Mad men

Mad men
di Mirko Giorgi

Disoccupate le strade dai sogni, sono ingombranti, inutili, vivi (Incubo numero zero, Claudio Lolli)”.

Avreste dovuto dirmelo che saremmo invecchiati anche noi (Una ragazza del ’77 bolognese)”.

Ante/fatti
Dove s’introducono per sommi capi gli autori di un attentato un po’ particolare, peraltro del tutto incruento, e si entra nel mood giusto di una generazione soffocata nella culla. Accenti nostalgici compresi nel pezzo. Prosopopea in omaggio.

Nell’inverno più duro degli anni di piombo (a due anni dall’omicidio di Pier Paolo Pasolini, quattro mesi prima dell’omicidio di Aldo Moro), ad alcuni amici politicamente schierati non sfuggì un fatto sconcertante: lungo la Statale della Futa i cartelloni pubblicitari si stavano moltiplicando in modo scandaloso. Un’orrenda fioritura d’insegne urticanti infestava l’Appennino dietro casa: borghetti sparsi sugli ampi crinali, fughe rossicce di rupi plioceniche, tante lapidi con nomi e cognomi di giovani come noi, trucidati dai nazifascisti, in un brutale carosello di eccidi e decimazioni insensate.

Muri&puri, Palermo, 2022

Sadismo e crudeltà da sfogare su mamme e bambini tremanti, quale essere vivente può trovare il coraggio di commettere atti così maledetti? Dalle vive testimonianze che avevano raccolto fin dalla tenera età, i miei amici una risposta la sapevano imbastire: chiunque creda di appartenere a una razza superiore li può commettere e continuerà a farlo fino a quando non verrà cancellata dalla faccia della terra, perché non ci vuole alcun coraggio per schiacciare delle zecche e degli scarafaggi, viene naturale farlo e si prova anche piacere. Dalle nostre parti certe ferite si chiudono a stento. Forse fu proprio a questo stadio del loro sviluppo cognitivo, anche grazie ai racconti dei sopravvissuti alla strage, che si convinsero che la parola gerarchia nascondeva un cuore di tenebra, esiti disumani.

Davide Marnetto, La Palud (Verdon), 1985

Fatto sta, che a poco più di trent’anni dalla fine della guerra, nel punto esatto in cui la SS della Futa incrocia la linea Gotica delle SS, un nuovo mostro si aggirava tra quelle strazianti roccaforti della memoria: il feticismo delle merci. Non c’è da scherzare. Fatte le debite proporzioni, sembrava una porcata pure quella. E bisognava darsi una mossa. I compagni spazzini non si spingevano a tanto nella lotta politica, mancavano di originalità e senso del ridicolo.

Dalle perizie effettuate sul terreno e dalle analisi condotte a tavolino emerse un dato preoccupante: si trattava di una forma subdola di lavaggio del cervello, non c’era alcun dubbio, i loro calcoli erano corretti. Quelle ripugnanti sirene pubblicitarie andavano sventrate senza pietà, non solo brutalizzavano il panorama (suppergiù dove oggi corre la via degli Dei), lo schifo penetrava più a fondo, aggrediva l’habitat mentale dei cittadini più svantaggiati, intellettualmente pigri, colpevolmente distratti, quelli che non avevano né tempo né voglia di leggersi i Francofortesi, o ripassare Don Milani. Detto da quei giovani suprematisti rossi che furono: “brutti bastardi, così alimentano il bisogno nevrotico dell’accumulo…”; “vogliono ficcarci in testa che siamo dei poveretti se non consumiamo in serie…”. Sono accuse strampalate, vaneggiamenti incomprensibili per la neocorteccia di un giovane follower digitale, ma inquadrano bene la vis polemica dei quattro protagonisti della nostra buffa storia: la storia di un attentato che non aveva niente di vile, ma che non fece storia.

