La cura come segno di civiltà

Non c’è più un villaggio che si riunisce intorno al malato ma una società che lascia l’individuo solo, con il suo senso di smarrimento, la sua paura inconscia legata all’abbandono e alla perdita dei riferimenti quotidiani.

La cura come segno di civiltà
di Giuseppe Melillo
(pubblicato su huffingtonpost.it il 26 marzo 2020)

Uno studente chiese all’antropologa Margaret Mead quale riteneva fosse il primo segno di civiltà in una cultura. Lo studente si aspettava che Mead parlasse di ami, pentole di terracotta o macine di pietra. Ma non fu così.
Mead disse che il primo segno di civiltà in una cultura antica era un femore rotto e poi guarito. Spiegò che nel regno animale, se ti rompi una gamba, muori. Non puoi scappare dal pericolo, andare al fiume a bere qualcosa o cercare cibo. Sei carne per bestie predatrici che si aggirano intorno a te. Nessun animale sopravvive a una gamba rotta abbastanza a lungo perché l’osso guarisca.
Un femore rotto che è guarito è la prova che qualcuno si è preso il tempo di stare con colui che è caduto, ne ha bendato la ferita, lo ha portato in un luogo sicuro e lo ha aiutato a riprendersi.
Mead disse che aiutare qualcun altro nelle difficoltà è il punto preciso in cui la civiltà inizia. Noi siamo al nostro meglio quando serviamo gli altri. Essere civili è questo
”.

Foto: Dana Neely/Getty Images

Questa storia attribuita a Margaret Mead la si ritrova da anni su vari blog o forum che oscilla tra fatto avvenuto e leggenda universitaria ma individua il punto esatto del senso di comunità e cura dell’altro.

Comunità e cura descritta tra gli anni 1950 e 1960 da Victor Turner. L’antropologo scozzese fa il resoconto di un rito curativo a cui aveva assistito, praticato dagli Ndembu, famiglia della popolazione Buntu dello Zambia, chiamato Ihamba.

Al rito curativo dello Ihamba partecipava tutto il villaggio in una forma che oggi definiremmo terapia di gruppo, durante il quale i familiari del malato dovevano dichiarare il proprio rancore, i propri pensieri e sentimenti di acrimonia verso il malato. La dichiarazione pubblica delle negatività corrispondeva all’annullamento della malattia stessa.

La sofferenza era individuale ma l’origine del male e la successiva cura dipendevano dai comportamenti sociali, determinati da atteggiamenti e pensieri degli altri membri del villaggio o della famiglia. Un disordine sociale che si manifestava come malattia del singolo e a cui il singolo non poteva reagire senza il supporto della comunità.

Ogni cultura ha messo in campo i propri strumenti di cura attraverso guaritori, sciamani, sacerdoti, masciàre e ognuno con le conoscenze e i paradigmi del proprio tempo. Le credenze e le conoscenze cui ci si aggrappava sono state soppiantate dal paradigma biomedico dei dati e dalla scienza e i luoghi di cura sono oggi l’ospedale e i presidi medico sanitari di solito costruiti alle periferie dei nuclei urbani.

La cura, così come l’origine di alcuni mali, fisici o psichici (oggi indicheremmo l’inquinamento o la solitudine), di ogni singolo individuo è determinata dall’altro e dalla comunità e nessuna cura può determinarsi in maniera autonoma.

Il paradigma odierno riconosce nel malato un portatore di disordine sociale e il malato diviene immediatamente “soggetto altro”, allontanato dalla comunità a cui apparteneva fino a qualche momento prima. Viene isolato dalla comunità, medicalizzato e raramente curato in famiglia.

Non c’è più un villaggio che si riunisce intorno al malato ma una società che lascia l’individuo solo, con il suo senso di smarrimento, la sua paura inconscia legata all’abbandono e alla perdita dei riferimenti quotidiani.

Una società che cura la malattia con attenzione prettamente chimica e farmacologica.

Se il primo segno di civiltà in una cultura è stato, come forse indicava Margaret Mead, aiutare qualcun altro nelle difficoltà, allora la salvaguardia di questa civiltà è nella cura della comunità e nella pratica quotidiana della cura dell’individuo in ogni suo aspetto, nella ricostruzione di legami emotivi e relazionali, che si viva in un villaggio o in una città. 

