Il regno del granito
(scritto nel 1995)
Oltrepassato San Martino, l’Hotel dei Bagni di Màsino, ben raccolto al fondo della valle in una fitta abetaia, ci offre ricordi del secolo scorso. Ospitalità e cucina si affiancano alle famose cure termali per insegnare al passante gli ultimi scampoli di cultura e ricordargli che, oltre, si entra nel regno del granito. Aldo Bonacossa racconta (1954): “Anche se non vi fermate ai Bagni del Màsino, che esteticamente preferivo nel passato senza il grande fabbricato aggiunto, con un soprapassaggio veramente antiestetico, sappiate che una volta erano famosi, oltreché per l’ottima cucina familiare, per la decantata virtù dell’acqua che in Lombardia veniva consigliata alle spose desiderose di prole. Ci passò molta della Milano elegante e se incontro talora la discendenza di una delle più note famiglie ambrosiane, devo ammettere che la cura fece bene alle loro madri: sono tutte belle ragazze e signore altissime, ben superiori alla media, e dei maschi uno credo domini attualmente tutti i milanesi dall’alto dei suoi 2,03 metri“.

Ma anche se i Bagni potevano essere un toccasana per i nobili, basta un frettoloso sguardo sulle specialità gastronomiche della Val Màsino e sui vini della vicina Valtellina per non dimenticare che stiamo parlando di una zona le cui popolazioni hanno per secoli tratto il necessario per la sussistenza esclusivamente dalla montagna. Qui l’economia (e prendo l’esempio di questa valle per parlare di tutta la Valtellina) era principalmente basata sull’allevamento del bestiame e su una magra agricoltura. Mentre dal primo si potevano trarre i soliti prodotti di macellazione (carne e salumi) e quelli derivanti dalla lavorazione del latte (burro e formaggi), dalla seconda, anche con fatica massacrante, si traeva ben poco: patate, cavoli, grano saraceno, segale, orzo; noci, castagne, funghi e frutti di bosco arricchivano un pizzico la qualità ma richiedevano altro lavoro. Con questi prodotti il montanaro si alimentava per tutto l’anno e da essi doveva ricavare le energie per mantenere una vita fatta di durissimo lavoro e di ben pochi momenti di pausa; inoltre, data la miseria abbastanza generalizzata, nulla doveva andare perduto. È per questo che in genere i cibi della cucina montanara sono assai “calorici”, ricchi di condimento a base di burro, strutto o formaggio. Lo stesso si può dire per i salumi, confezionati con una forte percentuale di grassi. Molti piatti, osservando un po’ attentamente, si possono far risalire all’utilizzo degli avanzi e meravigliano per la loro creatività, gustosa ma scarna ed essenziale.
Ciò che la cucina ci ricorda (e non parliamo di tanto tempo fa) lo si può ancora vedere oggi in Val Porcellizzo, alla base dei grandi colossi del Céngalo e del Badile. I numerosi ruderi di baite e di recinti testimoniano quanto essa fu sfruttata per il pascolo, specialmente sul versante orientale. I ricoveri per i pastori sono tra i più malandati delle Alpi, eppure d’estate, ogni giorno, un centinaio di capi da latte produce sei forme di formaggio bitto che a dorso di mulo sono portate nelle casere a valle per la stagionatura. Il quadro naturale che ospita questi rudimentali alpeggi è assai severo: ciò non è dovuto solo alla nudità e al vigore delle cime circostanti: sono gli accessi all’alta valle, l’impraticabilità apparente di alcuni pascoli, le distese enormi di ganda che dall’alto assediano l’erba.

L’impressione è condivisa da tutti coloro che sono saliti fin quassù. E gli uomini di queste valli che hanno fatto parlare di sé per le loro gesta alpinistiche, come la generazione dei Fiorelli per esempio, riflettono con il loro comportamento l’essenzialità di queste montagne. Perché questo è il Regno del Granito.
