C’era una volta il Pizzo Bello
(scritto nel 1995)
Lettura: spessore-weight(1), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Ideato per evidenziare le tracce della vita del Ghiacciaio della Ventina negli ultimi secoli, questo percorso di un’ora e mezza dal Rifugio Gerli-Porro si basa sulle osservazioni scientifiche degli ultimi cento anni. Si offre alla curiosità di tutti grazie alla comodità di accesso e grazie alle evidenti morene che scendono sotto i 2000 metri di quota. È lungo complessivamente 3500 metri e richiede il superamento di non più di 175 metri di dislivello. Cartelli e segnali sono stati studiati in modo tale da rendere nullo o quasi l’impatto ambientale. Alcune vecchie scritte sui massi morenici sono state cancellate per sottolineare l’aspetto naturalistico e didattico alla base dell’iniziativa. lì percorso si svolge nella prima metà in coincidenza del vecchio sentiero segnalato; in discesa invece segue un tracciato del tutto nuovo, il cartello 1, in corrispondenza del primo arco morenico, è il limite raggiunto nel XVII secolo. Il 2 e il 3 evidenziano i limiti nel corso del secolo scorso, e così i cartelli successivi fino al 9, che forniscono un’idea anche dello spessore via via accumulato. Il cartello 10 indica un grande masso con la scritta S73 rovesciata. Questo segnale fu apposto nel 1973, ma in seguito il masso rotolò fino all’attuale posizione, a 2130 m. Poco sopra è l’attuale fronte del ghiacciaio. Una passerella permette di guadagnare la riva sinistra idrografica del torrente e di iniziare il ritorno, accanto agli altri cartelli che indicano le posizioni, indietro nel tempo.
Non è detto che sia bel tempo e che si veda un bel panorama; chissà se il bambino vorrà salire fin lassù, magari fa i capricci prima; poi forse ci sarà troppo caldo, o troppo freddo: in montagna non si può mai sapere. Una cosa però è certa, a mezzogiorno si mangia. Borse, cestini, zaini sono riempiti di panini, bibite, vino e biberon; oppure ci si affida alle premure di una buona trattoria dove non si spenda molto.
Mangiare in montagna è un piacere e un obbligo, se non altro perché si ha più appetito che in città. La Val Malenco offre tante possibilità di scelta, in genere una cucina tipica che, rifacendosi al passato povero prossimo, ricorda a tutti con cosa erano cresciuti i nostri nonni.
Una volta non c’era questa scelta odierna di locande e ristoranti. Anzi, l’ospitalità era approssimativa. Gli inglesi (che tra l’altro furono i primi a salire il Monte Disgrazia) nell’Ottocento descrissero come barbari questi montanari (in confronto con gli svizzeri!). Secondo la leggenda, la montagna al di sopra era verde di boschi e pascoli fino alla cima. Il Pizzo Bello, così lo chiamavano i montanari. Lo trovavano così entusiasmante da osservarlo per ore, dimentichi di ciò che poteva accadere attorno a loro. Un giorno un viandante stanco e affamato chiese umilmente un tozzo di pane e un giaciglio. Ospitalità, appunto. I pastori non lo udirono neppure, rapiti com’erano dal loro gioiello. Così il mendicante alzò una mano verso quei boschi e quei prati che cancellavano con il loro splendore ogni pietà umana e subito si sviluppò un incendio terribile. Un mare di fuoco azzerò ogni traccia di vita e i luoghi attorno al Pizzo Bello si chiamarono da allora Girosso, Sassersa, Corni Bruciati, Corna Rossa: tutti i nomi del fuoco.
La cucina valtellinese è tra le più originali e ricche di tutto il panorama alpino. La quota media della Val Malenco e le difficoltà di scambio con la bassa valle estremizzano le caratteristiche di un’essenziale povertà: mentre la Valtellina curava un’antichissima tradizione vinicola risalente al VI secolo dopo Cristo, la Val Malenco a stento produceva l’aspro vino di Cagnoletti. A causa dell’isolamento in cui la Valtellina è sempre stata suo malgrado, la cucina delle sue valli si è potuta sviluppare per secoli quasi al riparo dagli influssi di altre popolazioni, conservando perciò un’originalità notevole.
