Il femminismo ecologico nella crisi capitalista – 2

Il femminismo ecologico nella crisi capitalista – 2
(per una critica del nesso donna/natura)
di Alice Del Gobbo
(pubblicato in Quaderni della Decrescita, settembre-dicembre 2023)

(continua da)

Rete, lotte e alternative
A questo proposito è necessario evidenziare le potenzialità dell’ecofemminismo nell’articolare una politica complessa e articolata nel contesto della crisi ecologica. Si potrebbe chiamare «intersezionalità», ma questo termine mi pare in parte riduttivo poiché richiama molteplici assi di oppressione separati che in qualche modo convergono in un unico punto (Bohrer, 2019). Si tratta piuttosto di indagare le «matrici» di potere (Quijano, 1991) e dominio nelle loro interdipendenze strutturali. Si è detto più sopra che l’ecofemminismo non è semplicemente l’addizione di femminismo ed ecologismo, e tuttavia non è nemmeno la sintesi di questi due termini su un piano superiore. Include invece, in modo organico, una critica alla colonialità, allo specismo, al binarismo di genere, alla divisione in classi della società (Bianchi 2016). È infatti impossibile scindere la costruzione e il consolidamento del nesso donna/natura dal processo di conquista coloniale che segna l’emergere dello stesso concetto di Natura. La Natura come separata all’Uomo, la natura come progetto di classe, nasce dalla necessità per l’uomo europeo di costruire un qualcosa di completamente altro-da-sé, inferiore e dispensabile di cui appropriarsi a piacimento, qualcosa che è mero oggetto di fronte a se stesso in quanto soggetto (Ferdinand, 2019).

La costruzione del non umano e del non-bianco come Natura in questo senso è perciò parte dello stesso processo di delegittimazione, svalorizzazione e appropriazione che ha investito anche le soggettività femminilizzate. La radicalità della costruzione binaria di sesso e genere nella modernità capitalista è inscindibile dalla costruzione della razza come dispositivo di categorizzazione degli esseri umani (Lugones, 2007). Dentro questo processo si colloca anche la netta scissione tra umanità e animalità che va definendosi nel contesto moderno e che rende possibile tutta una serie di pratiche razionalizzate di gestione dei corpi non umani ai fini produttivi – con disastrosi effetti esistenziali ed ecologici (Gaard, 2002). Animale, donna, soggetto razzializzato o non binario, ma anche la classe lavoratrice, sono parte di tutta una semantica che li accomuna tra di loro (la donna e il negro sono “animaleschi”) e nel proprio essere “natura”: istinto, corpo, riproduzione. Per questo, in un’ottica ecofemminista, la classe non può ridursi a quella lavoratrice sfruttata da quella proprietaria: si tratta di un campo aperto che include soggetti, umani e non, essenziali eppure invisibilizzati all’interno delle catene globali del valore, evidenziando connessioni tra soggettività che altrimenti sfuggono in secondo piano.

Uno dei punti che l’ecofemminismo rivendica ha precisamente a che vedere con l’abitare la posizione minore che è stata assegnata dal sistema, per sovvertirlo. L’obiettivo delle lotte socio-ecologiche per la preservazione della vita e la cura del vivente non è quello dell’inclusione in un sistema che è intrinsecamente violento e fondato sul dominio. Partire dal proprio posizionamento soggettivo significa valutare, e valorizzare, diversamente rispetto al sistema. Il capitale valorizza la produzione e la crescita, rende il mondo merce per il mercato, mette al centro il valore di scambio come veicolo di accumulazione.

Nel fare questo, svalorizza la vita e i suoi desideri a favore di obiettivi che con la vita non hanno nulla a che vedere, minando le basi dell’esistenza stessa. Una politica materialista ed ecofemminista invece si colloca precisamente in tutti gli ambiti svalorizzati e tuttavia essenziali. Il fine delle pratiche socio-ecologiche torna ad essere immanente: la riproduzione e il fiorire della vita. Si mette al centro il nodo della ricchezza in quanto valore d’uso, non della merce in quanto valore di scambio, partendo dall’energia libidica dei corpi e dai loro concatenamenti più che umani (Salleh, 2016). In altre parole, il tema è: quali sono i bisogni e i desideri concreti che articolano l’idea del vivere bene in relazione a sé stesse e al resto del mondo, e come attuarli in modo non distruttivo?