Sul finire degli anni ’70, in giro c’erano molti ventenni che odiavano la pubblicità, la demonizzavano senza remore, e non tutti erano dei boy scout. Azionista di maggioranza del conformismo più gretto e cinica promoter dello spreco abitudinario, stava diventando sempre più scaltra e charmant, come una puttana che sale di livello. Sceglieva con cura i suoi bersagli in carne ed ossa, ne studiava le mosse, mirava di precisione, alle zone erogene e alle budella. Da brava scolaretta imparava a memoria le parole d’ordine e i gerghi delle tribù giovanili, faceva la simpatica per essere accolta come complice, magari come speaker delle loro birichinate o sponsor dei loro capricci: “così facciamo tendenza e ci sentiamo tutti molto più strafighi di ieri, più nuovi di prima. È una sensazione bellissima”. Da sempre sapeva come eccitare la vanità, il disimpegno e la grullaggine che albergano in ognuno di noi, nessuno escluso. Ora perfezionava la sua retorica e studiava a fondo la fisiologia del desiderio, le tante declinazioni del verbo sperare. Si consultava con gli psicanalisti, prezzolava rockstar, flirtava con gli intellettuali di punta, in una coordinata azione di rincoglionimento massificato, riscatti simbolici per tutte le taglie. Si aveva la sensazione di prenderlo nel culo a prescindere dai nostri gusti. E per rimanere in tema, sfondava facile un cervello in deficit, un organo lesionato dalla credulità, tragicamente sprovvisto di robusti anticorpi dialettici, gli stessi che le menti gramsciane dei miei quattro amici producevano a getto continuo, come una fabbrica di munizioni in tempo di guerra (non è forse l’arroganza, la virtù delle avanguardie giovanili?).

Mirko Giorgi arrampica a Cathedral Rock (Yosemite Valley), 1991

A seguire due slogan in salsa cubana, estratti a casaccio dai loro verbosi comizietti: “Il benessere non passa dal possesso”; “Il progresso non si spiega con la quantità”. Sembrerà strano, ma all’epoca dischiudevano interminati spazi di masturbazione mentale. A dominare il tormentato forum esistenzialista c’erano due schieramenti in aperta contesa, entrambi protetti da scintillanti corazze ideologiche: Avere o Essere? Essere o Apparire? Essere o non Essere? E via andare. Era facile riconoscere i propri simili nella calca mattutina, e anche compatire un po’ i diversi, sempre molto abbronzati e in tiro. I più arditi uscivano in strada col viso chiazzato d’arancio, ustioni da accanimento cosmetico. Segni particolari: quaquaraquà da struscio domenicale e poco altro da segnalare. Non si usavano le mezze misure, quando si valutava la stupidità di certi coetanei che sbagliano.

All’epoca giravano strane idee su quale fosse il modo più furbo per stare al mondo, e tra queste ve n’era una che raccomandava di stare sempre all’erta quando entrano in scena troppi Quattrini e troppo Potere. Alcuni consigliavano addirittura di cercarsi un’arma e salire sulle barricate, perché erano certi che la recita dei due perfidi protagonisti seguisse un copione tristemente noto: controllare le menti degli altri, andare fino in fondo nella rapina e nel saccheggio, non fermarsi davanti a nulla. Trovavi anche una larvata credenza in quelle giovani zucche, già ricche di nutrienti e vitamine nobili: le cose buone e sane della vita coincidono con le buone e sane relazioni umane, e se è vero che con il denaro e il potere le puoi anche comprare, è altrettanto vero che più diventi ricco e potente e più ti sembreranno finte, o addirittura marce.

Mirko Giorgi bivacca sulle Big Sandy Ledges, Half Dome, Yosemite.

Da attenti osservatori delle dinamiche economiche rionali, avevano visto famiglie intere scannarsi per un’eredità milionaria non perfettamente bilanciata, e non riuscivano proprio a spiegarsi come ci si potesse rovinare a tal punto, senza far uso di droghe letali. Se si sentivano superiori era solo perché certa gente sceglieva di strisciare nelle fogne, pur di racimolare qualche dollaro in più dell’odiato cugino, pur di non passare da coglione. In verità, nessuno dei quattro poteva vantare esperienze dirette in questo circoscritto campo minato, era solo una pia intuizione. Il tipico moralismo del giovane idealista che pontifica su forme di vita a lui sconosciute.

Fra l’altro sapevano poco o nulla di Francesco, il ribelle fatto santo, il guru dei fricchettoni non ancora secolarizzati, tuttavia, quel poco che sapevano già bastava a incuriosirli, dopotutto le affinità col poverello di Assisi erano notevoli: come loro era un poeta fatto e finito, amava la natura in tutta la sua stupefacente biodiversità e ignorava il giudizio dei pontefici. Come loro disprezzava il consumismo: “buttate via tutto e tenete solo l’amore per il prossimo, meglio se disgraziato.” Esiste un messaggio più rivoluzionario di questo? Sì, esiste, basta dire la stessa cosa senza tirare in ballo un Dio. Niente da dire, era una gran cartola (traducibile con l’americano “cool” o con il romanesco “gajardo”, NdR), Francesco. L’unica differenza è che loro s’inginocchiavano solo davanti a qualcosa di buono da leccare.