Probabilmente, tra gli affioramenti rocciosi, il granito è il più diffuso sul nostro pianeta. Moltissime tra le più belle montagne del mondo sono costituite da questo splendido amalgama di origine vulcanica, basta pensare ai picchi patagonici, alle colossali torri del Baltoro in Karakorum o più semplicemente al Monte Bianco. E sempre rimanendo sulle nostre Alpi, ancora di granito, nelle sue diverse qualità, sono l’Adamello, le Alpi di Uri e tante altre. Quasi l’intera Corsica è fatta di granito, come pure vaste zone della Sardegna. Ma tra Chiavenna e la Val Malenco si erge una catena di granito ghiandone e serizzo unica al mondo, tanto da giustificare l’idea di “regno”, e la Val Porcellizzo è al cuore di questa formazione. Pareti verticali, guglie appuntite si ergono una dopo l’altra per decine di chilometri, nude e veramente “granitiche”: non come sul Monte Bianco, dove la potenza delle strutture rocciose è bilanciata dalle altrettanto grandiose colate di neve e ghiaccio. Badile e Céngalo sono più smodatamente rocciosi e si appoggiano su immani vastità di blocchi (le gande) oppure su placconate lisce (le piodesse) dove il lavoro millenario dei ghiacciai ha ricavato forme che per la loro essenzialità sono perfino allegoriche. Neve e ghiaccio non coprono e non bilanciano, sono semplicemente accessori per sottolineare la grande architettura. Questo granito tende verso l’alto tanto più si appoggia su superfici lisce e orizzontali. È gotico. E come le cattedrali gotiche è ricco di ogni sorta di decorazioni, mai sovrabbondanti. Ogive, costoloni delle volte e timpani sono qui tradotti con cuspidi, diedri e strapiombi. “Con la varietà dei soggetti e delle scene che l’adornano, la cattedrale si presenta come un’enciclopedia di tutto il sapere medioevale, perfettamente completa ed assai variata, talvolta ingenua, talvolta nobile, ma sempre vivente. Queste sfingi di pietra sono così degli educatori, degli iniziatori di prim’ordine (Fulcanelli)”.

Il solare ma desertico circo glaciale dell’alta Val Porcellizzo, le incassate onde di ghiaccio tra le Sciore e il Ferro da Stiro, il baratro scuro e selvaggio della Val Bondasca, le ombrose e gigantesche pareti del Céngalo e del Badile, i tetri precipizi e le gande desolate della Trubinasca sono un’orchestra indimenticabile, un “altare” supremo, una gioia continua per chi sente che il granito è vivo. Quanti hanno provato ciò che sto dicendo? Che senso ha cantare se non c’è nessuno che ascolta?
La più illustre guida della Val Màsino, Giacomo Fiorelli, non aveva bisogno nè di cantare né di ascoltare. Lui aveva el spirit (lo spirito). Lui andava in montagna per l’altessa, forse perché era il re di queste montagne. Racconta Enzo Gibelli: “Il nostro Giacomo, quando partiva, nel sacco metteva ben altre cose: pane, formaggio, una borraccia di vino, la fiaschetta della grappa. Altro che i chiodi e il martello! E allora come se la faceva con le placche? Bisogna andare “alla naturale” dice. E per essere più naturale, si toglieva gli scarponi, i calzerotti e partiva… Il quarto grado incominciava quando Fiorelli tornava alla natura. E vinceva. Il segreto di tanti successi? ‘El spirit’, dice. Lo spirito che è fegato e volontà”.
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mi ricordo ancora quando alla capanna Allievi portavano su i viveri per il rifugio sul dorso dei cavalli.
certo che è bello, peccato si tratti del versante valchiavennasco 🙂
Da vegliardo, condivido quanto dicono Daniele detto Crodaiolo e Luca Maspes.
Il fascino di quei luoghi non lo cancella nessuno. Che poi sulla Cassin al Badile sia divenuto difficile perdersi, è vero e non dovrebbe essere così; posso però testimoniare che qualcuno, scalatore forte ma troppo ignaro della storia dell’alpinismo, è capace di trascurare le logiche fessure per perdersi su placche dure, ma spittate, costringendosi poi ad una precipitosa ritirata; come se potesse essere passato di lì il grande Riccardo che si trascinava dietro due scalatori ormai in fin di vita.