Le politiche ecofemministe sono sempre politiche della materia e hanno a che vedere con il rapporto incorporato e cosciente con le ecologie prossime e lontane, così come coi corpi che le abitano. Sono lotte contro la nocività nei territori a causa di produzioni inquinanti, contro l’ingiustizia ambientale che fa ammalare sistematicamente i soggetti più fragili perché strutturalmente esposti a molteplici fattori di rischio (Marya e Patel, 2022), sono le pratiche quotidiane di cura di ecosistemi fragili, le pratiche di approvvigionamento autonomo, le cure autogestite. L’economia ecofemminista è quella dell’«approvvigionamento della sufficienza» (Mellor, 2006; Salleh, 2009) che ricolloca le pratiche produttive e riproduttive dentro un asse non dicotomizzante dove il limite è posto dal bisogno, dal desiderio, dalle potenze delle relazioni più-che-umane in cui si articolano.

Ma, al contrario di quello che forse spesso si tende a immaginare, sono anche delle politiche meticce, queer (Gaard, 2020), non normate dal punto di vista del genere, della razza, forse nemmeno della specie. Poiché parte di un progetto ecofemminista critico è proprio negare la Natura come destino, partire dalla forza dei propri posizionamenti per decostruirli, per aprire il campo della liberazione anche a chi pensa di non averne bisogno. Questo non significa che si neghi l’interdipendenza e la relazionalità, che in parte determinano ogni esistenza da un punto di vista materiale e soggettivo.

Negare la Natura in quanto astratta determinazione non significa negare il corpo, la materia, la dipendenza, il limite, ma piuttosto l’eterodeterminazione. L’ecofemminismo è anche poi una politica antispecista perché rigetta l’idea che ci siano dei soggetti i cui corpi sono disponibili, appropriabili; perché negare l’animalità e la femminilità è negarne una matrice comune di dominio. Infine, è una politica che valorizza la molteplicità, che rifiuta non solo il binarismo ma anche l’universalismo, perché riconosce il mondo come differenza concreta e perciò favorisce la costruzione di un «pluriverso» (Kothari et al., 2021).

Conclusioni aperte. L’ecofemminismo nel contesto della decrescita
Il femminismo ecologico, o ecofemminismo, è una corrente composita che parte dalla disamina del nesso donna/natura nel capitalismo contemporaneo per decostruirlo e problematizzarne sia gli assunti filosofici che i risvolti pratici. Esso riconduce la crisi ecologica, ossia il fallimento delle relazioni socio-ecologiche della contemporaneità, a una matrice di potere patriarcale che prende diverse forme nel corso della storia umana e che tuttavia si articola nel modo più totalizzante, universalizzante, radicale e violento nella modernità capitalista. Tutti i regimi patriarcali implicano dominio e appropriazione tanto del corpo delle donne quanto della natura non umana. Tuttavia, i dispositivi di sapere/potere capitalisti – scienza, tecnica, organizzazione del lavoro e del valore – sono in grado di approfondire e ampliare la presa sul vivente fin nelle sue più intime espressioni (si pensi all’ingegneria genetica o alla messa-a-lavoro dell’emotività e della cura nel capitalismo «biocognitivo» (Morini e Fumagalli 2009)) e a livello globale.

Le categorie filosofiche che permettono di comprendere e categorizzare il mondo in questo specifico periodo storico e modo di ri-produzione sono estremamente potenti nel fissare i diversi soggetti a posizioni date, collocandoli in una gerarchia di valore che costruisce alcuni – maschi, bianchi, eteronormati e razionali – come norma, e gli altri come inferiori e per questo liberamente appropriabili da parte dei primi. Queste gerarchie sono funzionali all’accumulazione di capitale su scala globale. L’imperativo della crescita che definisce il modo di ri-produzione capitalista è alla base di questa espansione vertiginosa e unica nella storia umana dello sfruttamento della biosfera. Per questo motivo la critica ecofemminista non si ferma semplicemente a una critica del patriarcato e dell’antropocentrismo, ma si intreccia con le analisi provenienti dal campo dell’ecologia politica (e sociale) per rintracciare nell’organizzazione del lavoro, del valore, ma anche della cultura e del desiderio (Dal Gobbo, 2023), le radici della crisi ecologica, sociale ed economica odierna.

