David Pilling, editorialista economico del Financial Times smonta tutti i falsi miti sul prodotto interno lordo ne L’illusione della crescita (Il Saggiatore): “Compatta tutto in un unico numero grande facile da capire, ma è contraddittorio. Esistono almeno altre quattro misurazioni alternative”.
Il PIL? E’ è stupido e obsoleto (lo ha capito pure la Cina)
di Andrea Fioravanti
(pubblicato su linkiesta.it il 16 marzo 2019)
Spessore 3, Impegno 3, Disimpegno 3
Economisti a parte, a pochi interessa sapere come si calcola il prodotto interno lordo. L’idea vaga è che se cresce, i politici sono bravi, l’economia funziona e siamo tutti più felici. Se diminuisce, il Governo è incapace, l’economia è un disastro e prima o poi arriverà l’apocalisse. Ogni mese i giornali di tutto il mondo pubblicano i dati sul Pil per giudicare lo stato di salute della loro economia. Perché è un dato semplice, un numero intero che tiene dentro un po’ tutto. E se fosse troppo riduttivo? A chiederselo non è un no global né un anarchico anticapitalista ma un giornalista del Financial Times, uno dei più autorevoli giornali economici al mondo. David Pilling ne L’illusione della crescita” (Il Saggiatore), in libreria dal 28 febbraio non si limita a criticare il Pil, spiegando perché è un metro di misurazione obsoleto, ma offre anche alternative concrete, immediatamente applicabili.
Pilling, perché il Pil è un’illusione?
Perché misura tutto ciò che viene prodotto: cose buone e cose cattive, non fa alcuna differenza. Macchine che inquinano, armi che uccidono, bottiglie di alcool che creano dipendenza. Più ce n’è, meglio è. Basta aggiungere cose, non importa quali, per far sembrare le nostre economie migliori. Il Pil misura efficacemente la quantità ma malissimo la qualità. È utilissimo per calcolare la produzione di materiale, ma è pessimo per misurare i servizi che ora rappresentano oltre il 70% della produzione economica dei Paesi più avanzati. La verità è che dovremmo trattare i Paesi come un’azienda e invece ci facciamo fregare da un +1 o -1%.
Uno Stato non può essere paragonato a un’azienda.
Vero, ma se vi chiedessero di investire diecimila euro in una società che l’anno scorso ha realizzato dieci milioni di dollari non vi fermereste certo al fatturato. Perché vi servirebbero più informazioni per fidarvi. Qualsiasi investitore chiederebbe quanti lavoratori ha quell’azienda, quanto sono vecchi i macchinari, quanto è competente e aggiornata la forza lavoro. Non capisco perché chi compra btp o bund non pretenda la stessa cosa da uno Stato e si accontenti. Perché il Pil annuale ci dice solo quanto flusso di denaro è uscito da quella economia in un dato anno, non sappiamo nulla sul suo bilancio. E soprattutto non sappiamo se quel Paese avrà un’economia sostenibile in futuro.
Perché dovremmo saperlo?
Per prevedere eventuali disastri. Facciamo un esempio: l’Arabia Saudita basa tutta la sua economia sulla produzione di petrolio. Più scava, più avrà un PIL eccellente e tutto ciò è fantastico fino al giorno in cui però le risorse finiranno. E se non avrà trasformato i guadagni derivanti dal petrolio in altri investimenti puntando sulle università, sulle nuove tecnologie, o su una forza lavoro specializzata in altri campi si ritroverà con un’economia ferma e fallita. Questo perché si è accontentata del fatto che la sua economia è cresciuta guardando solo al Pil e non ad altri indicatori. Il problema è che siamo abituati così da decenni.
Per colpa di chi?
Simon Kuznets, un economista bielorusso emigrato negli Stati Uniti dove lavorò per il Governo. All’epoca non esisteva una metodologia sistematica per tracciare un quadro accurato dell’economia nazionale, si studiavano dati approssimativi come i carichi dei vagoni merci. Franklin Delano Roosevelt, eletto nel 1932 voleva un dato per capire come risollevare gli Stati Uniti dopo la Grande depressione del 1929. E Kuznets con un piccolo staff di otto persone girò per tutto il Paese chiedendo agli agricoltori e gli industriali cosa e quanto avevano prodotto e i materiali usati per farlo. Così nacque il Pil. Dagli anni Trenta non è cambiato molto. Ancora oggi,il Pil estrapola i dati delle inchieste senza fare una sintesi.
