Il rifugio Luigi Vaccarone

Il rifugio Luigi Vaccarone
di Carlo Crovella

Un risvolto che mi coinvolge profondamente dell’andar in montagna è che si tratta di un’attività che ti segue docilmente nei meandri della vita. Ovviamente non sono le montagne che si spostano, perché sei sempre tu che le raggiunti, però l’attività in sé è capace di modificarsi in funzione dei diversi desiderata che, stagione dopo stagione, caratterizzano l’esistenza di ciascuno.

Sono ancora molto affascinato da ghiacciai, alte quote, sottili creste innevate, pareti imponenti, rocce dirupate, strapiombi e cime di quattromila metri, ma da qualche tempo ho ridotto la mia presenza in quegli ambienti, a causa del contesto “circense” che, purtroppo, ormai caratterizza tutto ciò. Sono stufo di rifugi rigurgitanti, di tre turni per cena, di affannarsi a colazione per anticipare le orde barbariche sulle vie…

Il rifugio Vaccarone in una normale giornata di piena estate: folle immense, qui, si vedono raramente.

Certo, sono perfettamente al corrente che, anche nei grandi massicci, esistono valli collaterali, dove tutto ‘sto circo risulta attenuato e forse assente: basta spostarsi dai Quattromila gettonati o dalle pareti alla moda e si trovano ancora degli itinerari pressoché deserti.

Ma a questo punto subentrano altre mie caratteristiche personali: la mia idiosincrasia per i viaggi (sono risaputamente un “bougianen”) e la mia oculatezza finanziaria, per cui non mi piace spendere e spandere per visitare luoghi lontani. L’esperienza di vita mi ha insegnato che, alla fin fine, spesso “la spesa non vale l’impresa”, come recita l’antico detto.

Le mie scelte sono inoltre condizionate dal mio risiedere a Torino, città che ha una posizione geografica molto “felice”. Torino è al centro di un ampio semicerchio alpino, che racchiude i più evidenti massicci dalle caratteristiche occidentali: Marittime, Monviso, Écrins, Gran Paradiso, Bianco, Rosa e, poco oltre, il Vallese. Per cui, mi basta “allungare una mano” e ho a disposizione quello che chiede ogni alpinista, anche il più esigente.

Torino con una parte della sua corona alpina. Fonte: Editriss.

Eppure il mio interesse per quei gruppi blasonati (interesse che è stato molto marcato in un passato anche recente) si è affievolito negli ultimi anni. Affievolito non significa sparito del tutto: certo è che non frequento più quei massicci con l’intensità di un tempo.

Per cui c’è qualcos’altro che, da un po’, mi spinge verso una montagna “diversa”. È un qualcosa di profondo e di intimo. Oggi prediligo una montagna tecnicamente modesta, quindi dai più considerata marginale e, anzi, anche un po’ da sfigati. Questa montagna risponde ai miei desiderata attuali: innanzi tutto cerco rari incontri umani, rari ma di qualità, la cui valutazione è soggettiva: per un altro individuo gli stessi incontri potrebbero risultare addirittura negativi. Inoltre ricerco altri elementi ancora: silenzio, anzi silenzi, e poi un “sapore” di natura incontaminata, animali, vento, paesaggi, panorami coinvolgenti e laghi incontaminati, il tutto senza o con pochi altri frequentatori.

All’interno del grande semicerchio alpino che circonda Torino si inserisce un secondo semicerchio, più nascosto, perché si trova fra le righe ed è meno appariscente: è quello delle vallate considerate secondarie, perché prive di cime di spicco o di pareti dall’esplicito interesse alpinistico. Si tratta di vallate appartate, ma che contengono una ridda intricata di valloni, a loro volta sempre più appartati come fossero scatole cinesi, una dentro nell’altra. Il paradosso di queste montagne minori, solitarie e silenziose, è che spesso si trovano a un tiro di schioppo dal centro cittadino. Lo sbocco delle vallate più vicine dista solo 30-40 km da Torino, se poi se ne percorrono 50-70 o poco più (ma in genere non oltre i 100), la gamma di tali valloni si amplia enormemente, quasi all’infinito.

Superfluo sottolineare che io descrivo la realtà che circonda Torino perché risiedo a Torino, ma ovviamente vallate solitarie e poco appariscenti esistono in ogni altro spaccato dall’arco alpino e non solo.