Quanto all’eccessiva accoglienza dei rifugi, almeno fino a qualche anno fa la critic poteva valere per uno dei due, non certo per l’altro… e non dico quale. Certo che ora, dopo la terribile frana di due anni fa mi pare, sarà cambiato davvero tutto.
Bravi a difendere la Valle !!! Ma non potete difendere tutto.
La mia non è nostalgia, è solo che pochi anni fa sono tornato dopo più di 40 anni sul Badile, sulla NE e ho continuato a superare tanta gente, c’erano tanti chiodi, tanti spit, doppie super attrezzate di varie lunghezze a scelta, sentieri ben tracciati, bivacchi fra i sassi con materassini e teli termici a profusione…Ma ho visto spit anche vicino a Ringo e le pareti sopra la capanna Sciora sono spittate.Son salito chiacchierando con tanta gente, veloce e in conserva proteggendomi bene con la roba che trovavo… e di anni ne erano passati tanti dalla prima volta.
I crolli però mi hanno rattristato.
Il cambiamento è stato notevole… io sono molto più vecchio, ma ora fare le cose è diventato molto più facile… bel divertimento, ma nemmeno un pizzico di avventura….. basta seguire i luccichii, come se si fosse delle allodole…
Un lunapark?
Con rifugi moooolto accoglienti !
La precisazione di Maspes è giusta.
In queste valli e montagne non ci sono ancora le infastrutture turistiche che invece , purtroppo , hanno trasformato le Dolomiti e il monte Bianco. Meno male per salire le valli e raggiungete i rifugi si fanno ancora delle belle scarpinate .
La prima volta che sono stata alla capanna Allievi ho pernottato ancora nel vecchio rifugio. Iniziavano allora i lavori per il nuovo.
La val di Mello però non è più quella che ho conosciuto. È ancora bella, ma l’aggressione turistica ha cancellato per sempre quel senso di primordiale di fiabesco che si respirava. Almeno questa e la mia sensazione.
Il mondo granitico qui descritto è lo stesso di allora con il suo fascino “primitivo”, solo qualche pezzo è franato. No funivie che ci arrivano (Monte Bianco) e no strade che salgono (Dolomiti). Silenzi, nessuno o pochissimi in giro, niente code né affollamento, rifugi da non prenotare. Forse i nostalgici si riferiscono solo alla Val di Mello, giù in basso, accessibile e presa dal turismo di massa nel weekend. Oppure siete nostalgici a prescindere 🙂
Non si tratta di essere nostalgici inariditi ma di essere realisti con occhio critico che non accetta tutto quello che avviene con rassegnazione.
Appunto perchè si è avuto la possibilità di vivere certi luoghi in un epoca in cui erano diversi.
articolo bellissimo proprio per la sua efficacia nel descrivere ciò che di peculiare – al netto dell’ulteriore e forse inevitabile ondata di antropizzazione degli ultimi vent’anni – comunque permane del magico regno rupestre descritto.
ricordo peraltro ai “nostalgici vegliardi” che quella di riconoscer la magia insita negli ambienti fiabeschi è da sempre prerogativa di occhi curiosi e cuori (ancor) non troppo inariditi.
perdinci … smollatevi un poco!
😉
Paolo ha ragione.
Si è perso quel fascino primitivo . Anche questi luoghi hanno subito la trasformazione in minestra preconfezionata da servire bella e pronta al turista consumatore.
Bello da leggere, ma il paesaggio e gli accessi sono cambiati, anche la gente. Ritornandoci più volte non ho ritrovato quasi nulla di ciò che ricordavo. Mi è sembrato di entrare in un mondo confezionato.
Che bello questo articolo… Manca solo l’odore dell’erba, di un camino, di un libro di luoghi lontani, di un piatto grasso e fumante. Manca solo un monte. Uno qualsiasi, purché svettante dalla finestra.
Per me, a Ferrara, bellissima, c’è solo lontananza. Per ora.