L’alba dell’arrampicata sportiva
(scritto nel 1999)
All’inizio lo spit, tanto temuto da alcuni, ma osannato da altri come la chiave per poter accedere nell’olimpico regno della difficoltà estrema, fu usato con criterio e ciò permise la nascita di bellissime aree di arrampicata sportiva dove i migliori climber si esprimevano ai massimi livelli. Purtroppo oggi i primi pionieri dell’arrampicata sportiva e dell’8a stanno compiendo il loro tempo: alcuni ne hanno imitato e ne stanno superando le gesta; altri hanno portato al massimo livello una stupidità colpevole di ignoranza e di presunzione.
Si vide così un discreto incremento di vie fatte con appigli scavati, prese resinate, morfologie modificate e l’«evoluzione» corse tanto veloce e sicura che ci mostrò esempi veramente clamorosi come le due prese scavate sulla Via del Soccorso al Sasso Remenno, salita in rotpunkt già nel 1980 quando era ancora protetta da fetidi chiodi a pressione arrugginiti.

Altre prese sono state scavate su vie estreme con la scusa che viceversa non si sarebbe potuta salire una linea altrimenti bella e per il resto fattibile. Altra grande presunzione, regolarmente castigata anche da occasionali visitatori!
E accanto alle modificazioni artigianali e provinciali delle vie (“noi, a casa nostra, facciamo quel che vogliamo!“) sono presto arrivate anche le modificazioni della storia. Sembra quasi che ci sia la tentazione di cancellare o minimizzare, non soltanto di ignorare, ciò che è stato fatto anni prima, forse per rafforzare miti di per sé assai deboli. Non credo ci sia molta differenza tra una via salita in top rope con la corda tenuta lasca e la stessa salita da capocordata con uno spit ogni due metri. Differenza sì, ma non abissale. Anche perché i due giochi sono stati fatti in epoca diversa, con regole diverse: il primo ignorava il secondo perché appartenente al futuro, ma il secondo perché ignora, minimizza o cancella il primo? Il fatto che i nut nelle fessure o una corda dall’alto non abbiano lasciato alcuna traccia, invece di diventare motivo d’esempio è diventato causa di oblio o di voluta ignoranza.
A chi attribuire la responsabilità di tutto ciò? Difficile dirlo. Forse ai padri fondatori dell’arrampicata sportiva (loro malgrado), al loro silenzio o alla loro complicità? Forse ai primi che vennero dopo? Forse all’illusione che con lo spit tutti avrebbero potuto inchiodarsi il nome alla via? Hanno fatto il resto le guide di arrampicata sempre più elenchi di scritte di vernice alla base delle falesie, sempre più disegnini di corsie differenziate; e poi ancora la disabitudine a leggere, a viaggiare in altri centri di arrampicata; e poi ancora… la coda del diavolo!
Non credo ci sia un’unica risposta e forse non vale la pena cercarla. Oggi l’arrampicata sportiva è un fenomeno indipendente e ciò non può fare che piacere, da qualsiasi punto di vista si guardi la cosa. In Europa i centri d’arrampicata sono proliferati, tutti i settori rocciosi sono stati spittati: era sufficiente fossero vicini ad una strada. Il numero totale delle lunghezze è centuplicato in pochi anni, a tal punto che un’area d’arrampicata come quella di Finale Ligure, abituata ad avere visitatori da ogni parte, oggi lamenta una sensibile diserzione, appena attenuata dalla presenza di arrampicatori dell’Europa dell’Est!

La sedentarietà è quindi un fenomeno sempre più accentuato dell’arrampicata sportiva e non vedo come questo possa giovarle. Se manca l’esperienza diretta cessa la domanda d’informazione, e con il crollo dell’informazione non si sa neppure che c’è stato un passato. Dubbi e rammarico per l’inesistenza del passato possono esserci fino a un certo punto. Forse su tutta la storia è bene che scendano il silenzio o la beffa. Eppure, che presente sarebbe senza il passato?
In molti luoghi però qualcosa di tradizionale è ancora radicato. Le falesie del Rätikon hanno visto nuove gesta che hanno conservato radici tradizionali, pur cercando giustamente una propria strada evolutiva. Non a caso questa regione ha prodotto fino ad oggi alcuni talenti superspecializzati che si esprimono ai massimi livelli di questo momento, ma anche ha sfornato ottimi «climber d’avventura». E quando si cammina alla base di queste grandi pareti non si può non pensare che proprio qui sono state confezionati alcuni tra gli ultimi capolavori dell’arrampicata. Martin Scheel su Hanibal’s Alptraum oppure Beat Kammerlander su New Age ci hanno fatto ancora una volta sognare.
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Mi ricorda tanto l’accesa diatriba tra il CAI di Finale Ligure e i Finaleros, dove alcuni associati a questi ultimi si misero a dire che ci sarebbe stata roccia vergine per sempre e per tutti. Sarà che ho fatto del concetto di Limite un mio dogma personale, ma dovrebbe essere una cosa comune a chi arrampica la conservazione dei luoghi che gli offrono tale svago (che peraltro gli appassionati non ritengono solamente uno svago). Com’è che disse Einstein? Ci sono solo due cose infinite nell’universo (tra queste però non figuravano le pareti per arrampicare).