Accesso alle falesie – parte 2 (2-2)
A poco più di una settimana dall’articolo pubblicato, ecco che Lecconotizie.com ritorna sull’argomento il 29 maggio 2015, questa volta riportando una lunga intervista al presidente della Comunità Montana, Carlo Greppi.
Rimandiamo a questo link per l’intervista integrale, che cerco qui di riassumere nei punti principali.
Carlo Greppi
Dopo una premessa, in cui è detto che il finanziamento di 60.000 euro (a carico della Regione Lombardia per la metà) è la conseguenza amministrativa della conferenza “L’arrampicata sportiva, una opportunità per il territorio” svoltasi a Lecco nel dicembre 2013, Greppi ribadisce l’importanza storica del Nibbio nel panorama dell’arrampicata e quindi della più importante risorsa outdoor del territorio lecchese. Poi precisa il riparto spesa: 25.000 euro per richiodatura, 17.000 per sistemazione base e sentiero di accesso, 18.000 per “verifiche geologiche, legali, polizza assicurativa, spese tecniche e somme a disposizione per eventuale acquisizione”.
Greppi prosegue: “La Comunità Montana quindi ha proposto la stipula di una convenzione che avrebbe impegnato la proprietà a consentire agli scalatori di accedere liberamente alla falesia. Per contro, la Comunità Montana avrebbe assunto la custodia del sito assumendosi le spese e le responsabilità ad essa connesse, dandone manleva alla proprietà mediante convenzione, effettuando i lavori di manutenzione straordinaria (vedi il progetto di sistemazione) e ordinaria (i monitoraggi degli ancoraggi e della roccia negli anni successivi) impegnandosi inoltre ad accendere una polizza assicurativa a tutela delle responsabilità del gestore del sito”.
Per ciò che concerne la disputa sul valore di acquisto, Greppi dice che la CM avrebbe potuto arrivare a 10.000 euro. Poi aggiunge la frase fatidica “Questa Comunità Montana ritiene che una falesia non può assumere un valore di mercato in quanto tale, cioè per il fatto che la gente ci arrampica o, a maggior ragione, perché ospita itinerari storici. Riteniamo fondamentale che l’arrampicata sulle falesie naturali possa essere attività svolta liberamente, con la consapevolezza della responsabilità personale di chi la pratica. La ricerca della migliore gestione dei siti dal punto di vista delle protezioni e della funzionalità della falesia può essere in quanto tale ruolo assunto dall’ente pubblico a beneficio di un pubblico interesse”.
Nelle considerazioni finali Greppi sostiene che la vicenda è stata un’amara sconfitta, ma che a dispetto di ciò il progetto continua e si rivolgerà ad altri siti peraltro già identificati.
Fin qui la vicenda di cronaca. La maggior parte però degli arrampicatori è ovviamente interessata più al problema globale. L’occasione si presta per una disamina complessiva sulla proprietà, sull’attrezzatura e sull’utilizzo di falesie e pareti.
Proponiamo qui un esauriente intervento, quello dell’avvocato Riccardo Innocenti, che nella presentazione al suo scritto dice di condividere pienamente le osservazioni formulate da Paola Romanucci e pensa che i cartelli posti alla base della parete servano solo a forzare la trattativa commerciale e spuntare un prezzo più alto a favore della parte venditrice.
In arrampicata sulla via Cassin al Nibbio. Foto: Michele Comi
Proprietà e attrezzatura di una falesia
di Riccardo Innocenti
Proprietà di una falesia
In Italia il proprietario (Art. 832 CC) ha il pieno potere di utilizzo del bene, in questo caso di una porzione di terreno essendo le rocce intrinseca parte del terreno. Il proprietario può quindi vietare l’accesso a estranei anche recintando la zona. Solo il fatto che non ritiene gradita qualsiasi attività in quella zona lo autorizza a impedire l’accesso ad altri.
A Sasso di Furbara, nei pressi di Cerveteri (RM), il marchese Giulio Patrizi, latifondista romano, ha una tenuta in cui insiste una falesia alta 70 metri. Ne ha consentito la frequentazione per svariati anni, ma quando degli ambientalisti gli hanno fatto notare che la zona ricadeva in una zona ZPL (vedi oltre), e la pratica dell’arrampicata era vietata in quella zona per la protezione dell’avifauna, ha recintato la struttura con reti alte oltre 2 metri e ne ha vietato la frequentazione tout court. Qualsiasi tentativo di forzare o tagliare la rete è stato oggetto di intervento immediato e i guardiacaccia a presidio della tenuta (dipendenti del marchese) vigilano attentamente che nessuno acceda nella proprietà privata.