C’era una frase in particolare che li turbava, un rigo secco di un sociologo statunitense degli anni ‘50 del XX secolo: “… essi devono desiderare ciò che è obiettivamente necessario che facciano (David Riesman)”. A rifletterci bene non c’è da stare allegri. Sono parole sinistre, peraltro non molto dissimili da quelle che riempiono le pagine del Capitalismo della sorveglianza, di Shoshana Zuboff, un saggio pubblicato quasi settant’anni dopo, e il titolo dice già tutto.

Non credo di essere molto distante dal vero, se affermo che una larga fetta della popolazione giovanile del tempo si faceva grosso modo questo film dell’orrore: nel palazzo dei cattivi, ai piani alti della reazione, uno staff di gangster del pensiero colti e coscienziosi, allineati agli obiettivi aziendali come un plotone d’esecuzione, giù in basso, nel sordido formicolio della “moltitudine bambina”, un via vai di messaggi pervasivi e omologanti, che penetrano sotto pelle, come le radiazioni, come un mantra: “nella vita o si vince o si perde, o sei ricco o sei schiavo, la storia è tutta qui, il resto sono chiacchere da sfigati”.

Muri&puri, Bologna, 2019

Un film di vampiri ben vestiti, col sorriso della vittoria stampato in faccia e un bel catalogo di modelli vincenti per ogni occasione. Un film in tre tempi, con una trama scontata: 1) troncare i nervi del conflitto sociale con la mano ferma di un neurochirurgo; 2) frantumare il nucleo della coscienza di classe in milioni di neutrini che svolazzano qua e là; 3) risvegliare in ognuno di essi un quieto e definitivo menefreghismo. In altre parole: “… è inutile dannarsi per cambiare una legge di natura, è come ribellarsi alla legge di gravità. Una pazzia. Quindi non rompere i coglioni, pensa a divertirti e fatti i cazzi tuoi”.

Il successo economico come unica misura del valore personale. L’egoismo come unico valore degno di nota. Un’idea di umanità che trovavano catastrofica: “se non fossi stato così ricco, forse sarei potuto diventare un grand’uomo” (Quarto Potere, 1941). Come a dire: l’eccesso di ricchezza sopprime l’altruismo, lo fa a pezzi.

Forse stavano delirando, forse c’era di mezzo l’LSD. Non è escluso, ma è esattamente quello che si sentivano ripetere dagli “integrati” e dai fascistelli nel periodo storico in cui si svolse il fattaccio: l’abbattimento rituale dei cartelloni pubblicitari della SS 65. Siamo davvero molto distanti dall’antropologia paninara degli anni ’80, quasi a un passo dalla guerra civile.

Che tirassero all’estremo le loro idee sinistre non c’è bisogno di ripeterlo, ma mai avrebbero preso a pistolettate un dipendente pubblico, piuttosto si sarebbero fatti rinchiudere nel famigerato Camp 4, Yosemite, Ca. Condannati a rovistare nella spazzatura del lodge per mantenersi in vita. Condannati a ripetere la Salathé ad ogni luna nuova e ad ascoltare nient’altro che i Grateful Dead. Esonerati da ogni altro obbligo che non discendesse dalla scalata di una big wall della valle (sai che noia).

Oltre a marciare sotto la stessa bandiera, condividevano un recente passato speleo e due soft skill molto apprezzate dai talent scout dell’Unione Speleologica Bolognese dei primi anni ’70: l’agilità e l’incoscienza dei cinni di dodici anni, specialmente quelli un po’ rustici che abitavano ai confini del parco dei Gessi Bolognesi, proprio ai piedi della Croara, una collinetta che nascondeva uno straordinario mondo ipogeo (Patrimonio Mondiale dell’Umanità dal 2023). Ragazzini tanto intraprendenti da farsi amico un boss del fumetto (nel 1971 Magnus venne ad abitare nel nostro quartiere) e tanto imprudenti da avventurarsi nelle grotte del circondario con un mazzo di candele rubate al parroco, due scatole di cerini del nonno e una sportina piena di panini della zia (spesso si avventuravano senza avvertire i genitori, e quando li avvertivano conoscevano già la risposta: “fate attenzione a non sporcarvi troppo e rientrate per cena”. I loro nonni avevano conosciuto le trincee del Carso e combattuto in Libia, i genitori erano sopravvissuti ai bombardamenti alleati sulla città e la zia era stata una staffetta partigiana. Di che preoccuparsi? I toboga argillosi e i budelli di selenite in cui si infilavano figli e nipoti, alcuni del diametro di un secchio da giardino, erano un parco giochi come un altro, solo un po’ più umido e fangoso).

