianca della Cascata dell’Acquafraggia.

Con i Crotti e con le Marmitte dei Giganti abbiamo fatto una bella passeggiata, a molti sufficiente per trovare serenità. Alcuni invece hanno bisogno di maggiore impegno fisico, di camminare a lungo, magari anche in quota.
L’escursionismo e il trekking esprimono i propri tracciati perfino con il periplo delle montagne più importanti, e in quello c’è anche una comodità: si lascia l’automobile in un parcheggio e alla fine la si ritrova ad accogliere le nostre stanche ossa. Le traversate costringono invece al mezzo pubblico, spesso con orari e servizi concepiti per altro tipo di viaggiatori e quindi quasi sempre scomodi con zaini ingombranti. Francesi, svizzeri e tedeschi sono molto più avanti degli italiani nella programmazione e realizzazione dei percorsi, aiutati da ottimi servizi pubblici: anche dopo l’importazione delle “alte vie”, le preferenze medie dell’appassionato italico puntano all’anello, indipendentemente da lunghezza e impegno. Alcune montagne alpine sono diventate famose proprio perché la conformazione ne permette un bel giro attorno: ad esempio le Tre Cime di Lavaredo, il Monviso o il Monte Bianco.
Il giro ai lati di una montagna è atto di riverenza, un pellegrinaggio ben diverso dal salirne la vetta, non implicandone la “profanazione”. Per più giorni si cammina alla base di grandi pareti, si sbirciano canaloni profondi e gole, a volte ci si affaccia da punti strategici, belvedere meravigliosi per poi rituffarsi in conche profonde su cui incombono moli minacciose in ombra, sempre dominati da ciò che è più in alto di noi. La mistica della circumambulazione non considera la salita alla vetta, perché difficile e irraggiungibile. In quel “sarà per un’altra volta” che in fondo ci portiamo dietro è racchiuso un senso di rispetto particolare, come se si rimandasse ad un futuro l’ascesi corporea. Il giro è un pascolo per la mente. L’impressione di compiuto che la fatica del percorrere un anello genera in noi è ben nota ai pellegrini tibetani che ogni estate da circa 2500 anni affrontano fatiche incredibili per camminare attorno alla montagna sacra. Il Kailash si erge fino a quasi settemila metri nel bel mezzo di un grande altopiano e da lì appare del tutto irraggiungibile con le sue circolari pareti verticali di conglomerato e una calotta di neve sommitale che ha il potere di scintillare sui pascoli per la mente. Loro camminano pregando, qualcuno si trascina per tutto il percorso in ginocchio oppure sdraiandosi bocconi e rialzandosi, misurando la fede con il proprio corpo. Sanno che solo il grande Milarepa è salito alla vetta con l’energia della trascendenza e il distacco dalla materia.

L’anello del Màsino-Bregaglia, cui si accede indifferentemente dalla Val Bregaglia o dalla Val Màsino, è un itinerario ideale che permette di visitare a 360° il cuore del regno di granito delle Alpi Centrali, il nodo di tutta quella vasta area che si estende da Chiavenna (ovest) alla testata della Val Malenco (est). Gira attorno al Pizzo Badile e al Pizzo Céngalo usufruendo di una parte del Sentiero Roma, ma per la maggior parte segue un tracciato artificioso, in passato noto solo ai più audaci cacciatori e pastori. Non vi sono passi storicamente frequentati da contrabbandieri o carovane di scambi commerciali e la ripida conformazione della Val Bondasca è stata ed è ostile perfino al pascolo: tutti i valichi di questa regione sono sempre stati accuratamente evitati perché impervi ed estremamente isolati. Non è quindi un percorso appositamente creato dall’uomo, è un collegamento, una “cucitura” di diversi sentieri preesistenti e di tratti più selvaggi, grandi distese di pietraia o pendii innevati (tra i quali un notevole ghiacciaio), in modo da formare un cerchio attraverso un ambiente naturale di eccezionale bellezza. Se il Vadrec da la Bondasca costituisce l’ostacolo più “alpinistico”, va subito detto che gran parte dell’itinerario si svolge comunque su versanti nord e ovest, dove è facile riscontrare la presenza di neve anche in piena stagione estiva: questo è proprio uno dei motivi dell’interesse ma può aggiungere ulteriori difficoltà, dando la sensazione di compiere qualcosa di “alpinistico”, specialmente nell’attraversamento di valichi privi di attrezzature artificiali che facilitino il passaggio.
La vicinanza così sensibile e concreta ai selvaggi Badile e Céngalo ci riporta al contatto con la wilderness e alla fondamentale esigenza religiosa che gli anelli attorno alle montagne potenzialmente possono appagare: ci si muove alla distanza giusta in labirinti di pietra alla base di moli gigantesche, ogni tanto uno scorcio, sempre diverso, ci apre la visuale su un qualcosa di prepotentemente infinito. È la grandiosità vissuta da dentro.

Forse è un atto d’amore verso il granito, verso gli angoli più riposti e solitari che tanto ci hanno dato a dispetto della loro rocciosa, ma anche pudica, indifferenza. Forse siamo prigionieri di un passato e vogliamo scoprire del nuovo là dove di nuovo non c’è nulla; forse vogliamo ritrovare quelle emozioni cercando di trasmetterle ad altri, o forse siamo semplicemente inguaribili. Il Gigiàt, il leggendario animale dal pelo lungo, mezzo caprone e mezzo camoscio, potrebbe conoscere la risposta: parente dello yeti, nel suo peregrinare in queste alte valli, sempre nella stessa direzione circolare, così da avere le zampe a valle più lunghe di quelle a monte, può aver osservato tutti quelli che qui son passati a disturbarlo. Lui li ha scrutati da lontano, non visto. Lui ha tratto le conclusioni: meglio continuare a non farsi vedere.
Scopri di più da GognaBlog
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.
Un pò di Cultura..di Montagna , in più …..! Una buona Lettura…..Grazie..!
Non sapevo né dell’uno né dell’altro… Grazie!
Pure io ho letto di questi strani animali e ne ho visto un disegno (ma non ancora una fotografia 😂😂😂).
Aggiungo che, a causa di questo loro “problemino”, possono avanzare solo in traversata a mezzacosta. Ne esistono di due tipi: alcuni hanno piú lunghe le zampe di destra, gli altri quelle di sinistra. I primi sono obbligati a procedere intorno al monte in senso antiorario, gli altri in senso orario.
Quando si incrociano durante i loro giri, si possono finalmente accoppiare. Però se il maschio si trova piú in alto o in basso rimane a bocca asciutta: la femmina è irraggiungibile.
Sarà vero? 😂😂😂
Incredibile come la cultura montanara sia estesa trasversalmente.
Nelle Alpi cuneesi si narra di un animale chi chiamano il Dahu: ha la stessa propensione a girovagare per le montagne in una sola direzione e quindi ha le zampe a valle più lunghe di quelle a monte.
Neppure i Dahu si fanno vedere.