Se al Monte Disgrazia fosse tolto il suo mantello di ghiaccio apparirebbe la sua essenza. Le rocce serpentinose che lo costituiscono sono verdastre ma rivestite di una patina mattone, come una ruggine naturale. Tracce di folgori sono disseminate ovunque in questa roccia ricca di ferro. Fuoco, fulmini, ruggine, ghiaccio in continuo movimento: il Disgrazia è come l’officina del dio Vulcano, sempre al lavoro. Ci insegna tante cose, ma non ci dice nulla sull’origine del suo nome.
Generalmente la carne fresca era considerata un “lusso” e riservata quindi a particolari momenti dell’anno o della vita. La cucina tradizionale era basata su una dieta a base di cereali e verdure. Così son nati gli ormai celeberrimi pizzoccheri, fettuccine di grano saraceno cotte con patate, verze o coste, mescolate poi, una volta scolate, con abbondante formaggio e condite con un soffritto di aglio e burro. Analoghi ingredienti di base sono usati per gli sciatt, frittelle di farina di grano saraceno (nell’impasto è facoltativo aggiungere un bicchierino di grappa) ripiene di formaggio magro, cotte in origine nello strutto di maiale e oggi nel burro. Più o meno con gli stessi ingredienti si fa la polenta taragna, una variante ricca della polenta, fatta con grano saraceno, burro e formaggio fusi durante le fasi finali di cottura; con patate schiacciate, fagiolini, formaggio e soffritto di aglio e burro si fa il tarozz spesso ottenuto utilizzando gli avanzi di cucina. Accanto a questi piatti tradizionali si allineano alcuni salumi caratteristici come il prosciutto di montagna e soprattutto la bresaola, ottenuta dall’essiccazione della coscia di manzo dopo essere stata speziata e salata. Esistono tuttavia altre varianti sul tema, note come slinzega e viulin: la prima è una bresaolina molto stagionata, quasi dura, la seconda si ottiene da cosciotti di capra o camoscio e il nome de riva dalla forma e dal modo utilizzato per tagliarla, simile al gesto di suonare un violino.
“Disgrazia” è drammatico, ma non deriva dall’incendio leggendario, perché è un nome assai moderno. L’ipotesi più accreditata vuole che un topografo abbia così tradotto il toponimo “Monte dei Guai” che appariva sulle carte catastali nell’Ottocento: si riferiva alla proprietà della famiglia Cuai di Traona! Poi c’è l’altra ipotesi che Disgrazia sia l’italianizzazione di desglascià, che in dialetto significa sciolto, sgelato e che forse si riferiva alle acque dei ghiacciai.
Fra le carni cotte ci è proposta la selvaggina cucinata in vari modi fra i quali spicca il salmis di cervo, camoscio o lepre. Ma il pranzo non è ancora finito e, vista la vasta produzione valtellinese di formaggi grassi, semigrassi e magri a pasta cruda, cotta e semicotta, nei ristoranti assaggiarli è un dovere. Fra tutti, il “gran signore” è il formaggio bitto, in origine fatto solo in Val Gerola, in Bassa Valtellina. Questo rivaleggia per bontà e caratteristiche con i più celebri formaggi alpini, come la fontina e l’emmental.
Se vogliamo farci ancora più male, fra i dolci è abbastanza diffuso il panun o panettone valtellinese, fatto con un semplice impasto di farina, zucchero e uova a cui si aggiunge un ricco corredo di noci, nocciole, fichi secchi e uva passa; simile per ingredienti, ma meno rustica, è la bisciola della Val Màsino.
Nelle trattorie della Val Malenco si beve, ma non si può bere alcun vino della valle. Il Cagnoletti non esiste più, forse se lo ricorda ancora solo qualche anziano pastore. La quota elevata impedisce la coltivazione della vite, ma siamo a poca distanza dalla collina del Sassella e il pericolo di rimaner senza è scongiurato. Dagli assolati terrazzamenti del versante destro della Valtellina Sassella, Grumello, Valgella e Inferno si preparano ad allietarci. Si tratta di vini robusti e fatti apposta per accompagnare soprattutto le carni e la cacciagione, ma anche le energetiche portate di pizzoccheri e polenta taragna.
Dunque la cucina, attrazione geniale, c’è ancora e ti conquista: in montagna può far bello o fare brutto e tirare vento. Osti e gestori sono tra i principali artefici del salvataggio della valle. Il guaio grosso l’avevano combinato i topografi, che con “disgrazia” pasticciarono un nome tragico su una montagna meravigliosa che meritava di continuare a chiamarsi con lo splendido nome che i pastori prima dell’incendio le avevano dato. C’era una volta il Pizzo Bello.
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