Enrico Camanni parla del suo libro (CAI Edizioni). Quindici ritratti intimi, fra grandi campioni e amici di famiglia: il giornalista torinese racconta anche di sé, di quando rischiò di essere travolto dall’adrenalina per il verticale. Ai giovani dice: “Seguite il vostro cuore, come i ragazzi dell’Eagle Team”.
Mal di Montagna
(quindici storie di passione)
di Pamela Lainati
(pubblicato su loscarpone.cai.it il 30 marzo 2025)
Ci fu un tempo in cui anche Enrico Camanni cedette al fascino dell’estetica dell’alpinista duro e puro, orgoglioso di mostrare il guizzo dei polpacci e di bastare a se stesso con i pochi compagni di corda, nessuna femmina intorno, solo la morte da sfidare, talmente preso dalla sua passione per il verticale da non mancare una domenica in parete. Lo si scopre leggendo l’unico libro in cui ha raccontato (anche) di sé: Mal di montagna. Quindici ritratti di passione (pp. 144, 16 euro, CAI Edizioni 2025 – disponibile in tutte le librerie e su CAI Store con gli sconti dedicati a soci e sezioni).
Un libro umano, capace con poche parole di restituire la persona oltre il mito, e qui ce ne sono tanti: da Patrick Berhault a Jean-Marc Boivin, da Gian Piero Motti a Gian Carlo Grassi, da Renato Casarotto a Gianni Comino, fino a Gervasutti, Comici e Videsott. Molti gravitanti sulle Alpi occidentali care ai piemontesi (e come potrebbe non essere, considerando la “torinesità” dell’autore), pezzi di storia dell’alpinismo mondiale, tutti con un loro approccio alla montagna, spesso visionario e pionieristico. Ma ci sono anche nomi meno noti, amici veri, iniziatori silenziosi, come Ezio Mentigazzi, o Ferdinando Massara.
Tutti accomunati da una passione bruciante come una febbre e in qualche modo legati a Camanni, o perché amici, o perché conosciuti grazie al lavoro di giornalista, o ancora perché figure iconiche di inizio Novecento, eppure vicine.
Enrico Camanni, quando è nata la tua di passione?
Mi sono innamorato della montagna da bambino, a 7 anni ho fatto il mio primo Quattromila, il Breithorn, il mio era un amore inspiegabile per le montagne più alte. Ero attratto da quelle cime che si stagliavano nel cielo e dai personaggi che ci gravitavano intorno. Un’attrazione estetica innanzitutto, che a volte si scontrava con la delusione di constatare che alla fine era solo roccia. Mi piaceva anche la dimensione selvatica, era ancora possibile incontrare la civiltà montanara, che non aveva niente a che vedere con la mia vita borghese di città: non ne ho mai fatto un mito, ma mi ha sempre affascinato. A 14 anni ho avuto la fortuna di fare un incontro che ha cambiato la mia vita.
Luigi Carrel, il mitico Carrellino, la più grande Guida del Cervino.
Sì. Frequentavo la Valtournenche con la mia famiglia, e mi sono ritrovato ad andare allo Château des Dames con Carrellino: era un grande, fu una giornata bellissima in cui capii l’uomo oltre il mito. Aveva 70 anni, io 14, eppure saliva con naturalezza, senza forzature, lui che aveva scalato tutto lo scalabile, era lì con noi. Ho sempre rimpianto poi quell’innocenza.
Come si perde l’innocenza, nell’alpinismo?
Quando a 18 anni ero entrato nel giro, come si dice, da un lato si alzava il livello tecnico, ma dall’altro subentrava l’ossessione. E io questo l’ho sempre percepito come una graduale perdita di innocenza. È una sensazione che provo anche oggi che ho superato il problema e ho scoperto molto altro della montagna grazie al mio lavoro, ma mi è rimasta dentro.
Come ha influito il lavoro di giornalista sul tuo essere alpinista?
È stato utile per rendere più umana la montagna, per “mettere i piedi per terra” e scoprire una dimensione più collettiva, evitando la deriva che stavo prendendo.
Eri proprio un alpinista duro e puro, come racconti?
Pur essendo nella seconda metà degli anni ’70, non era ancora avvenuta la trasformazione dell’alpinismo come sport, quando tutto si è poi sdoganato. C’erano ancora pochissime donne, si mettevano i pantaloni alla zuava per mostrare i polpacci e la corda a tracolla, vezzi per atteggiarci da alpinisti, per sentirci un po’ speciali. Oggi fa ridere, la corda la nascondo sempre nello zaino, ma allora era così.