Questi valloni appartati sono una manna dal cielo per me, considerato lo spirito che mi anima nell’attuale fase della vita. Cammino in silenzio, a volte in uscite solitarie, altre volte in piccoli gruppi, cioè con i familiari oppure con qualche amico di lunga data. Chi mi accompagna è in genere allineato sulle mie stesse onde emotive, per cui non c’è da accordarsi prima, ma anche i pochi che non hanno la mia mentalità, ormai la conoscono e la rispettano, altrimenti sceglierebbero altri programmi e, soprattutto, altre compagnie.

Si cammina immergendosi nel pieno della natura e l’assenza di grandi pareti non incide minimamente, anzi assicura un’intimità ancora più profonda con la montagna. Procedendo in silenzio, la mente vaga e ci si abbandona alla meditazione. A volte senza un filo predeterminato, altre volte concentrandosi su specifici argomenti: molti miei libri e articoli oppure altri miei lavori professionali sono nati con tale modalità e in contesti del genere.

Rari incontri umani, dicevo, perché cime e sentieri, se molto frequentati, poco aiutano alla meditazione, anzi la ostacolano. Invece in queste vallate sono più frequenti gli incontri con animali, che poi sono i veri signori di questi luoghi. Tornando agli incontri umani, meglio che siano con valligiani dalla pelle bruciata dal sole oppure con alpinisti dall’impostazione classica oppure ancora con i simpatici gestori vintage dei rifugi che si trovano da queste parti.

A loro volta questi rifugi sono considerati, dalla massa oggi dominante, come “roba da vecchi” e perfino “da sfigati”. Ma proprio lì sta il loro bello e lo stile di gestione di tali rifugi, anche ai nostri giorni, non può che essere coerente con le caratteristiche generali.

Facendo mente locale, mi sono accorto che i rifugi di questa categoria, posti nel semicerchio intorno a Torino (quello delle montagne meno accreditate), sono così numerosi che si potrebbe compilare una guida, finalizzata a fornire spunti escursionistici per viandanti come me, desiderosi di ritemprare lo spirito più che soddisfare le bramosie tecniche.

Lo spunto editoriale non è male, ma ho immediatamente accantonato l’idea: il bello di questi valloni si incentra sulla loro scarsa frequentazione e, se iniziamo a divulgare troppo le informazioni, la frequentazione sarà inesorabilmente destinata ad aumentare, magari rovinando l’attrattiva di questi luoghi.

Eppure, nelle Alpi torinesi, c’è un rifugio particolare, che ora mi accingo a descrivere per bene. Un po’ perché è l’archetipo del rifugio “marginale seppur vicino alla metropoli”, quindi ideale per chi percorre le montagne con lo spirito che mi contraddistingue, un po’ perché i luoghi in cui si trova sono anch’essi il corrispondente scenario e infine perché il rifugista costituisce il tipico esempio di gestione vintage, spartana e sana, insomma quella che a me piace tanto incontrare nei rifugi.

Sono certo che, con questo articolo, corro il rischio di incuriosire qualche lettore di troppo e quindi di aumentare la frequentazione del rifugio e dei luoghi circostanti, paradossalmente andando contro ai miei interessi, ma desidero correre questo rischio pur di illustrare sia il rifugio che le vallate, un po’ perché il rifugio è l’archetipo dei miei desiderata sul tema, un po’ per il particolare stile di gestione, alla veja manera, un po’ perché descrivere questi splendidi luoghi mi permette di completare il “manifesto” della mia visione sull’andar in montagna.

Si tratta di un rifugio che conosco dalla notte dei tempi del mio vagare per i monti, ma che i miei familiari mi hanno spinto a riscoprire l’estate scorsa, dopo alcuni anni che non lo visitavo. È il rifugio Luigi Vaccarone, posto a 2743 m nel Massiccio d’Ambìn (pr.: amben, con l’accento finale), sul fianco sinistro della Valle di Susa, praticamente sopra alla cittadina di Susa. La distanza in linea d’aria dal centro di Torino è di 70-80 km: eppure si entra in un mondo fiabesco, dove non regna né il consumismo sfrenato né tanto meno l’ossessione della performance eclatante.

Il rifugio Vaccarone nel Massiccio d’Ambìn

Il rifugio è dedicato a Luigi Vaccarone, avvocato di nobile famiglia piemontese e vissuto sul finire dell’Ottocento. Si tratta di uno dei pionieri dell’alpinismo torinese (per non dire dell’alpinismo tout court): è stato fra i primi soci del Club Alpino Italiano ed è considerato il primo vero storico dell’alpinismo. Una delle sue imprese più rilevanti è la prima salita invernale, nel 1874, dell’Uja di Mondrone (con Alessandro Martelli, accompagnati dalla celebre guida Antonio Castagneri), episodio che apre la lunga stagioni delle ascensioni invernali dell’alpinismo.