Il rapporto tra l’oppressione della donna e il saccheggio della natura è complesso e sfaccettato, i due assi non solo si intrecciano ma si rinforzano a vicenda, articolando una matrice di interdipendenze pratiche e discorsive in cui la donna viene naturalizzata in quanto corpo atto alla riproduzione e la natura femminilizzata in quanto fragile, priva di autodeterminazione e potenza. Ciò si intreccia e risuona con altre forme di oppressione di classe, razza e specie che si basano sullo stesso dispositivo di alterizzazione, naturalizzazione, inferiorizzazione. Per questo l’ecofemminismo è un campo di sapere e lotta che naturalmente intreccia diverse soggettività e istanze. Come sostiene ancora Merchant (2022, p. 15, traduzione mia):

L’enfasi sulle relazioni ha il potenziale di mettere in luce le connessioni tra le varie forme di oppressione, come quelle che riguardano le donne, i popoli emarginati e colonizzati, gli animali e la natura. Il riconoscimento del carattere di rete delle varie forme di dominio suggerisce una strategia cooperativa di riparazione della rete. L’approccio ecofemminista si concentra sulle relazioni e le interconnessioni tra i vari movimenti ecologisti e porta alla possibilità di una teoria e di una pratica più completa e cooperativa.

Rimangono aperti alcuni quesiti importanti che riguardano sia le tensioni interne al campo ecofemminista, come per esempio la divisione tra ecofemminismo spirituale e critico, che le potenzialità politiche di questa cornice concettuale. In particolare, se è facile capire la rilevanza di questa lente per interpretare forme di r-esistenza rurale, nativa, «meta-industriale», sarà necessario svilupparne il rapporto con la vita nel contesto urbano, con campi di lotta che non sempre si collegano esplicitamente all’ecologia, come ad esempio la questione della salute e le rivendicazioni per l’autodeterminazione dei corpi, quella dell’abitare e dell’accesso alle risorse, dei salari, della cura (si veda, ad esempio, Mies e Shiva 2014). A ben vedere, tutte queste istanze rientrano nel campo di applicabilità e interesse ecofemminista.

Il contributo chiave dell’ecofemminismo nel contesto della policrisi capitalista e della necessità di immaginare alternative è la sua capacità di tenere ancorati i processi alla vita e alla sua riproduzione, pensate come parte di una rete di relazioni e interdipendenze che ne segnano i limiti ma anche le possibilità. Ritornare alla materia significa qui radicarsi nell’esperienza concreta e nella singolarità delle molteplici soggettività che abitano il mondo, nella connessione desiderante che intreccia le esistenze più-che-umane nella rete della vita. Si tratta di una postura intrinsecamente contraria alle logiche capitaliste, in cui il singolare e lo specifico sono sovrascritti da categorie astratte di valore, scambiabili e indifferenti, sottomesse a logiche di accumulazione e profitto che non rispondono a nessun desiderio concreto (Bianchi 2016).

Ritornare alla materia significa anche stare in processi di deliberazione collettiva attorno ai bisogni, ai desideri, e ai mezzi per arrivarci. Farlo da un punto di vista ecofemminista implica partire da soggettività ed entità marginalizzate, da relazionalità vissute ogni giorno, eppure facilmente dimenticate per il fatto di essere e irriducibili alla norma della proprietà e della mascolinità bianca. Partire dai corpi vivi di chi si prende cura della vita, di chi lotta quotidianamente, nei gesti più piccoli o nelle grandi rivoluzioni, per una felicità radicale che non può prescindere da processi di trasformazione collettiva verso una giustizia socio-ecologica oltre il capitalismo.

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Il femminismo ecologico nella crisi capitalista – 2 ultima modifica: 2025-11-18T04:22:00+01:00 da GognaBlog

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1 commento su “Il femminismo ecologico nella crisi capitalista – 2”

  1.  
    In sintesi la domanda è abbastanza semplice: possono le donne contribuire al superamento del capitalismo? penso proprio di sì. Almeno in Occidente, dove è praticamente finita l’esclusione politica e sociale delle donne provocata dal patriarcato.

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