Abbiamo capito, il Pil è sporco, brutto e cattivo. Ma ci sono delle alternative?
Prima un’alternativa di metodo: dobbiamo disaggregare il PIL e imparare a guardare in profondità i numeri. Ci sono tanti esempi. Partiamo dall’Italia: esiste il coefficiente Gini (inventato dall’economista Corrado Gini nel 1912, ndr) che calcola approssimativamente la diseguaglianza in una scala da 0 a 100. Zero è una società in perfetta uguaglianza dove tutti guadagnano la stessa cosa, cento in cui una persona sola guadagna tutto. Un ottimo modo per calcolare il benessere di una società. Per esempio le società svedesi hanno un coefficiente sotto al 30, il Sud Africa sopra il 60.
Non mi dica che c’è solo questo.
No, un altro che preferisco è il reddito mediano. A differenza della media dove si prende il totale e lo si divide per il numero di persone, la mediana prende la famiglia in mezzo alla “fila” tra ricchissimi e poverissimi, e dà un’idea di come vive la persona tipica. Mi piace come misura perché non dice quanto la famiglia media produce per l’economia, ma quanto guadagna. Quindi quanto lo Stato fa per la famiglia. Immaginate la prospettiva per i politici: i cittadini non chiederebbero al Governo di aumentare il Pil del 2%, ma di aumentare il reddito familiare medio di qualche centinaio d’euro. Uno è una percentuale lontana, l’altro un dato concreto e comprensibile per chiunque. Oppure il dato sull’aspettativa di vita che mette in luce tante contraddizioni.
Quali?
Gli Stati Uniti hanno il quadruplo del Pil del Giappone. Ma se guardiamo all’aspettativa di vita, i giapponesi sono il popolo più longevo mentre lo stesso dato negli Stati Uniti sta calando dalla fine degli anni Novanta. Quali dei due dati conta di più per calcolare la felicità di una persona? Anne Case e Angus Deaton hanno calcolato che a partire dal 1999 negli Stati Uniti ci sono state tantissime morti premature di maschi bianchi della classe operaia per suicidi, avvelenamento da alcol e droghe o malattie epatiche croniche. Tutto questo nonostante l’economia statunitense cresca sempre di più. Ci eccitiamo se il nostro PIL è salito del 3 per cento, ma non sembra preoccuparci troppo il fatto che potremmo sicuramente morire prima che in altri Stati. Così come poco ci importa di misurare i danni che stiamo facendo all’ambiente.
In realtà siamo pieni di misure sulla produzione di emissioni di CO2, soprattutto nelle ultime settimane, da quando si è risvegliata una coscienza “verde”.
Sì, sono a nostra disposizione, ma gli economisti non le prendono sul serio per definire la sostenibilità e gli obiettivi di un’economia. Non a caso gli Stati Uniti vogliono uscire dagli accordi della Cop21 di Parigi.
Però il Pil è lo strumento più usato dai mass media per giudicare ogni mese se il Governo sta facendo bene o male. Siamo forse troppo pigri?
Siamo un po’ tutti colpevoli. La genialità del Pil è compattare tutto in un unico numero grande, e quindi facile da capire, ma anche falso e contraddittorio: contiene tutto. Il punto è che non possiamo più basarci su una misura approssimativa e obsoleta. Ci servono panieri più piccoli, misurazioni disaggregate su specifici temi che ci permettano di avere un’istantanea più sofisticata sull’andamento delle nostre economie. Non dovremmo avere paura della complessità e di scavare un po’ sotto i numeri.
Ma senza il Pil diventa difficile giudicare mese per mese se un governo sta facendo bene per migliorare l’economia.