Luigi Vaccarone, in tenuta da montagna (!), con i familiari. Fonte: Wikiloc.

Il rifugio Vaccarone è stato costruito nel 1900 dal CAI Torino, ma è stato chiuso nel 1997 e, dopo adeguati lavori di ristrutturazione, è stato riaperto nel 2012 sotto l’egida del CAI Chiomonte. Salvo alcuni importanti ampliamenti al piano terra, la struttura esterna è sostanzialmente quella originaria: notevoli miglioramenti, però, si vedono all’interno, pur conservando l’impostazione spartana di un tempo.

Il retro del rifugio Vaccarone durante i lavori di ristrutturazione. Fonte: Wikipedia.

Nelle vicinanze del rifugio si trova il bivacco Sibille che funziona da locale invernale ma che, a rifugio aperto, ne è la dépandance, il cui uso è regolamentato dal gestore.

Il bivacco Sibille, dépandance estiva e locale invernale del rifugio Vaccarone

Il rifugio dispone ufficialmente di 15 posti letto (però, stringendosi, si può arrivare a 18-20, più il bivacco esterno), situati al primo piano in una piacevole camerata.

La camerata al primo piano del rifugio Vaccarone
Vista dal primo piano del rifugio Vaccarone

Al piano terra si trova invece una sala da pranzo-locale diurno con, a fianco, la cucina. I locali sono molto piacevoli e invitanti: lindi, semplici, “sanno” di vera montagna.

Rifugio Vaccarone: scorcio del piano terra
Rifugio Vaccarone: scorcio del piano terra

A tale impressione contribuisce moltissimo il gestore Andrea Santoro di Giaveno (cittadina vicina ad Avigliana). Lo stile di gestione è antitetico rispetto ai grandi rifugi trafficati, quelli della montagna consumistica e iperturisticizzata.

Il rifugio Vaccarone offre una cucina semplice e casalinga, ma abbondante. Santoro ci tiene a proporre ingredienti scelti con cura e che provengono (nei limiti del possibile) da produttori locali oppure dal mercato biologico ed equosolidale.

Rifugio Vaccarone: foto datata agosto 1957 (ora appesa all’interno del piano terra)

Quando si chiacchiera insieme a lui, Santoro ci tiene a sottolineare le differenze rispetto ai rifugi della montagna iperconsumistica: “Qui non trovate il gelato con le fragole, come può capitare di sentir chiedere nei rifugi che sono ormai degli alberghi a tutti gli effetti.”

Santoro è molto sensibile al rispetto dell’ambiente e cura i minimi particolari anche in questo senso. Egli pone molta attenzione alla scelta degli imballaggi ed anche al contenimento nell’utilizzo dell’elicottero: infatti viene effettuato un solo rifornimento elitrasportato, a inizio estate, ma dopo si porta su la roba solo a spalle. Qui entrano i gioco i visitatori: Santoro “offre” la possibilità volontaria di collaborare per i rifornimenti a spalle. “Prima di salire – questo è il messaggio – chiamateci e vi diremo cosa potrebbe essere utile in quel momento.” I recapiti telefonici da contattare sono: 0122.33226 oppure 320.0647629.

Ogni piccolo gesto può fare la differenza, in termini di rispetto o quanto meno di non abuso dell’ambiente, e ci tengo a lodare pubblicamente questo bellissima iniziativa, pur nell’era dell’ipercosumismo dominante anche alle alte quote.

A centro della foto è Andrea Santoro, gestore del rifugio Vaccarone

Per la cronaca, nell’estate 2025 siamo tornati alcune volte al Vaccarone, anche solo per il piacere di arrivare fin lì, e ci è capitato di concordare per telefono quali vivande portare su. Con la lista della spesa in mano, ci siamo recati al mercato di Oulx e poi siamo saliti al rifugio. Arrivati, non c’è stato scambio di denaro: abbiamo consegnato la spesa e, forse per la particolare confidenza nel frattempo creatasi, il gestore ci ha contraccambiato offrendoci il pranzo (genuino e casalingo), oltre a regalarci una “bella” chiacchierata di montagna. Ecco un esempio di cosa intendo per incontri umani “rari, ma di qualità”. Forse questo baratto non accade con chiunque, ma mi pare un bel segnale di collaborazione montagnina e come tale desidero sottolinearlo pubblicamente.