Quando sferrarono l’attacco, nel gennaio del 1978, due di loro esploravano abissi (Monte Canin; Alpi Apuane), gli altri due erano sestogradisti di primo pelo (Croz dell’Altissimo; Torre Trieste).

Alla conta finale, tre studenti e un operaio uniti in una lotta persa in partenza:
1. spaccare tutto e restituire al panorama la sua bellezza violata;
2. spaccare tutto e ripulire il mondo da una sua degradante visione mercantile.

Sono obiettivi facili da memorizzare e ben definiti nel loro respiro programmatico. Peccato che al vaglio di analisi meno faziose la missione apparisse così stupida, che forse persino il più irriducibile ecoguerriero di Greenpeace l’avrebbe derisa.

È dura senza padrini politici farsi largo nella rivoluzione alle porte, ma decisero ugualmente di sfondarle, in nome e per conto di loro stessi e delle loro irricevibili utopie infantili.

Margherita in arrampicata a Paklenica

Si armarono di quattro seghe, due vecchie corde della Salca di Biella, due autobloccanti Dressler e quattro frontali Wonder (quelli col filo elettrico sempre in mezzo alle palle).

Verso la mezzanotte del giorno X partirono da San Ruffillo pigiati in una cinquecento bianca, diretti a sud, sotto una leggera nevicata.

I cartelloni più rognosi erano cinque o sei, ce n’erano alcuni piazzati in alto sulla strada, in sponde scoscese, a due passi dall’ingresso di aie e poderi. Avevano due sole preoccupazioni: i cani e le doppiette dei contadini. Di auto ne passavano poche e nei tratti ciechi piazzavano una sentinella.

Dis/fatti
Dove gli stralunati attentatori incontrano lo scrivente e traggono alcune prime conclusioni confuse.

Ci incontrammo di prima mattina in un’affollata pasticceria del centro, il consueto appuntamento prima di entrare chi in una scuola occupata, chi in una fabbrica in agitazione.

Io: “Siete dei pezzi di merda, non mi avete aspettato…”.
Loro: “Frena, abbiamo telefonato due volte, tua madre ci ha detto che non sapeva dov’eri e se tornavi a dormire. Da quando ti sei messo con B. (1) ti sei fatto di nebbia”.

Appena li vidi capii che erano in acido, forse già nella fase calante, perché a sprazzi riuscivano nella durissima impresa di rendersi anonimi: pupille sfrittellate, improvvise e insensate scariche di risatine sincrone, l’espressione sorpresa di uno che non sa esattamente dove si trova e si guarda attorno stupito e incredulo, come se avesse aperto gli occhi su un mondo tutto nuovo e strabiliante, pieno di cose pazzesche, alcune mai viste prima, altre indecifrabili. Si complimentavano in camuffa, l’aria eccitata e colpevole di chi l’ha appena fatta franca ma in cuor suo si crede braccato. Osservavano incantati la varietà di oggetti vivi e bizzarri che vorticavano intorno, ma erano anche in paranoia dura per la presenza della Digos [in quei mesi infiltrava cornette ovunque ci fosse un capannello di giovinastri in tenuta da guerrigliero immaginario, bisognava stare in usta (2)]. Mi sembrarono quattro latitanti in stato confusionale, visibilmente storditi dai rumori e le luci, alla loro prima scalcagnata apparizione in pubblico. Mi vergognavo per loro. Ma era solo invidia, un sottoprodotto tossico dell’ammirazione.

“Brindiamo al successo della prima storica battaglia per i diritti visivi e la distruzione del significante… la prima in Italia”.

Era la matricola del Dams a pavoneggiarsi con le sue chiavi di lettura. Ricordo perfettamente cosa disse perché parlò ad alta voce, come a sfidare gli agenti sotto copertura a indovinare dove stesse andando a parare e a quale fattispecie di reato alludesse (sebbene le sue conoscenze semiotiche coprissero un arco di pochi mesi, se la tirava a manetta).