A Ciampino (RM) il principe Alessandro Boncompagni Ludovisi è proprietario della tenuta di Fioranello ove insiste la Cava di Ciampino che è la falesia più vicina a Roma. Utilizzata dagli anni ’70 la falesia è sotto il livello della campagna: praticamente in una buca. A Capodanno del 2000 qualcuno particolarmente interessato al festeggiamento ha fatto precipitare una Fiat Panda dal ciglio della falesia. Ciglio che non era recintato e sul quale non c’era alcun cartello che ne indicava la presenza.
La Polizia Locale che intervenne per il recupero della vettura obbligò il principe, con una Determinazione dirigenziale del Comune di Roma, ad installare una recinzione “invalicabile e bene segnalata” lungo tutto il perimetro della falesia per evitare che incautamente qualcuno ci cadesse dentro. La recinzione installata è lunga 1,8 km e sulla stessa sono affissi numerosi cartelli che avvisano che quella all’interno è una proprietà privata e che è presente un precipizio. Interpellai personalmente il principe sulla possibilità di continuare ad arrampicare nella falesia e che nessuno aveva intenzione di buttare altre automobili dal ciglio. Il principe in maniera”regale” mi disse: “La proprietà è mia. Con la recinzione ne ho vietato l’accesso. Se qualcuno scavalca lo fa a suo rischio e pericolo e non voglio sapere nulla di quanto succede all’interno”.
La parete est-nord-est del Corno del Nibbio Settentrionale. Foto: Michele Comi
Nella recinzione metallica sono stati praticati un paio di fori e la falesia è stata sempre frequentata in questi 15 anni. Nessun dipendente del principe è mai intervenuto per bloccare qualsiasi attività.
Due esponenti della nobiltà romana e due modi di vedere diversi.
Il proprietario privato è legittimato a impedire una attività non gradita nella sua proprietà. Per dare maggiore spessore a questa intenzione può mettere dei cartelli che avvisino del titolo di proprietà, può recintare l’area, può sorvegliarla in maniera passiva – (telecamere) dandone avviso per il rispetto del TU sulla Privacy – e in maniera attiva con personale dedicato.
In maniera analoga il proprietario pubblico (demanio civile, demanio militare, enti locali e parchi, ecc.) può impedire l’accesso e quindi qualsiasi attività esercitando le medesime prerogative del proprietario privato.
Chi entra in una proprietà, privata o pubblica, può essere chiamato a rispondere civilmente dal proprietario se questi reputa che abbia subito dei danni o essere citato in giudizio per il reato di “usurpazione” di cui all’art. 631 c.p. commesso da chi, per appropriarsi di una cosa immobile altrui, ne rimuove o altera i termini (penso ai chiodi, alle soste, ai sentieri per arrivare alla parete, ecc.) o per il reato di “invasione di terreni o edifici”, art. 633 c.p., che è previsto per chi invade arbitrariamente (quindi abusivamente) terreni o edifici altrui al fine di occuparli anche temporaneamente.
Se esiste un proprietario dell’area questo deve dare il suo assenso alla pratica delle attività da parte di estranei. Un assenso tacito non equivale a darlo.
Un proprietario può comunque essere chiamato a rendere conto di danni (responsabilità civile) che si siano verificati a estranei all’interno di aree di sua proprietà. Da questa eventualità si capisce il diniego da parte di proprietari per attività di cui non capiscono o condividono l’utilità e il valore e che potrebbero essere solo fonte di possibili guai giudiziari con possibile esborso economico a loro danno.
Non è facile arrivare a una sentenza di condanna per responsabilità civile di un proprietario per delle attività che non aveva espressamente permesso nella sua proprietà. Non è facile: ma non è impossibile. Questa possibilità “irrigidisce” i proprietari che, spesso, nel dubbio vietano tutto.
La possibilità di avere guai giudiziari non irrigidisce solo i proprietari ma anche gli Enti pubblici che hanno altre prerogative tra cui la tutela della salute pubblica.