Ogni anno Santoro si trasferisce al rifugio verso il 15-20 giugno e vi rimane ininterrottamente per due mesi e mezzo, fino ai primi di settembre: fa tutto da solo, ricorrendo ad alcuni ragazzi di supporto solo nei momenti cardini della stagione (Ferragosto ecc). Eppure è sempre disponibile, entusiasta e cordiale, chiacchiera con piacere, raccontando storie di montagna, ovviamente collegate ai luoghi circostanti e alla vita dei valligiani, prima ancora che degli alpinisti.

Rifugio Vaccarone: foto datata agosto 1959 (ora appesa all’interno del piano terra)

Il rifugio Vaccarone non ha mai goduto di inteso affollamento perché l’accesso originario ha sempre creato una notevole selezione. Ancor oggi, volendo, lo si può raggiungere dal basso, cioè dalla Val Clarea, incisione laterale che, sul fianco sinistro della Valle di Susa, sfocia poco a monte dell’abitato di Susa. Si tratta di superare un dislivello di 1450 o 1650 metri (a seconda del punto di partenza), con un piano a metà che l’antica saggezza dei montanari ha chiamato Piano del Tiraculo (il nome la dice lunga…).

Oggi sono consigliati altri due accessi: uno dal Piccolo Moncenisio, valicando a piedi detto colle e percorrendo, sul versante francese, circa 3 km in falsopiano nel Vallone di Savine fino al Col Clapier 2477 m (posto sullo spartiacque principale), per poi scendere dall’alto sul rifugio Vaccarone: relativamente poco dislivello, ma spostamento non irrilevante.

L’accesso che sta diventando sempre più gettonato è però quello dal Vallone di Galambra (sopra Exilles-Salbertrand, Valle di Susa): si lascia l’auto poco prima di un altro rifugio storico, il Levi-Molinari, e si sale a piedi per i numerosi turnichè (il sentiero sfrutta un vecchio tracciato militare), che conducono al Passo Clopaca 2800 m, da cui prima un traverso (però con numerosi saliscendi) e poi un ultimo strappetto consentono di accedere al rifugio Vaccarone.

A proposito del colle valicato in questo itinerario, ci si imbatte nel primo degli enigmi toponomastici della zona: sulle carte più recenti è indiscutibilmente scritto Clopaca (senza accento), ma molti frequentatori, abituati all’usuale accentazione francese di queste valli, lo chiamano Clopacà (con l’accento finale). A volte si rischiano degli incidenti diplomatici, magari internazionali, solo per un accento…

Il Niblè dal Passo Clopacà. Fonte: gulliver.it

Arrivando al rifugio Vaccarone da questo itinerario merita sobbarcarsi un piccolo sforzo aggiuntivo per salire al Col Clapier, nei cui pressi sorge il recente e omonimo bivacco, dalla forma esagonale.

Il bivacco Clapier

Meno impegnativo fisicamente, ma molto più coinvolgente sul piano emotivo, è salire, in pochissimi minuti dal rifugio, fino al Lago dell’Agnello, uno specchio d’acqua davvero incantevole: sembra un piccolo mare incastonato fra le vette circostanti. Seduti sulle sue rive, a occhi chiusi oppure coinvolti in un’avvincente lettura, circondati solo dal silenzio, al limite con un lieve fruscio del vento, la mente vaga libera e sconfina in ogni meandro dell’immaginazione: si è proiettati in un’altra dimensione e in momenti come questo si comprende che la vita, comunque sia, merita davvero di esser vissuta.

Il Lago dell’Agnello: un piccolo mare incastonato fra le vette circostanti

Quando la razionalità riprende il controllo dei nostri pensieri, dalla riva del lago l’attenzione non può che focalizzare le misere placche di neve cui si è ridotto il Ghiacciaio dell’Agnello. E pensare che tale ghiacciaio in epoche passate fu temibile: un altro pioniere dell’alpinismo torinese, Antonio Tonini, nel 1860 rimase vittima dei postumi mortali della caduta in un crepaccio a campana. Purtroppo gli altri componenti della comitiva non disponevano di corde adatte per tirarlo fuori, così dovettero scendere a valle per procurarsele e poi risalire, ma nel frattempo Tonini era già deceduto.

I miseri resti del Ghiacciaio dell’Agnello, un tempo scenario di incidenti anche mortali

L’ascensione più nota della zona (anche se “ascensione” è un termine un po’ ampolloso) è la traversata ad anello del Monte Niblè 3365 m. I corridori dei giorni nostri preferiscono percorrere l’anello in senso orario: salita dal Vallone Galambra al Col d’Ambìn, poi per la cresta ovest-sud ovest fin sul Niblè, in discesa, dopo un primo tratto sulla stessa cresta, si gira a destra e si taglia in orizzontale tutto il Glacier Ferrand per raggiungere il Colle Superiore dell’Agnello 3160 m, da cui si cala verso il Vaccarone. A quel punto, però, non c’è più necessità di pernottare in rifugio, perché, con un piccolo sforzo marginale, si valica il Passo Clopacà e si torna all’auto.