Dal mio angolo marginale, intriso di caffè amaro e fiacca delusione, cercavo di figurarmi la consistenza legale delle ragioni che sbandieravano con tanta foia leninista. La prosa non la posso scordare, tanto era sfrenata, forse un po’ malferma, ma in larga parte illuminante (come scopriremo alla fine).

Nell’allucinata rassegna dei moventi fantapolitici che snocciolarono quella mattina, ben figurava la scelta dirimente di risparmiare dallo scempio ogni indicazione ritenuta di pubblica utilità: i bersagli erano le grosse multinazionali, non le piccole realtà produttive locali, che al contrario andavano protette e fatte prosperare. Ben fatto! Nonostante fossi molto meno lucido di loro, compresi all’istante il valore intrinseco della boiata. In un castello difensivo tirato su alla buona, questa supercazzola proto-leghista faceva la sua porca figura: offriva una sponda sicura al comparto artigianale delle valli limitrofe (che stipendiava i nostri genitori) e inondava di senso delle proporzioni, senso dell’umorismo, e ovviamente senso estetico, una cosa di per sé priva di senso. Sarà anche un po’ stiracchiato, ma il ragionamento fila che è un piacere. Di sicuro attenua di molto il giudizio. Chissà se l’avrebbe attenuato anche la modica quantità?

Un po’ vergognandosi mi confidarono che il bottino fu relativamente modesto: verso le 2 del mattino, nei paraggi di Loiano, una prorompente cascata di magnifiche sensazioni fece sbandare la squadra, l’iniziale postura militare poco alla volta deperì, fino a sciogliersi in un frullato di neurotrasmettitori impazziti dalla gioia, tutti molto curiosi e vitalissimi.

Si aprì una fase psicotropa lungamente attesa, una svolta radicale che spostò rapidamente il focus della metafora: dalla guerra al capitale a un freak show degli indiani metropolitani. I quattro segaioli si erano divisi in parti uguali un francobollo di acido, niente di che. (Oggi lo chiamano microdosing, ed è una pratica salutistica molto apprezzata dai creativi e dagli inventori, è persino entrata nelle agende blindate dei CEO multimiliardari della Silicon Valley: placa l’ansia, cura la depressione, spalanca la visuale e molto altro. Pensa un po’. Ai nostri tempi dicevano che se ne uscivi vivo ti inceneriva il cervello. Santo Cielo, non so più a chi credere).

C’è da dire che non era per niente facile, nello stato d’animo in cui erano precipitati, velocizzare la mera routine operativa smettendo di ridere. Mi dissero che fu davvero complicato portare a termine la missione senza lussarsi la mandibola. Segavano un po’ di qua e un po’ di là le gambe dei cartelloni, li imbragavano per benino, li facevano oscillare pian piano, poi li posavano delicatamente al suolo, in un crollo assistito di geometrica potenza.

La festa che ha seguito l’attentato

A lavoro ultimato, invece di darsela a gambe levate, si affratellavano in un aborto di danza sciamanica, un prolungato e commovente abbraccio a un grande popolo di un bel colore vivo, sbranato dagli squali bianchi di Wall Street (timorati tagliagole al soldo di un dio mediorientale di stirpe giudaica, di cui diremo più avanti). Quella notte girava anche della grappa al mugo distillata da una famiglia di Molveno, un solluchero. Al posto delle scuri roteavano in alto le seghe da legno, brancolando nel buio a passi felpati, per non alzare polveroni sospetti nelle alture tosco-emiliane di Little Bighorn. Erano entrati così bene nella parte dei vendicatori, che stavano realmente spaccando il culo al generale Custer, perlomeno al suo incombente simulacro di cartapesta: un cartellone della Coca Cola bello alto, l’eco lontana di una mattanza rimasta impunita. Quella notte era fin troppo facile indicare quali e quanti fossero i gradi di separazione tra i due eventi, quella notte ne vedevano a camionate di gradi di separazione, e non è il caso di enumerarli tutti. La cosa più importante è che avevano passato il segno. Erano passati al nemico di punto in bianco. Senza nemmeno salutare Ringo. Un vecchio mito rivisitato e corretto.

Ridicoli? Liberi di pensarlo, ma ci avete preso. La pittoresca trance animista, per quanto imparaticcia e vagamente anacronistica, andava inscritta in un più ampio e rigoroso processo d’ibridazione culturale. Una proposta seria, mica pugnette. Erano così galvanizzati dagli effetti della sostanza sintetizzata da Albert Hofmann nel 1938, e così agguerriti nelle loro sgangherate deliberazioni, che in caso di cattura, le loro gesta avrebbero sicuramente lasciato un segno indelebile nella tradizione giurisprudenziale bolognese.