Nell’aprile 2010 un masso cade da una falesia dell’Isola di Ventotene. Sulla spiaggia sottostante stavano in gita una classe di liceali provenienti da Roma. Due adolescenti rimasero uccise dal masso. Il Sindaco di Ventotene, “proprietario” dell’area in quanto bene pubblico demaniale, è chiamato in giudizio per non aver rilevato il pericolo, averlo segnalato e non aver preso le opportune precauzioni. Nel maggio 2014 viene condannato penalmente. Dal luglio 2010, a seguito delle prescrizioni del PAI (Piano di Assetto Idrogeologico), alcune spiagge di Ponza e di Ventotene, quelle situate sotto una parete, sono interdette, recintate e con cartelli che chiaramente illustrano in tutte le lingue il divieto.
Le relative ordinanze di divieto di accesso vengono trascritte con una cartina evidente in decine di cartelli stradali che contengono l’abstract del divieto. Sempre a seguito delle prescrizioni del PAI, nel divieto ricade tutta la Montagna spaccata e tutte le falesie che gli arrampicatori chiamano impropriamente di Sperlonga e che sono situate nella piana di Sant’Agostino che è invece in comune di Gaeta. La piana è divisa dal confine comunale tra Gaeta e Itri. Curiosamente, nella falesie di destra (Gaeta) è vietato tutto mentre in quelle di sinistra (Itri) è vietato solo l’assembramento???? e il campeggio. Quindi probabilmente nelle falesie del territorio di Itri si può continuare ad arrampicare. Il comune di Gaeta si è premurato di porre un cartello stradale di divieto di sosta e permanenza anche alla fine delle doppie con cui si scende alla Montagna spaccata. Alla fine, oltre a quello che sta sul ciglio! Quindi un arrampicatore fa 100 metri di doppie e trova al livello del mare un cartello che gli vieta di stare lì. L’unica soluzione legale possibile è quella di buttarsi a nuoto e uscire dall’area vietata? No! Perché anche nella zona di mare prospiciente la falesia è vietato stare e fare ogni attività (nuoto incluso) per un raggio di 300 metri. Anche la Capitaneria di porto di Gaeta ha emanato un’ordinanza simile a quella del Sindaco.
Se l’accesso e la pratica delle attività sportiva nella zona – pubblica o privata – non è vietato legittimamente cosa si può fare per attrezzare e utilizzare una falesia?
Il Nibbio da nord
Attrezzatura di una falesia
In Italia non esiste una normativa che dispone in merito alle attrezzature di falesie naturali per uso sportivo. Si possono applicare, per analogia, tutta una serie di norme che di fatto cadono nell’area dell’edilizia e dell’ingegneria civile.
Se si volessero elencare (o ipotizzare…) le procedure da fare per l’attrezzatura di una falesia si inizierebbe per:
– ottenere l’autorizzazione all’uso dal proprietario del fondo ove la falesia insiste (o in subordine acquistare la falesia);
– assicurarsi di avere libero accesso alla falesia attraverso terreni pubblici e privati;
– interfacciarsi con il Comune nel cui territorio è presente la falesia (il passo più importante) al fine di comunicare le attività che s’intendono porre in atto.
Il Comune potrebbe chiedere di:
– eseguire una perizia geologica (eseguita da un geologo abilitato) che attesti la stabilità della falesia;
– eseguire eventuali lavori per la messa in stabilità della falesia che la predetta perizia evidenzi come necessari (disgaggi) che vengono certificati dai soggetti abilitati a farli e successivo collaudo in loco degli stessi lavori (seguendo la procedura amministrativa prevista per i lavori di messa in sicurezza);
– presentare una Comunicazione di inizio lavori (CIL) o, in alternativa, presentare una Comunicazione di inizio lavori asseverata (CILA) o, in alternativa, presentare una Denuncia d’Inizio attività (DIA);
– presentare un piano per la sicurezza;
– nominare un coordinatore per la sicurezza (sia in fase di progettazione che in fase d’esecuzione);
– dettagliare il piano dei lavori che s’intendono eseguire,
– eseguire i lavori tenendo conto di tutte le prescrizioni richieste nella fase autorizzativa da parte del Comune.
Solo dopo questa fase si potrà passare al posizionamento di ancoraggi (certificati CE sia per la progressione che per la sosta) per la individuazione delle vie di salita ludico-sportive (ancoraggi che a mio avviso vanno posizionati a distanze ravvicinatissime per ridurre al minimo le conseguenze di una caduta); il posizionamento degli ancoraggi deve essere fatto a regola d’arte secondo le indicazioni dei costruttori degli stessi ancoraggi e secondo le più recenti norme tecniche disponibili. Gli stessi ancoraggi è bene che siano sovradimensionati rispetto alle reali esigenze.