A me piace infinitamente di più percorrere l’anello in senso antiorario, perché esprime un maggior sapore di montagna: si raggiunge nel pomeriggio il rifugio Vaccarone attraverso il Passo Clopacà (come io lo chiamo abitualmente, con l’accento), si cena e si pernotta (scambiando due chiacchiere con il gestore) e il giorno dopo si punta per prima cosa al Colle Superiore dell’Agnello 3160 m. Attenzione a individuare il bivio a circa 2900 m, dove ci si distacca dal sentiero per il Colle Inferiore dell’Agnello 3090 m: se si giunge a quest’ultimo, poco male, anche se i tempi si allungano un po’, perché occorre scavalcare la Punta dell’Agnello 3187 m. A proposito di tale montagna, nella toponomastica storica era anche chiamata Gran Toasso (da non confondere con l’attuale omonima cima che si trova un po’ più a nord est, tanto per aumentare la nebulosità della situazione): “toasso” è un toponimo abbastanza diffuso in queste zone e significa “roccia friabile”. In effetti…

Il Glacier Ferrand costituisce il versante francese del Niblè. Fonte: gulliver.it

Torniamo all’itinerario verso il Niblé. Dal Colle Superiore dell’Agnello si traversa in leggera salita il Glagier Ferrand, fino alla già citata cresta ovest-sud ovest del Niblè e così se ne raggiunge la vetta, scendendo poi per il Col d’Ambìn nel Vallone di Galambra. I più ambiziosi possono impreziosire la giornata, salendo, dal Colle Superiore dell’Agnello (o dal ghiacciaio), la Cima Ferrand 3347 m e poi raggiungere il Niblè, magari percorrendo il filo della cresta, oggi chiamata Cresta Ferrand. Le relazioni dettagliate di tutti questi itinerari si trovano sul prezioso volume Alpi Cozie Settentrionali della collana GMI del CAI-Touring Club.

Attenzione che quello che oggi è comunemente chiamato il Glacier Ferrand, in un passato non lontano era appellato Glacier du Ferrand o anche Glacier de Ferrand, confermando che la toponomastica un queste valli è mutevole e complicata.

Per chi ha un giorno in più, suggerisco di allungare il giro ad anello per visitare meglio il versante francese del massiccio. Dopo il pernottamento al Vaccarone, si valica il Col Clapier, si percorre in discesa il Vallone di Savine fiancheggiando l’omonimo lago. Giunti sotto al Piccolo Moncenisio, che si lascia alto sulla propria destra, non è purtroppo possibile scendere direttamente, come sarebbe opportuno, verso il Vallone d’Ambìn (causa salti e terreno scosceso): occorre proseguire ulteriormente sul sentiero verso nord-nord ovest, per raggiungere il fondovalle al piano dove sorge il refuge du Suffet 1670 m. Qui si volta alla propria sinistra e si risale il (lungo) vallone fino al refuge d’Ambìn 2270 m.

Il refuge d’Ambìn (foto dal sito del rifugio)

Dopo il pernottamento in questa altra incantevole struttura (18-20 posti), il giorno successivo si punta alla testata del vallone: se ci si tiene a sinistra, si risale su traccia di sentiero in direzione del Colle Inferiore dell’Agnello, collegandosi così all’itinerario già descritto, magari tagliando direttamente verso il ghiacciaio. Se invece si procede diritti nel vallone principale, un po’ su traccia di sentiero e un po’ scarpinando, si raggiunge il bellissimo Lac d’Ambìn (in realtà il toponimo corretto è: Lac du Fond d’Ambìn, ma noi italiani lo chiamiamo Lago d’Ambìn) e da lì si approccia il soprastante Glacier Ferrand.

Il refuge d’Ambìn è un altro bel rifugio vintage, anche grazie all’impostazione seguita dalla gestrice, Florence Nicod. Per comprendere meglio lo stile spartano e rude dei rifugi vintage riporto le istruzioni comportamentali segnalate sul sito ufficiale del refuge d’Ambìn:

– Pensez à prendre un sac à viande ou drap sac. Au refuge, la literie comporte un matelas avec drap house, un oreiller avec taie et une couette avec housse. Toutefois la literie n’est pas changée quotidiennement.

– Les dortoirs sont sur 2 niveaux, merci de signaler si vous ne pouvez pas dormir en haut.