E più pestavano duro con la storia di un mondo preso in ostaggio dall’avidità, bastonato a sangue “dalle inesorabili e spietate leggi del business (Quinto Potere, Sidney Lumet, 1976)”, più si convincevano che il foro amico di Bologna avrebbe accolto con simpatia lo spirito universalistico e non violento della zingarata. Erano addirittura pronti a costituirsi pur di fare un po’ di pubblicità seria a quel mondo fragile, interconnesso e interdipendente che avevano scoperto i nativi americani senza spostarsi da casa loro e senza saper né leggere né scrivere. Al netto del pensiero magico la loro fertile cosmogonia sembrava contenere gemme di verità.

Stranamente gli effetti psicoattivi tardavano a diminuire, forse avevano mentito sul dosaggio, perché continuavano a fissare lungamente le paste prima di addentarle, come per assicurarsi che non fossero ancora vive. Vero è che stava montando una voglia furibonda di sputtanare i sedicenti autori della più sconcia campagna di marketing religioso degli ultimi 2000 anni. Provo a stringere in pistolotto filato le sconclusionate arringhe di quella mattina:

“signor Giudice… se in giro c’è ancora tanta gente che venera un dio dell’età del bronzo sbucato fuori dal nulla, un dio permaloso e vendicativo come la più antipatica delle sue creature, che ordina massacri come lo stronzo di un romanzo fantasy, che spia i nostri pensieri e odia a morte i concorrenti, come un capitalista qualunque, beh, se le cose stanno così, dobbiamo riconoscere che anche 2000 anni fa, ne sapevano a pacchi di pubblicità ingannevole. Passi che il cliente ha sempre ragione e va sempre coccolato, ma fargli credere di essere il centro dell’universo, il padrone del mondo e l’unico proprietario di un’anima immortale è stata una mossa tanto sciagurata quanto perversa. L’idea folle di consegnare all’uomo il potere divino di dominare la natura ha provocato solo disastri, ha circonfuso di santità la violenza e lo sfruttamento, ha seccato le radici della solidarietà tra i popoli della terra e coltivato una malsana attrazione per le carneficine dei miscredenti. Signor Giudice, ci perdoni l’eufemismo, ma ancora una volta ci sentiamo presi per il culo, e nell’annunciare il fallimento di questa cupa mitologia rabbinica, sfidiamo Lei e chiunque altro a negare questa ovvietà: ‘non ereditiamo la terra dai nostri antenati, la prendiamo in prestito dai nostri figli’. Trovateci parole più sacre di queste, se ne siete capaci”.

Il tono sarà anche irriverente, ma posso assicurare che di idee interessanti per fondare una nuova religione ne avevano da vendere, potevano senz’altro eguagliare il talento creativo dei copywriter veterotestamentari, senza doversi per forza arrampicare sulle vette più alte dei loro deliri di onnipotenza.

In conclusione, niente che somigliasse allo sfogo di quattro imbecilli senza arte né parte, il loro era teatro dell’assurdo, a tutti gli effetti la messa in scena di un coreografico esorcismo contro-culturale, a tutti gli effetti erano ancora strafatti: “questa è una battaglia situazionista, che cazzo!!! È Umberto Eco che mi deve giudicare, non un giudice coglione”. Non credo che questo sguaiato proclama li avrebbe scagionati. O forse sì.

In/fatti
Dove compare un insospettabile e illustrissimo pentito (con maggior sobrietà e in tono minore).

“Come la chiamiamo?”. Seduti in un angolo appartato del bar cercavano un nome eccellente, lo slogan perfetto, la figata che incorniciasse al meglio il messaggio profondo della loro performance teppistica, una novità assoluta per la poetica insurrezionale di quei tempi andati. Quella mattina si sentivano tutti surrealisti nel profondo, era bello da vedere, e anche filologicamente corretto, ma non era vero. Purtroppo la fattanza si stava lentamente diradando (dicevano di avvertire solo piacevoli fremiti residuali, come i postumi di un orgasmo plurimo della madonna), ma fortunatamente c’era ancora qualcuno che fantasticava alla grande, che continuava a volare alto. Diceva che lui era stato alla Biennale di Venezia e che aveva visto cataste di puttanate concettuali provenienti da ogni parte del mondo, la loro non avrebbe certo sfigurato nell’angolino riservato al demenziale, bisognava solo trovarle un nome decente e scrivere due cazzate. Cominciarono a schermirsi e a sfotterlo con garbo: “dai, non fare lo scemo…”, “ma piantala… dai”, in verità erano molto lusingati dalle sue incoraggianti parole di encomio, mettevano le cose nella giusta prospettiva comica e prolungavano di un pochino l’intimo godimento dei quattro scocomerati.