Alessandro Gogna sulla via Comici al Nibbio, 1966
In seguito all’esecuzione dei lavori sono sempre possibili azioni per il risarcimento di danni a titolo di responsabilità extracontrattuale (art. 2043 Cod. Civ.) nei confronti di chi ha posizionato gli ancoraggi se gli stessi non sono stati infissi a regola d’arte o con materiale non omologato o in maniera tale da non preservare in maniera sufficiente gli esiti di una caduta. Come è possibile un’azione contro il Comune se è stato consentito un accesso pubblico a un’area a rischio per la caduta di sassi o frane senza emettere e pubblicizzare apposita ordinanza d’interdizione della stessa zona.
Il Comune potrebbe considerare “lavori” ogni attività che si svolge in falesia o considerarli “lavori in economia” se a eseguirli fosse lo stesso proprietario; con tutte le conseguenze in termini di autorizzazioni e prescrizioni oppure si potrebbe ottenere dall’Ufficio Tecnico del Comune una dichiarazione che i lavori prospettati non hanno bisogno di alcuna autorizzazione.
Va pure considerato che le aree in cui ricade la falesia potrebbero avere dei vincoli ambientali o paesaggistici che esulano dalle competenze del Comune. In questa fattispecie si citano a titolo di esempio le ZPS Zone a Protezione Speciale individuate dalla direttiva Direttiva 79/409/CEE, recepita con legge 157/1992, che individua in Italia circa 280 siti dove l’arrampicata è espressamente vietata (a causa della nidificazione degli uccelli) e può venire ammessa solo con apposita disposizione dell’Ente chiamato a vigilare sul rispetto della normativa.
Altri vincoli vengono dai SIC e dai ZSC che impongono analoghe aree di rispetto simili alla ZPS. Altri vincoli possono essere posti anche da leggi regionali o dagli enti di tutela ambientale come: Parchi nazionali, regionali, provinciali e suburbani. Al riguardo, prima di iniziare qualsiasi lavoro, va accertata l’effettività dei predetti vincoli ambientali.
Considerato quanto premesso non mi stupisco se in Italia le falesie nascono come funghi la notte (e mai durante le ore diurne dei weekend…) e vengono attrezzate da fantasmi (che notoriamente non vengono chiamati a rispondere di violazioni di molteplici normative o dell’uso improprio di ancoraggi non certificati… o semmai mal posizionati).
Ma quando si vuole dare organicità e pubblicità a dei lavori fatti alla luce del giorno in una falesia con rilevante frequentazione pubblica non si può prescindere da un accordo tripartito che veda coinvolto il proprietario della falesia, il Comune e chi effettua i lavori.
In questa evenienza è possibile che il Comune stabilisca vincoli assai poco restrittivi e che l’opera di attrezzatura sia sostanzialmente priva di laccioli burocratici. Ma è anche possibile che il Comune richieda la stesura di un piano paesaggistico ambientale per la protezione dell’unico scarafaggio autoctono della zona…
In Sicilia un Ente parco ha affidato la creazione e la manutenzione (e i relativi fondi) di una falesia alla Sezione del CAI di Catania che a sua volta ha fatto intervenire come esecutore la locale Scuola d’Alpinismo. In questo caso il Comune non è intervenuto ritenendo che le competenze in capo al Parco fossero prerogative esclusive dello stesso Parco.
Chi effettua l’attrezzatura di una Falesia?
Quando si parla di attrezzatura “ufficiale” di una Falesia si pensa di ricorrere a “professionisti abilitati”. Ma chi sono costoro? Contrariamente a quanto si pensa non sono le Guide Alpine.
Le Guide Alpine NON sono abilitate tout court a fare lavori su funi, né a rilasciare attestati per i lavori su funi né a sorvegliare, organizzare o coordinare i lavori su funi. La legge n. 6/1989 stabilisce all’art. 2 quali sono gli ambiti professionali della Guida alpina:
1. E’ guida alpina chi svolge professionalmente, anche in modo non esclusivo e non continuativo, le seguenti attività:
a) accompagnamento di persone in ascensioni sia su roccia che su ghiaccio o in escursioni in montagna;
b) accompagnamento di persone in ascensioni sci-alpinistiche o in escursioni sciistiche;
c) insegnamento delle tecniche alpinistiche e sci-alpinistiche con esclusione delle tecniche sciistiche su piste di discesa e di fondo.