– Il n’y a pas de poubelle au refuge, vous redescendrez tous vos déchets, pensez à vous munir d’un sac réservé à cet usage.

– Les dortoirs sont collectifs, vous risquez de dormir avec des ronfleurs, pensez à vous équiper de bouchons d’oreilles.

– Les toilettes se trouvent à l’extérieur du refuge, n’oubliez pas votre lampe frontale si vous êtes un adepte du pipi la nuit.

– Iil n’y a pas de douche. Un lavabo est disponible pour une toilette de chat à l’eau froide, pensez à emporter un gant de toilette.

Per i “solo italofoni” (figuri che, però, bazzicano raramente queste vallate), il rifugio fornisce anche la traduzione italiana di tali regole:

– Ricordatevi di portare un sacco a pelo o un sacco-lenzuolo. Al rifugio, la biancheria da letto comprende un materasso con lenzuolo con angoli, un cuscino con federa e un piumone con copripiumino. Tuttavia, la biancheria da letto non viene cambiata quotidianamente.

– I dormitori sono su 2 livelli, vi preghiamo di comunicarci se non potete dormire al piano superiore.

– Al rifugio non c’è un bidone per la spazzatura, dovrete riportare tutti i vostri rifiuti a valle, ricordatevi di portare un sacchetto riservato a questo scopo.

– I dormitori sono condivisi, rischierete di dormire con chi russa, ricordatevi di portare i tappi per le orecchie.

– I servizi igienici si trovano all’esterno del rifugio, non dimenticate la lampada frontale se dovete abitualmente dare pipì di notte.

– Non c’è la doccia. È disponibile un lavandino per una “toilette da gatti” (ci si lava a pezzi, NdR), solo con acqua fredda; ricordatevi di portare un asciugamano.

Il Lago d’Ambìn visto dalla cresta del Niblè. Fonte: gulliver.it

Forse non è casuale che in queste montagne appartate, poco considerate e un po’ neglette, ci si imbatta in rifugi che hanno proprio tali caratteristiche, coerenti con il contesto generale. Probabilmente questa tipologia di montagne, non sugli scudi nella visione che attualmente detta le regole, esiste in ogni massiccio, ma io qui mi limito a segnalare un esempio tratto dalle mia esperienza personale.

Curioso, inoltre, che in questi valloni la toponomastica sia un po’ nebulosa e contraddittoria, come abbiamo già visto da qualche accenno: anche questo risvolto collima con il contesto generale, che stende su queste vette un velo un po’ misterioso.

Il principale degli enigmi toponomastici si incentra sulle due vette Niblè e Ferrand. Si tratta di due vette gemelle, ma stranamente, fin dalla notte dei tempi, gli italiani e i francesi le chiamano in modo diametralmente opposto, anche sulle carte. Cioè la vetta che per noi è il Niblè, per i francesi è la Ferrand e viceversa. Il mistero è reso ulteriormente incomprensibile per il fatto che l’intero massiccio Niblé-Ferrand, visto dal fondovalle italiano, storicamente è stato chiamato dai valligiani “Ferrant”, in quanto si trova molto ferro sui loro fianchi: la cima che sovrasta direttamente la Val Clarea dovrebbe correttamente chiamarsi Ferrand. Viceversa il toponimo Niblè è tipico del Vallone di Galambra, mentre in quel vallone il nome Ferrand/Ferrant non ha tradizione storica: per cui risulta più fondata l’interpretazione italiana rispetto a quella francese.

Tuttavia può capitare di incontrare comitive di francesi che salgono dal versante transalpino ed è facile cadere in equivoci sui toponimi delle vette. Una piccola babele in mezzo alle Alpi.

La vetta del Niblè e il Glacier Ferrand a inizio estate. Fonte: gulliver.it

L’ascensione delle vette segnalate, come le altre della zona, non comporta in genere significative difficoltà: tuttavia occorre tener presente che ci si muove anche oltre i 3000 metri, con tutto ciò che questo comporta in termini di prudenza e prevenzione. Se si attraversa il ghiacciaio (o se si affrontano le creste ad inizio stagione), è meglio avere con sé i ramponi, perché “an muntagna, a sa mai”. La piccozza forse è eccessiva, ma, se nella comitiva ci sono neofiti o persone non avvezze ai terreni alpini, da queste parti una piccozza così come uno spezzone di corda non guastano mai. Superfluo ricordare che, oltre ad avere con sé i vari attrezzi, bisogna saperli usare a puntino…