Fra gli amici citi Ezio Mentigazzi e Ferdinando Dado Massara.
Ezio aveva 15 anni più di me, era lento e fumava troppe sigarette, ma aveva una passione inarrestabile per la montagna, e anche una macchina, che non guastava. Era molto modesto e mai competitivo, e per quello ci trovavamo bene nonostante la differenza di età. Gli volevo un gran bene, poi un giorno nel ’95 è andato a fare una gita solitaria in Val Sermenza per scrivere una guida ed è sparito, lo abbiamo cercato in tanti alla SUCAI di Torino di cui facevamo parte, senza trovarlo. Dado Massara era un collega medico di mio padre, in montagna andavo con lui, perché mio papà non faceva alpinismo. È morto abbastanza giovane, è stata una grande perdita per me.
Come sei entrato nella SUCAI di Torino?
È stato mio zio Luigi De Matteis a suggerirmi di andare con loro, perché ero piccolo e non guidavo, ma fremevo. Con loro ho iniziato a fare scialpinismo, io volevo scalare, però andava bene così, perché se no d’inverno in montagna come ci andavi? Non era caldo come oggi, bisognava aspettare la primavera avanzata per mettere le mani sulla roccia. Sono rimasto per 10 anni, ho fatto anche il direttore, è un’esperienza che ricordo con piacere, anche se non parteciperei più a escursioni da 100 persone (in realtà erano anche 200, Nota di Carlo Crovella) e 4 pullman. Ma voleva dire mettersi a disposizione del più debole, perché dovevano salire tutti. Lì ho conosciuto un sacco di gente con cui poi sono andato a scalare, fra cui Andrea Giorda che è stato mio compagno di cordata per anni, siamo diventati insieme istruttori della Gervasutti (mitica scuola di arrampicata torinese intitolata al Fortissimo, fondata fra gli altri da Giorgio Rosenkrantz, che perse la vita sul Monte Api nel ’54, NdR).
Invece, fra i grandi alpinisti che racconti, a quale ti senti più vicino?
Patrick Berhault. Eravamo coetanei. Ci siamo visti spesso a Torino o in giro, ma non è mai capitato di andare insieme in montagna. Era estremamente amichevole, bastava approfondire di poco la conoscenza e lui si ricordava di te, trattandoti da amico vero. L’ho sempre sentito vicino, tranne quando è morto: accidenti, Patrick, ma a 50 anni, dopo tutto quello che avevi realizzato, dovevi proprio andare a fare tutti i 4000 d’inverno, non potevi darti una calmata? L’ho pensato come se fosse stato mio fratello. (Berhault morì sul Mischabel tentando il concatenamento degli 82 Quattromila, nel 2004, NdR).
Scrivi di Boivin: “Mi apparve improvvisamente prigioniero della propria scelta estrema, un eroe post-moderno incamminato su una strada senza ritorno”. Dice di quando la passione diventa ossessione.
Incontrai Boivin per caso, salendo con mia moglie sul Bianco da Chamonix sulla funivia del Brévant, di ritorno da Parigi. Era una sera magnifica. Lo vidi salire con il suo parapendio e pensavo che fosse lì per insegnare, invece era per la sua dose di adrenalina. Ci conoscevamo già, mi disse “Qui è la follia”, perché il cielo era pieno di altri parapendii, mi salutò in fretta, corse per un prato gonfiando la vela e si lanciò nel vuoto anche un po’ malamente. Dopo tutto quello che aveva fatto, aveva ancora bisogno della dose. Perché questo diventa, una dose di cui non si fa a meno. Mi ha colpito molto allora sul Bianco, meno quando morì dal Salto Angel per uno spot pubblicitario, perché avevo capito che era entrato in un loop di euforia a tutti i costi.
Tu come sei rimasto immune?
Non sono rimasto affatto immune. A un certo punto mi sono sentito drogato anche io, ogni domenica cercavo la mia dose, ma riuscii a capirlo in tempo. Non volevo entrare in quel loop. La mente te lo dice a un certo punto, mi erano tornate le vertigini che avevo da bambino.
Soffrivi di vertigini?