Le competenze della Guida Alpina sono da considerarsi elencate in maniera esaustiva nell’art. 2. Qualche sentenza di merito ha fatto rientrare nell’attività di Guida anche il “canyoning” in quanto assimilabile ad ascensioni su roccia con tecniche alpinistiche – ancorché in discesa – ma non si riscontra nessuna norma né nessun pronunciamento giurisprudenziale che assegni altre competenze professionali alle Guide Alpine.
Non esiste in Italia (né a livello nazionale né regionale) una normativa organica che riguarda la tematica di attrezzatura delle pareti rocciose per uso sportivo. Né esiste un’analoga disciplina europea (né come direttiva né tantomeno come regolamento). Le uniche norme di riferimento sono quelle del COSIROC e della FFME – dirette emanazioni del ministero Francese dello Sport – che dettagliano la figura del chiodatore (con specifica licenza) e del tipo di attività che si pongono in essere in ambiente.
Sia a livello amministrativo che per le tematiche connesse alle responsabilità si applicano per analogia (e solo per analogia) le normative riferibili all’edilizia, alle normative sulla messa in sicurezza di pareti rocciose (il cosiddetto “disgaggio”) e alle norme di ingegneria civile.
Lavori in altezza su funi
Nell’ambito del diritto italiano bisogna tener nettamente distinti le norme che tutelano i lavoratori (sia autonomi che dipendenti) che normalmente prestano la loro attività dietro un compenso e altri soggetti che svolgano attività analoghe ma al di fuori di un rapporto di lavoro.
La disciplina di riferimento nazionale che occorre tenere presente in caso di “lavoro” è quella prospettata dal D.Lgs. 81/2008.
L’art. 107 stabilisce che per lavoro in quota va così considerato:
“Agli effetti delle disposizioni di cui al presente capo (Titolo IV Capo II n.d.r) si intende per lavoro in quota: attività lavorativa che espone il lavoratore al rischio di caduta da una quota posta ad altezza superiore a 2 m rispetto ad un piano stabile”.
Se i lavori in quota (cioè oltre i 2 metri) vengono fatti su funi e non su ponteggi i lavoratori devono essere obbligatamente formati ai sensi dell’art 116 4 comma del D.Lgs. 81/2008 che ad ogni buon conto si riporta qui di seguito:
Art. 116.
Obblighi dei datori di lavoro concernenti l’impiego di sistemi di accesso e di posizionamento mediante funi.
1. Il datore di lavoro impiega sistemi di accesso e di posizionamento mediante funi in conformità ai seguenti requisiti:
a) sistema comprendente almeno due funi ancorate separatamente, una per l’accesso, la discesa e il sostegno, detta fune di lavoro, e l’altra con funzione di dispositivo ausiliario, detta fune di sicurezza. E’ ammesso l’uso di una fune in circostanze eccezionali in cui l’uso di una seconda fune rende il lavoro più pericoloso e se sono adottate misure adeguate per garantire la sicurezza;
b) lavoratori dotati di un’adeguata imbracatura di sostegno collegata alla fune di sicurezza;
c) fune di lavoro munita di meccanismi sicuri di ascesa e discesa e dotata di un sistema autobloccante volto a evitare la caduta nel caso in cui l’utilizzatore perda il controllo dei propri movimenti.
La fune di sicurezza deve essere munita di un dispositivo mobile contro le cadute che segue gli spostamenti del lavoratore;
d) attrezzi ed altri accessori utilizzati dai lavoratori, agganciati alla loro imbracatura di sostegno o al sedile o ad altro strumento idoneo;
e) lavori programmati e sorvegliati in modo adeguato, anche al fine di poter immediatamente soccorrere il lavoratore in caso di necessità. Il programma dei lavori definisce un piano di emergenza, le tipologie operative, i dispositivi di protezione individuale, le tecniche e le procedure operative, gli ancoraggi, il posizionamento degli operatori, i metodi di accesso, le squadre di lavoro e gli attrezzi di lavoro;
f) il programma di lavoro deve essere disponibile presso i luoghi di lavoro ai fini della verifica da parte dell’organo di vigilanza competente per territorio di compatibilità ai criteri di cui all’articolo 111, commi 1 e 2.
2. Il datore di lavoro fornisce ai lavoratori interessati una formazione adeguata e mirata alle operazioni previste, in particolare in materia di procedure di salvataggio.