La montagna è severa” recita una della massime storiche dell’alpinismo (specie in ambito torinese) ed essa vale a maggior ragione per questi terreni, non impegnativi in assoluto, ma che possono riservare improvvise e sgradite sorprese, specie agli sprovveduti e ai tracotanti: le creste del Niblè, che in condizioni normali si percorrono quasi ad occhi chiusi, possono diventare molto infide in mezzo alla bufera oppure al mattino presto dopo una gelata notturna che le ha ricoperte con una patina di verglass…

Il Niblè e il Glacier Ferrand verso fine estate. Fonte: gulliver.it

In queste righe descrivo le montagne che sovrastano il rifugio Vaccarone in un’ottica di escursionismo/alpinismo facile di stampo estivo, ma la zona è perfettamente frequentabile anche con gli sci in veste innevata: naturalmente occorre aggiungere tutta la prudenza richiesta dal sapersi muovere in tali contesti, tenendo presente che normalmente le condizioni migliori si trovano in primavera, cioè con manto nevoso ben stabilizzato. Non va dimenticato, infine, che in stagione sciistica i rifugi in genere non sono gestiti e quindi l’isolamento è pressoché totale.

Tornando alla frequentazione estiva di queste montagne, c’è un terzo risvolto che mi colpisce: il vero signore dei questi luoghi è diventato lo stambecco. Frequento queste vallate da quando erano ragazzo, anche se non con assiduità sistematica, ma non ricordo, nella versione di 4 o 5 decenni fa, una tale abbondanza di stambecchi. Qualche camoscio lo si vedeva anche allora, spesso fuggiva sulle lontane creste, con la sua tipica andatura agile e scattante. Ma stambecchi non me li ricordo, specie in così gran numero.

Il vero signore della valle: lo stambecco

Oggi, invece, è facile imbattersi in folti gruppi di stambecchi che si “piazzano” nei prati a fianco dei sentieri: non hanno particolare timore degli umani, che evidentemente considerano innocui (e forse anche un po’ tonti), ma certo non si lasciano avvicinare, al limite si spostano di altri venti-trenta metri e continuano placidamente a… fare gli affari loro. Gli stambecchi sono come dei pachidermi: in genere brucano placidi, senza particolare preoccupazioni, solo i maschi giovani temprano le loro corna prendendosi reciprocamente a testate, forse perché immaginano, beati loro!, che l’esistenza sarà sempre e solo un gioco infinito.

La presenza di tanti stambecchi, almeno comparandola con i miei ricordi più lontani, è una piacevole novità e mi ha particolarmente incuriosito, spingendomi a rifletterci sopra. Senza il sostegno di alcun dato scientifico, mi sono costruito un film che però mi affascina moltissimo: ho immaginato che alcuni stambecchi del Gran Paradiso, stufi del sovraffollamento antropico in quelle vallate, siano dapprima sconfinati nel limitrofo Parc de la Vanoise, percorrrendolo poi in direzione ovest. A un certo punto sono scesi nel fondovalle e, magari nelle mezze stagioni senza tanta gente in giro, hanno attraversato la statale, risalendo l’altro versante verso lo spartiacque di confine e si siano infine stanziati da queste parti, attirati dalla tranquillità dei luoghi.

Mi affascina questo film, perché c’è un comun denominatore fra me e loro, quello di ricercare vallate silenziose in quanto appartate e poco appariscenti. Sia chiaro, adoro il massiccio del Gran Paradiso (cui sono profondamente legato anche per antichi motivi personali) e ammiro da sempre l’attività dell’omonimo Parco, ma alcune località di quelle vallate sono diventate decisamente affollate, specie nel pieno della stagione turistica.

Sulle falde del Niblè-Ferrand si ritrovano invece, sia fra gli umani che fra gli ungulati, quei soggetti in cerca di silenzio e di isolamento. Se mi sdraino sull’erba a una cinquantina di metri dal branco di stambecchi, loro non si preoccupano minimamente di me e continuano placidamente a fare gli affari loro. Posso stare lì ore e nessuno di loro fa una piega.

Io leggo oppure lascio vagare la mente e loro brucano tranquilli: nessuno scoccia l’altro e tutti sono sereni e felici. In fondo l’esistenza richiede pochi e semplici ingredienti.

Nonostante la sua versione attuale un po’ negletta, il massiccio d’Ambìn ha un nobile passato in termini alpinistici: la prima ascensione riconosciuta del Niblè è ascritta al celebre William Auguste Coolidge con Christian Almer padre e Pierre Michel nel 1873, saliti per la cresta ovest-sud ovest, ma pare che in punta abbiano trovato un ometto, segno di precedenti salite. La prima italiana di tale vetta si deve invece a Martino Baretti (un piccolo Coolidge nostrano) con Augusto e Francesco Sibille nel 1875.