E in questo momento storico diventa necessario avere una visione con dimensione universale e di futuro, una visione che non si riduca a pensieri alla stregua di carità e assistenza. Una solidarietà e condivisione che superi la sfera dell’individuo, o di gruppi di individui, e che si evolva come pilastro anche giuridico non negoziabile. 

Questa pratica di salvaguardia ci aiuterà a individuare una diversa prospettiva del significato di civiltà dove la cura assume la funzione di dono e reciprocità. Dove la cura di sé, dell’ambiente, degli altri diventa una produzione necessaria che nessuna pandemia può sospendere.

Giuseppe Melillo è antropologo ed esperto di sviluppo locale.

2
La cura come segno di civiltà ultima modifica: 2020-07-12T04:40:00+02:00 da Totem&Tabù

Scopri di più da GognaBlog

Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.

11 pensieri su “La cura come segno di civiltà”

  1. Grazia, sono d’accordo con ciò che dici. Ho 58 anni e quindi ho vissuto anch’io un approccio diverso.
    Se ci fai caso ho scritto “anche” e comunque stavo facendo un sottinteso paragone fra il villaggio degli Ndembu e una città odierna.
    In ogni caso le cose andrebbero approfondite nei dettagli e non prese solo per estrapolare quello che ci fa comodo (non mi riferisco al tuo commento). Gli ospedali sono simili ad una officina meccanica perché viene riparato il corpo e non lo spirito ma a me va benissimo andare in “officina” per mezza giornata a farmi riparare un’ernia inguinale o un menisco, non sento il bisogno di una partecipazione collettiva al mio problema. Mi va meno bene se devo intraprendere un percorso che mi allontani da miei affetti e dalle mie cose per un periodo di tempo prolungato e dall’esito incerto.
    Al tempo stesso ci sono associazioni, come per es. l’ANT, che seguono i malati terminali di tumore a casa. La mamma di un mio caro amico è morta nel suo letto circondata da una decina di persone, come poteva accadere in passato nelle famiglie contadine.
    Se poi vogliamo fare un tuffo nel passato non è che tutte le società antiche fossero così virtuose. In alcune gli anziani godevano di rispetto fin quando erano autosufficienti ma poi andavano a morire da soli, alla faccia dell’affetto dei propri cari.
    Non è mai tutto bianco o tutto nero.

  2. Antonio,
    non credo che i problemi risiedano nel numero degli individui, quanto nella frammentazione della società, che vede famiglie spezzettate e assenza di comunità.
     
    Una volta si viveva il quartiere, i bimbi giocavano per strada ed erano guardati da tutti, si faceva la spesa nelle botteghe intorno a casa ed era forte l’entità di comunità.
    Ora i giovani tendono a creare distanza dagli antenati, con il risultato d’essere isolati e più esposti alle difficoltà.
     
    Qualche giorno fa è mancata una vecchietta che amavo molto.
    Seriamente ammalata e abbandonata dalla sua famiglia, era in balia di medici e infermieri che si avvicendavano nella sua casa. È finita in una casa di riposo, confinata in una cameretta, senza possibilità di chiamare il personale e certamente sedata. In capo a una settimana è stata ricoverata in ospedale dove è partita il giorno successivo, sicuramente e tristemente da sola.
    Gli ultimi baci, le ultime carezze, gli ultimi abbracci glieli avevo dati io due giorni prima.

  3. Se un figlio lo raggiri affinché realizzi le tue intenzioni, quando ne prendi coscienza inorridisci.
    Chi vuole seguitare a credere che quello che ha imparato corrisponda al vero e al giusto e debba essere perpetuato con magari qualche aggiustatina qua e là, può farlo.
    Chi vuole dedicarsi a singoli problemi, spesso megafonati per farne diversivi, può farlo.
    Chi vuole credere che il proprio voto abbia il peso che immagina, può continuare a crederlo.
    Chi non vede la scimmia sulla schiena dell’orrifica condizione alla quale si è assuefatto, seguiti pure a dare le proprie energie per nutrire il sistema.
     

  4. I modi, oltre a quelli storici, sono relativi alla creatività individuale.
    Il tumore è sistemico. Le istituzioni, le strutture, i media, l’economia perno della vita, il debito, la disoccupazione, la forbice, l’individualismo, la pusillinamità, la paura, la diffidenza, l’ambiente, la scuola, la formazione di soldatini, lo scientismo, i suicidi, gli alienati, gli psicopatici, le case farmaceutiche, il profitto, la politica venduta, la sovranità azzerata, la censura, i tg, la pubblicità offensiva, il giornalismo, il lassismo, gli allineati, la falsa democrazia. l’immigrazione, le spese militari, la subordinazione Nato, il suffragio mortificale.
    Sono gli ingredienti di una bomba dal detonatore volatile e incontrollabile.
    Forse le piccole scintille del web accenderenno la miccia.
    Sentire dire che i canali tv che comandano siano sempre meno seguiti è la miglio notizia da sempre.
    Spero sia vero.