3. La formazione di cui al comma 2 ha carattere teorico-pratico e deve riguardare:
a) l’apprendimento delle tecniche operative e dell’uso dei dispositivi necessari;
b) l’addestramento specifico sia su strutture naturali, sia su manufatti;
c) l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale, loro caratteristiche tecniche, manutenzione, durata e conservazione;
d) gli elementi di primo soccorso;
e) i rischi oggettivi e le misure di prevenzione e protezione;
f) le procedure di salvataggio.
4. I soggetti formatori, la durata, gli indirizzi e i requisiti minimi di validità dei corsi sono riportati nell’allegato XXI.
Rocca Pendice
Nell’allegato XXI sono riportati in dettaglio le prerogative di chi è abilitato a formare i lavoratori su funi e rilasciare il previsto attestato nonché ad effettuare le verifiche quinquennali. Sono altresì riportati i contenuti minimi del corso e le modalità di svolgimento dello stesso.
Il Collegio Nazionale delle Guide Alpine di cui alla legge 02/01/1989 n. 6 “Ordinamento della professione di guida alpina” è tra le otto entità che possono qualificarsi come formatori. Il Collegio, non (e si badi bene) la singola Guida Alpina.
Quindi il Collegio nazionale, al pari delle altre sette entità, può essere tra coloro che organizzano corsi di formazione e ne certificano il superamento nonché i successivi aggiornamenti obbligatori. Va da sé che non ha nessuna competenza esclusiva sull’organizzazione dei corsi in discorso.
Come va da sé che se la Guida Alpina (singolo professionista) non ha seguito il previsto corso e conseguita la certificazione dell’apposito corso non è di per sé abilitata a lavorare su funi in altezza nell’ambito di una prestazione professionale in un cantiere.
Ricapitolando, se vengono effettuati lavori da soggetti liberi professionisti o lavoratori dipendenti in un contesto lavorativo, inteso come scaturendo da rapporto contrattuale diretto o indiretto, coloro che operino su funi oltre i due metri di altezza da terra devono essere formati e certificati ai sensi di quanto espresso nell’allegato XXI e vanno applicate le norme di riferimento (per la maggior parte rintracciabili nel Capo IV del D.Lgs. 81/2008).
Chi opera come singolo privato su funi (per qualsiasi motivo) senza alcun vincolo di lavoro né di subordinazione e senza il coinvolgimento di terzi e senza insistere su aree qualificate “come cantiere” sia temporanei che mobili o fissi non è tenuto ad alcuna disciplina.
Chi “chioda una parete” deve essere una figura abilitata ai lavori in altezza se opera in un cantiere propriamente detto. Su come mette gli ancoraggi e su quali ancoraggi usa si apre un infinito ventaglio di possibilità perché in Italia la normativa ti dice “chi” deve fare il lavoro ma NON come deve fare il lavoro.
Una possibilità è che una figura professionale tecnica come un Ingegnere realizzi un progetto tenendo conto di tutte le best practice al momento vigenti e realizzi un elaborato di dettaglio su i materiali da impiegare e sul modo e sul dove della loro infissione. Che deve essere eseguita dalla figura abilitata. L’Ingegnere controllerà che i lavori siano eseguiti secondo le sue prescrizioni e con i materiali indicati posti in sito secondo le prescrizioni tecniche dei costruttori dei materiali (ancoraggi, soste, resine, ecc.) e alla fine del lavoro procederà al collaudo dei lavori.
Alcune delle vie tracciate sulla parete di Monte Monaco, San Vito lo Capo
Anni fa sono stato interessato dal CAI di Padova per un parere in ordine alla falesia di Rocca Pendice. Il CAI ne aveva promosso la riattrezzatura a carico dei volontari e con il lavoro dei volontari. Una Guida Alpina aveva contestato all’Ente parco (proprietario dell’Area) la legittimità dell’operazione. A seguito delle contestazioni incrociate tutto si fermò e nessuno mise mani alle pareti che ora versano in stato di abbandono. All’epoca mi erano state rivolte, da parte del CAI, alcune domande che trovo utile riproporre qui con risposte che diedi all’epoca tenuto conto di quanto premesso fino a ora.
Gli istruttori, o un qualsiasi arrampicatore, possono volontariamente pulire le vie, sistemare le soste usurate, sostituire gli spit rovinati, aprire nuovi itinerari o possono farlo solo le Guide?