Ancora: il primo percorso della cresta nord est del Niblè, oggi chiamata Cresta Ferrand, è stato appannaggio di Umberto Balestrieri, Francesco Pergameni e Saverio Ranzi nel 1915. Umberto Balestrieri è personaggio di rilievo dell’alpinismo torinese poiché, a cavallo fra anni Venti e Trenta del Novecento, oltre che impegnato in numerose ascensioni individuali, è stato il “papà alpinistico” della nidiata di giovani leoni che sarebbero poi diventati i famosi Accademici degli anni Trenta: Boccalatte, De Rege, Chabod e compagnia bella, fra cui Giusto Gervasutti, appena giunto a Torino dal Friuli e accolto a braccia aperte in casa Balestreri.

Insomma, fra rifugi vintage, cucina casalinga e sobria, chiacchierate montagnine, stambecchi placidi e tranquilli, prestigiosi riferimenti storici, il Massiccio d’Ambìn è un classico esempio di buen ritiro per chi ama una montagna che oggi definiamo d’altri tempi, cioè una montagna tranquilla, isolata e dal “sapore” pastoso e profondo. La montagna che più si adatta a ciò che ricerco nella fase esistenziale che sto attraversando.

È una montagna lontana dai riflettori della mondanità alpinistica, non offre grandi pareti, non è il palcoscenico di eclatanti performance, ma è invece una montagna “scomoda”, questo sì: “scomoda” per il fisico, ma soprattutto “scomoda” rispetto alle abitudini dei giorni nostri e tutto ciò tiene lontane le grandi folle consumistiche, caciarone e cafone.

Proprio per queste caratteristiche è una montagna che merita di essere profondamente amata e, infatti, io la amo profondamente.

Il rifugio Luigi Vaccarone ultima modifica: 2025-11-06T05:36:00+01:00 da GognaBlog

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7 pensieri su “Il rifugio Luigi Vaccarone”

  1. La virada de la Val Clarea: Un Viage dins li Mounte
    Ah, la virada de la Val Clarea, es un viage dins li mounte que te fa sudà e te fa sentì viéu! Se part de la rota provinciala 255, que mena au parcatge de Case Pietra Porchera, e de là, se pren lou camin 805, la vielha mulatièra militara que porta au Col Clapier, qu’es lou Pas d’Anibal pèr li abitant de la val. E pui, se continua sus lou camin 806a variante alpinistica, que te mena au Rifugio Vaccarone, ounte se pouòu demandà ‘na Coca-Cola, ma te dison: “No, no, no… nous autri, nous avèn lou chinotto!” E te beùs lou chinotto, e te sentes coume un rèi de la mounte! La discenda es lou mème, se pren li camin 832 e 806, que passan pèr lou Valon dou Tiracul e lou vilatge omonima, que es plan pitoiresca. E pui, se regoùrna au fon de la Val Clarea, e se finis la virada, aprèp 22 km e 1750 m de desnivel.
    Ah, es un viage que te fa sentì viéu, e te fa voulé retorn!

  2. Un bell’articolo, una scrittura piana e pulita, piena di notizie pratiche, utile, credo, per molti lettori del Gognablog. Molti, ma non troppi: chi si aspetta le fragole con gelato è sommessamente indirizzato da altre parti. Sulle montagne di Bardonecchia ho fatto le prime salite sui monti: queste pagine mi hanno riportato indietro negli anni.

  3. Complimenti! Bel racconto. Mi hai risvegliato un ricordo di gioventù: 1982, una tappa di Sci alpinismo senza frontiere. Traversata in sci dal levi Molinari, scavalcamento del passo di Clopacà per arrivare al Moncenisio. Eravamo la pattuglia SUCAI: Ezio, Vigiu, Ernesto, Pierre, con tre Chasseurs des Alpes e un maestro di Briancon. Bellissima esperienza.
     

  4. E….mannaggia ma ora che lo sanno “tutti” mi troverò un mucchio di gente in giro per quei posti . Nel  periodo  fine estate, inizio ottobre, solamente stambecchi e camosci, una pace per l’anima

  5. Complimenti per il pezzo: interessante e condivisibile per tutto quello che propone e per le riflessioni esistenziali.
    C’e bisogno di rifugi (e ambienti circostanti) come quelli descritti e di articoli simili a questo.

  6. Bravo, Carlone!
    Il tuo brano è pieno d’amore per quei luoghi e di atmosfera dei vecchi tempi. È uno dei piú belli e romantici mai apparsi nel GognaBlog.

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