Ora mi sfugge chi suggerì Operazione Carosello, ma non passò. Il paese amava troppo la tenera carrellata pubblicitaria che dava la buonanotte ai figli del boom, cioè noi. Le masse sarebbero insorte.

Ricordo che un altro propose Marcovaldo, il titolo di una novella di Italo Calvino in programma alle medie (in effetti anche Marcovaldo segò dei cartelloni pubblicitari, ma per raccattare legna da ardere, non per smontare i totem del totalitarismo consumistico).
Bocciato.

Come al solito si impelagarono in un batti e ribatti sfiancante.
“occhio per occhio?”
“uhm… troppo scontato”
“delenda cartello?”
 “no… no… troppo pretenzioso”
“bravate rosse?”

E su questa ironia scabrosa ci si divise in due mozioni. A favore: “È ora di pigliare per il culo quegli infami, sono al servizio della reazione”. Contro: “Non possiamo fare del sarcasmo su una vicenda così penosa, troppo sangue innocente”. Decisero di sospendere la scaramuccia e battere altre piste.
“tagliatori di testi?”
“hai rotto il cazzo con la semiotica!”
“seghe mentali?”

Muti. In apnea per due secondi buoni, poi una grande risata, felici come matti per aver chiuso brillantemente quella meritoria operazione di pulizia etica. Mentre si godevano la scarica di endorfine, andai mestamente a pagare il conto. Se lo meritavano, non c’è dubbio. Anche se mi avevano escluso di brutto.

Tre anni dopo, con uno degli incursori fondai la Carovana coop, una cooperativa sociale che si occupava di outdoor training, progetti educativi per adolescenti a rischio di devianza minorile e percorsi di educazione ambientale per le scuole elementari.

Due di loro sono ancora al mondo, gli altri due sono morti berlusconiani (pur vivendo da suoi duri oppositori e da alpinisti contemplativi).

Mi è tornata in mente questa vecchia storia leggendo l’ampia citazione che introduce il secondo capitolo di No-logo di Naomi Klein, che riporto integralmente. A parlare è David Ogilvy, il fondatore della più prestigiosa agenzia pubblicitaria del mondo:

“In qualità di privato cittadino, ho sempre amato il paesaggio. Non mi è mai successo di vederne uno che guadagnasse in bellezza con un cartellone pubblicitario… Quando mi deciderò a dire addio a Madison Avenue, fonderò una società segreta di vigilantes mascherati che si metteranno a viaggiare per il mondo in sella a una motocicletta silenziosa e che, col favore delle tenebre, smantelleranno un cartellone dopo l’altro. Quanti giudici sarebbero disposti a dichiararci colpevoli se venissimo colti in flagrante mentre siamo intenti a compiere degli atti di alto significato sociale?”.

Dear David, non te la prendere, ma con tutti gli avvocati che ti puoi permettere, i favori che puoi distribuire e i testimoni che puoi comprare, sono capaci tutti di fare cazzate.

Note
(1) B. era una ragazza libera e bella, una femminista un tantino dura, ma non così fanatizzata da desiderare lo sterminio del genere maschile, e non così lacerata, nella sua identità biologica, da provare invidia dei peni con cui entrava in contatto.

(2) Usta = “intelligenza, furbizia, buon senso”. Normalmente ‘italianizzata’ in usta, nel dialetto più marcato si pronuncia ósta. Dire che la si possiede è sempre un bel complimentoDire che non la si ha è sempre una critica forte. “Al ragazén ag l’ha dl’ósta” (quel ragazzino è furbo/sveglio).