Lo possono fare tutti e non solo le Guide se il proprietario dell’area è d’accordo e non si configura un “cantiere”.
Il CAI può organizzarsi per svolgere questi interventi?
Se lo fa a livello ufficiale e pubblico deve seguire tutti i passi previsti dalle norme e relazionarsi principalmente con il Comune. Non serve essere un’“impresa” ma bisogna seguire le prescrizione degli uffici comunali.
In caso di incidente su una via chiodata da uno “del CAI” anziché da una Guida, la responsabilità ricade sul Parco o sul quello del CAI?
La responsabilità può ricadere su qualsiasi persona chioda (Guida inclusa) e può coinvolgere anche il proprietario della falesia.
Se il Parco vuole coprirsi le spalle può arrivare ad autorizzare arrampicata solo sugli itinerari “certificati” dalle Guide?
Le Guide di per sé non certificano niente. Se il Parco vuole coprirsi veramente le spalle fa prima a vietare l’arrampicata.
Rocca Pendice rischia davvero di diventare solo “un luogo di lavoro” delle Guide esautorando totalmente chi per un secolo l’ha attrezzata, pulita, manutentata e fatta vivere?
Rocca Pendice diventa oggetto di attenzioni in base agli accordo istituzionali che coinvolgono il Parco e il Comune. Il CAI può promuoverli ed essere l’unico legittimato ad agire.
Se si autorizzasse davvero questa prassi di “legittimazione esclusiva delle Guide per le chiodature” allora TUTTE LE DOLOMITI, TUTTE LE FALESIE ITALIANE, ogni sito di arrampicata andrebbe certificato? Mi spiego, in Dolomiti tutti chiodano e schiodano e aprono, ci son migliaia di falesie attrezzate e manutenziate da gente del CAI o appassionati locali, ma nessuno si sogna di impedire loro questa attività. Solo Rocca Pendice sta vivendo questa assurda diatriba, cieca e ottusa, che altrove non avrebbe senso. È possibile ragionare per analogia? Paragonare Rocca Pendice a tutte le altre falesie? Alle Dolomiti tutte? E restituirle finalmente un po’ di libertà e buon senso? O il fatto che c’è un Ente pubblico come proprietario può comprometterne totalmente la fisionomia?
Le guide non sono le uniche legittimate a chiodare.
Cosa dovremmo fare, secondo Lei, per poter esser coinvolti nella manutenzione della falesia in sinergia con le Guide, anziché in contrapposizione? Qual è il nostro margine legale d’azione? Su cosa possiamo appigliarci e a cosa possiamo appellarci in questa battaglia in difesa di un luogo a noi caro e importante per la comunità di arrampicatori padovani?
Penso che il CAI deve essere controparte unica con il Parco. A tal fine va redatto un articolato con cui il Parco affida la manutenzione della falesia in esclusiva al CAI. A quel punto il CAI si organizza al suo interno come meglio crede e si rapporta al Comune per quanto serve a organizzare “lavori” sulla parete.
Un istruttore CAI, o un qualsiasi climber abilitato al lavoro su funi, tramite regolare corso/attestato può eseguire lavori di pulizia e lavori di manutenzione (sostituzione soste, apertura nuovi itinerari)? Il ruolo esclusivo delle Guide è circoscritto alla certificazione degli ancoraggi o a tutti i lavori su fune?
Se vengono effettuati lavori in quota su fune appaltati a un professionista o a una ditta sia il professionista che i dipendenti della ditta devono essere abilitati secondo il D.Lgs. 81/2008. Non esiste nessuna abilitazione per la sostituzione degli ancoraggi o l’apertura di vie nuove. Non esistendo nessuna abilitazione non si pone il problema neanche per le Guide che in questo caso sono perfettamente equiparate a qualsiasi altro soggetto.
Infine, forse la questione più importante: è giusto trattare l’arrampicata in falesia e la manutenzione/chiodatura delle vie alla stregua di un lavoro in altezza, o no? se sì, allora solo le Guide sono abilitate, se no, siamo autorizzati anche noi…
L’arrampicata in falesia è arrampicata… e basta. La manutenzione e chiodatura di una falesia è un’attività libera. Come tutte le attività libere comporta delle responsabilità. Non esiste nessuna abilitazione specifica per attrezzare una falesia. Le guide non sono abilitate perché non esiste nessuna abilitazione a ciò.