Bisogna stare attenti a giudicare positivamente un governo solo se aumenta il Pil. Perché è una misura fuorviante e così spingiamo i governanti a indirizzare le loro politiche verso una crescita senza criterio, purché aumenti la produzione. Magari un governo decide di aumentare le ore di lavoro perché più lavoriamo, meno tempo libero abbiamo e più produciamo. Ma così non vedremmo più le nostre famiglie solo per far sorridere qualche estimatore del Pil. Così come abbiamo fatto prima della crisi del 2008, convinti che tutto andasse bene.
Cosa c’entra il Pil con la crisi del 2008?
C’entra eccome. Perché pensiamo che la crescita di per sé sia una cosa buona. E la crescita è misurata dal Pil. Perciò, quando il Pil sale, è necessariamente un bene. E la convinzione fino al 2008, ma anche adesso, è che lasciare carta bianca alle banche e farle ingrandire senza regolamentazioni affinché facciano il loro lavoro è una ricetta per avere un Pil più alto. Poco prima che tutte la maggior parte delle banche fallissero o andassero in profonda crisi, nel Regno Unito contribuivano a circa il 10% del nostro Pil perché dal punto di vista contabile più era rischioso il portafoglio dei prestiti, maggiore era il contributo alla crescita. Dopo il collasso abbiamo capito che era tutto un bluff e qualcuno avrebbe pagato: noi. Ed è questo che fa arrabbiare le persone.
Cioè?
Se gli esperti ci danno un quadro dell’economia, ma non è quello che sentiamo come un paese, la gente si arrabbia. L’ha detto anche l’ex presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy. Perché il Pil sovrastima alcuni aspetti della nostra vita: se l’economia cresce ma molti si sentono lasciati indietro e marginalizzati proprio per pagare quei beni e servizi che dovrebbero definire le nostre vite, allora cresce il risentimento popolare.
Pensa che riusciremo realisticamente a cambiare prospettiva sul Pil?
Queste idee non sono più radicali, sono state discusse da economisti come il premio Nobel Joseph Stigliz. Anche la Cina che per decenni ha santificato il culto del Pil, ossessionata dalla sua crescita a dismisura ora fa i conti con i danni prodotti dall’inquinamento. Ora anche a Pechino capiscono che il Pil non riesce a fotografare al meglio il benessere di una società e il presidente Xi Jinping ha detto ai suoi funzioanri di smettere di usare solo i tassi di crescita del Pil per decidere chi sono gli eroi del partito comunista.
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Continuo a pensare che certe cose (forse la maggioranza) lo siano. Ammetto che l’irritazione è scattata sul discorso del PIL americano paragonato a quello giapponese… ma il discorso di fondo è che il costume personale e le scelte individuali delle persone non sono la conseguenza ma semmai la premessa delle scelte politiche.
E’ vero che la felicità non dipende solo dall’incoming ma è anche vero che non si può decretare. Ah sì… ci sono i servizi sociali ed accanto le libertà civili. Tutto sommato roba difficilmente concretizzabile se non sostenibili economicamente. Detto in modo sporco e volgare tu stato, datore di lavoro, sistema politico, lasciami qualche spicciolo. Come lo spenderò sono fatti miei indipendentemente dal fatto che poi io raggiunga la felicità. Pensare di influenzare il costume, non so come dire, è un po’ da stato etico.
Oltre al fatto che per ora la misurabilità della felicità lorda è ancora un po’ come fosse antani, e alla fine la correlazione tra indici ragionevoli (tipo l’aspettativa di vita) e il PIL abbastanza lineare. Un po’ meno lineare con l’indice di Gini. Sarebbe interessante stabilire gli scostamenti statistici ma la sensazione è quella.
Alla fine quello che dice l’articolo a me sembra più ideologico che concreto.
Però… che sfacciataggine discutere di economia col Braga!
s ero io,
Marco,
penso che Pilling non dica baggianate. Sappiamo tutti che il Pil è una misura solo grossolana e approssimativa. Lui spiega quali sono le altre grandezze principali che bisognerebbe tener d’occhio, facendo alcuni esempi; e per una volta questo discorso esce dalle baggianate senza andare a planare sulla decrescita felice
Che il PIL non sia il migliore indice per misurare economie mature forzatamente a bassa crescita è vero. Ma non lo dice. Dice altre cose. Le solite baggianate.