  5. bello l’articolo e interessanti le riflessioni di Merlo, a cui però vorrei porre una domanda. 
    non è solo la malattia che riduce a numero e a organismo scassato da curare in apposite strutture,  ma qualunque scarto che levi dalla dirittura prefissata 
    si torna indietro a tuo modo di vedere? c’è un modo per invertire al rotta e contrapporsi al sistema?

  6. Certo, ma il capitalismo e accoliti hanno eletto la dimensione competitiva, e il consumismo, necessario al sistema, è un sintomo dell’alienazione profonda e sistemica.
    Le cose stanno in rete.
    Quelle predilette al momento servono un menu esiziale.
    E condivido che i grandi numeri hanno la loro mente, differente da quelli emergente dai piccoli.

  7. Comunque non lo vedo come un problema legato esclusivamente al capitalismo, consumismo, insomma le solite cose. Credo sia un problema legato anche all’organizzazione di una società complessa costituita da un numero molto elevato di individui.
    Se poi vogliamo limitarci alla sola situazione degli anziani direi che lo scontro intergenerazionale degli anni sessanta/settanta gli ha dato una bella botta, di certo non ha aiutato.

  8. “[… ]La sola voce concorde, universale, in alto e in basso, grida che nessuna industria si fermi o chiuda, qualsiasi cosa produca, sia pure inutilissima o micidialissima, sia pure destinata a restare invenduta: la sola voce concorde invoca che si aprano cantieri su cantieri e che si investano finanze in nuovi progetti industriali: a costo di qualsiasi inquinamento e imbruttimento, a costo anche di fare accorrere, per l’immediata ritorsione morale che colpisce chi accolga progetti simili, le furie di una intensificata violenza. E se deve, sul mare delle voci tutte uguali, planare una promessa rassicurante, è sempre la stessa: ci sarà la “ripresa”, ne avrete il triplo di questa roba”  (Guido Ceronetti, La Stampa, 9 marzo 1993)

  9. prima di parlare della cura ed assistenza ai malati quale segno di civiltà,occorre prima interrogarsi su quale civiltà vogliamo.La nostra attuale società relega gli anziani ad una fattispecie prossima all’estinzione: basta superare i 70 anni per rischiare facilmente di finire in strutture-lager-case di riposo,anticamere della morte finale. Nella società consumistica e meritocratica l’anziano è estromesso: non gli viene più riconosciuto alcun ruolo se non quello,stereotipato,di accudire per qualche ora i nipoti poi,ai primi segni di demenza senile o decadenza fisica, via alla casa di riposo.Queste assomigliano ai gulag sovietici,con la differenza che si fanno pagare tantissimo per un’assistenza a dir poco scandalosa: operatrici sanitarie sclerate che fanno il minimo indispensabile; basta entrare in una qualsiasi struttura per vedere anziani,spesso in sedia a rotelle,parcheggiati per ore a guardare il soffitto o trascinati davanti alla tv a guardare programmi insulsi e parenti che si fanno vedere il meno possibile e magari con visite lampo di dieci minuti. Spesso poi  queste strutture non hanno nemmeno un medico fisso di guardia e se l’anziano ha problemi si chiama direttamente l 118.Il covid-19 ha messo in luce quest’andazzo schizofrenico: da un lato si affermava di voler salvaguardare “i nonni” ma dall’altra gli over 80 ospiti delle case di riposo-lager sono stati decimati dall’incuria e dall’insensatezza di coloro che li hanno esposti in modo indecente al virus.Allora che civiltà è la nostra?

  10. E c’è certo qualcuno che è disposto ad affermare che viviamo la miglior società possibile, che non sta dando tutto se stesso per abbattere lo status quo.
    Sono dappertutto e soprattutto popolano l’intelligencija non solo nostrana.
    Sono quelli del progresso perché abbiamo le macchine della terapia intensiva e la pillola per l’aborto.
    Sono quelli dell’economia sostenibile, dell’impatto zero.
    Sono la maggioranza,  e comandano.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.