Se si interviene in maniera strutturale su una falesia la fattispecie può essere considerata come un cantiere. Se il Comune del luogo concorda nel fatto che quello sia un cantiere.
E allora come cantiere va considerato tenendo conto le normative del D.Lgs. 81/2008 e delle prescrizioni dell’Ufficio Tecnico Comunale. In tal senso non rileva assolutamente la qualifica di Guida Alpina. Al massimo, se una Guida Alpina opera in un cantiere che fa lavori in altezza va considerata come un operaio edile specializzato che ha seguito i corsi di cui all’art. 116 del D.Lgs. 81/2008. Che sia una Guida Alpina è assolutamente insignificante. E’ vero il contrario: se non ha seguito i corsi del suaccennato art. 116, la Guida Alpina non può fare assolutamente niente in un cantiere il cui lavoro è eseguito su funi.
Nel caso del cantiere sono centrali le figure del Direttore dei Lavori e del Responsabile per la Sicurezza (individuati secondo le vigenti normative in materia) che indirizzano il lavoro ed emanano ordini prescrittivi per tutti gli operai impiegati.
Una volta individuati i rapporti con il proprietario e averne ottenuto l’assenso e dopo aver svolto i lavori di attrezzatura sarebbe saggio stipulare un’assicurazione che copra i soggetti intervenuti (proprietario, promotori della chiodatura, geologi, ingegneri, chiodatori, ecc.) per ogni eventuale incidente che in quell’area potrebbe verificarsi a causa dei molteplici eventi in grado di verificarsi.
La polizza assicurativa va costruita appositamente e il premio risentirà ovviamente del grado di rischio che la compagnia di assicurazione intende accollarsi. Ammesso che si trovi una compagnia che voglia accollarselo.
In questo labirinto di possibilità che la burocrazia italiana ci offre non mi stupisco se il fiorire di italiche situazioni cerchi scorciatoie per uscire da un guazzabuglio apparentemente senza uscita.
E’ peraltro vero che dove le parti interessate abbiano la volontà di realizzare insieme qualcosa si possono realizzare cose egregie. Arco di Trento (TN) e Ferentillo (TR) sono esempi in tal senso.
A San Vito lo Capo (TP), il Comune ha incentivato l’arrampicata e la chiodatura. La chiodatura è stata realizzata con materiali discutibili. Sono cedute soste ed ancoraggi. Molti si sono fatti male. Anche molto male. Una Guida alpina austriaca in vacanza con la famiglia è caduta per il cedimento di una sosta. Ha passato mesi in coma. Solo nell’ultimo anno si sono contati sette incidenti a causa di una cattiva chiodatura. Prima o poi penso qualcuno sarà chiamato a risponderne.
Fin qui le considerazioni di Riccardo Innocenti. Con la tecnica di una raffinata escavatrice sono stati disseppellite leggi inadeguate e complicate, poi ammucchiate a lato, assieme al buon senso. Le considerazioni di Paola Romanucci (vedi parte 1) sembrano quelle più a senso compiuto e a indirizzo pratico, ivi compresa, almeno a mio parere, quella per la quale il CAI non può e non deve farsi carico della sicurezza.
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Le cifre enunciate dal Signor Greppi sono clamorosamente insensate ma quello che Lei sottolinea come frase fatidica è ancora più imbarazzante. Senza nessun fondamento legale Greppi esprime un concetto di consapevolezza che è un Suo desiderata per salvare un progetto impostato coi piedi. Leggendo la parte numero 1 del post l’incredulità è totale. Riassumo: un fantomatico gruppo di lavoro, evidentemente a digiuno di molte nozioni, anche di chiodatura visto le cifre sballate, convince un’istituzione a imbarcarsi in un progetto che dimentica l’esistenza di una proprietà. E ora con questo intervento legalmente solido, ovvero scritto da un avvocato, si definisce che perfino l’unico pilastro non di sabbia, ovvero l’affidare a delle guide alpine la chiodatura, poggia su una non verità giuridica. Se non fosse tutto così chiaro verrebbe da pensare a una storiella da commedia. Ora però mi chiedo: come mai la FASI non fu interpellata all’inizio? Così come il CAI? Una qualunque associazione riconosciuta non si sarebbe comportata in maniera così maldestra mettendo a rischio un intero movimento; ci sarebbero state riunioni e confronti. Mi dispiace, ma a Lecco hanno mostrato un’anarchia irrispettosa verso l’intero mondo dell’arrampicata e un approccio che lascia dubbi e sospetti.