Epilogo
Qualche anno dopo si venne a sapere di una nuova campagna di marketing, la più disumana. Si chiamava operazione “Blue Moon”* e spacciava eroina, un prodotto di qualità superiore a prezzi calmierati, in un mercato controllato da un pezzo deviato dello Stato. Il target era il giovane caricato a molla, picchiato in testa: troppa rabbia davanti all’ingiustizia, troppe rivendicazioni sfacciate, troppi schiaffi rispediti al mittente, troppi sogni fuori portata o troppo in anticipo sui tempi, troppe pulsioni rivoluzionarie ancora palpitanti, troppi movimenti sul punto di nascere. Dalla Strategia della tensione alla Strategia della sedazione. Non ho le prove, ma so per certo che un piduista ha pronunciato queste precise parole: “Il tritolo non li ha spaventati? Regaliamoli un‘overdose da sogno. Soffochiamoli col loro vomito”.

Se vuoi approfondire, il link qui sotto fa per te.

Se invece vuoi conoscere una storia esemplare di lotta alla tossicodipendenza c’è questo documentario:
Madre dei nervi, 2018, di Mirko Giorgi, Alessandro Dardani e Melchiorre Pizzitola. Premio solidarietà al film festival di Trento.

Fljiutra Kurtisi sul set di Madre dei Nervi, 2017. Archivio: Melchiorre Pizzitola.

Il documentario racconta la dipendenza da sostanze in una comunità madre-bambino di Mestre e Venezia. Madri per caso. Madri a pezzi che rischiano di perdere i loro figli, che rischiano di morire sotto tortura, stuprate fino all’ultimo dalla regina delle droghe e dai suoi sgherri assatanati. Il racconto di un gruppo di mamme semidistrutte e del loro educatore mite e sensibile, armato solo del suo intelletto sempre in frullo e della sua infrangibile passione. Un filosofo alpinista che offre loro una cornice di ghiotte opportunità per ricucire, ricostruire e ripartire, che arricchisce il loro spazio vitale di viaggi alla scoperta e scalate da sballo, che insegna loro a “paesaggire”, a muoversi in sincrono con la bellezza della natura, a trarre da essa gocce di speranza, visioni rinfrancanti. Alle sue spalle, una comunità che regge il baricentro e le tiene in equilibrio su un filo sempre molto sottile e traballante, evitando che la tentazione di gettarsi nel vuoto torni a riaffacciarsi, come un vicino e irresistibile richiamo. La storia di un riscatto tanto atteso, di una speranza da conquistare un metro alla volta, anche quando il muro che sbarra la via sembra inaffrontabile, anche se gli appigli sono friabili e l’uscita in cima è ancora troppo lontana per sentirsi al sicuro. La montagna può essere la continuazione della terapia con altri mezzi. Basta saperla prendere dal versante giusto.

Il Trailer di Madre dei Nervi:
https://trentofestival.it/archivio/2018/madre-dei-nervi/

https://www.cai.it/titolo/madre-dei-nervi/

Mad men ultima modifica: 2024-04-04T04:23:00+02:00 da GognaBlog

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10 pensieri su “Mad men”

  1. @7:
    prova con “Dancing Days” di Paolo Morando (Laterza).
    Credo possa aiutare a dare un’idea di cosa son stati quegli anni.

  2. Bologna è la vecchietta che ti aiuta ad attraversare le strisce …il cieco che porta a spasso il cane.
    Talmente al centro di tutto che gli anelli si propagano ancor oggi.
    Sotto i portici quante Lubne a dar vita a inediti replicanti.
    Tutto a ritmo dei Gaz Nevada  anche quando il cartellone plana nell’erba della Futa.

  3. Non avendo assaporato quei tempi, una parte importante del racconto mi è preclusa e lo sento un peccato, poiché mi sembra di intuirne la profondità.

  4. Ho letto l’articolo L’eroina di Stato e la generazione perduta. Ho pure letto l’intervista alla giovane Alessandra Prato.
    E, come tante altre volte in vita mia, mi sono domandato: perché al mondo esistono destini differenti in modo cosí crudele e insensato?
     
    Mirko, dimmi: tu hai scoperto il perché?
    Hai scoperto il senso?
     

  5. Mah… non vorrei fare la figura dello sborone ( 🙂 ), ma a me sembra di aver capito tutto.
    Applaudo e non aggiungo altro.

  6. Spettacolare.
    Forse per apprezzarlo a pieno bisognerebbe essere un pò bulgnais e dotati di autoironia.
    Anche aver respirato l’aria (chiamiamola così 🙂 ) del DAMS degli anni ’70 potrebbe aiutare.
     
    P.S.
    Gli “scritti di Lorenzo” sono delle tomelle, questo è di un’altra 🙂

  7. Che qualcuno provi ancora a scrivere che gli scritti di Lorenzo sono inafferrabili!

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