Sì. Ricordo a 11-12 anni che una volta mio padre mi accompagnò al Grand Tournalin, dopo che gli avevo rotto tantissimo per andarci, ma iniziai ad avere le vertigini, ero terrorizzato dal vuoto e non gli restò che portarmi giù. Mi sono sentito un idiota, perché volevo andare ma non ci riuscivo.
Poi sono passate?
Le vertigini le ho superate, probabilmente perché ci tenevo troppo a scalare, ma quando subentrava quasi l’obbligo ad andare e a fare sempre di più mi tornavano e mi sentivo insicuro, perché era come se la testa dicesse “stai esagerando, non sei più tu a volerlo”.
Come ne sei uscito?
Verso i 24 anni, dopo 10 anni di montagna intensiva, avevo le vertigini fisse e qualcosa mi ha detto che dovevo cambiare. È iniziato un lunghissimo processo durato quasi 20 anni in cui ho scoperto tante altre montagne, ho fatto torrentismo, perfino surf, e finalmente stavo bene perché queste cose non mi provocavano angoscia e sono uscito da quel mood. Un intermezzo dove ovviamente è subentrata anche la famiglia, mi sono sposato, ho avuto figli.
Quando hai ripreso a scalare?
Ho ripreso con serenità verso i 40 anni, come faccio adesso, andando in posti tranquilli. Non ho più quell’ossessione, non è mai più tornata come la provavo a 25 anni, quando mi sono accorto anche che mi stava togliendo molte altre opportunità, fino a stravolgere i rapporti umani, perché mi costringeva a fare sempre il duro. La crisi netta che ho provato, quasi un esaurimento nervoso, è stata salutare alla fine, perché mi ha salvato, mi ha fatto scoprire molti altri significati in montagna.
Cos’hai trovato oltre la montagna adrenalinica?
Anche grazie al mio lavoro e alle relazioni che ho costruito, mi sono interessato non solo della montagna scalata, ma anche di chi vive in montagna. Sono passato dall’alpinismo alle Alpi e ho aperto molti orizzonti.
Fra i 15 ritratti si distingue quello di Alexander Langer, di cui ricorrono quest’anno i 30 anni dalla morte.
Ho incrociato Langer un paio di volte. Una sul Monte Bianco nel 1989, per la giornata organizzata da Mountain Wilderness per la creazione di un Parco Internazionale del Monte Bianco (non ancora realizzato, come precisa Camanni nel libro, NdR). Aveva bisogno di essere accompagnato, noi alpinisti facevamo un po’ i duri, c’era la nebbia, invece lui fu così umile, che alla fine diventò tutto bello: eravamo in mezzo alla Vallée Blanche ed era come se fosse cresciuto in mezzo a noi, tanto che alla fine eravamo noi a seguire lui. Era così, timido e carismatico.
Langer non era un alpinista, ma ci ricorda quanto in montagna sia importante legare la frequentazione al rispetto dell’ambiente.
Pur essendo negli anni ’80, in effetti l’alpinista si concepiva ancora come una categoria a parte. Oggi tutti parlano di ambiente e gesti come quelli di Mountain Wilderness sembrano quasi normali, ma sacrificare una giornata di arrampicata allora era una scelta forte.
A un ragazzo che comincia oggi cosa consiglieresti?
Vedo i ragazzi dell’Eagle Team e mi sembrano uguali a noi un tempo. La passione non invecchia, i loro occhi brillano come i nostri, anzi, forse in una società come quella attuale sono molto più rivoluzionari loro. Consiglierei di seguire il proprio cuore, l’istinto, e di non farsi mai condizionare, mantenendo intatta la passione. Trovo bellissimo che oggi ci siano anche così tante ragazze: la passione annulla le differenze.
Il commento
di Carlo Crovella
Sono molto contento che venga riproposto questo bellissimo libro di Enrico Camanni: ne posseggo gelosamente la prima edizione (2005), che ho letto e riletto fino quasi a consumare le pagine. Il tema mi “prende” assai, ma con un taglio molto particolare: a me piace interpretare il titolo di tale libro come indicatore del difficile equilibrio fra “passione intensa, ma ancora sana” e “passione morbosa che sconfina nell’ossessione patologica”.
Non necessariamente il mio pensiero coincide perfettamente con lo spunto basilare dell’autore: anzi, la verifica o meno di ciò può esser un motivo in più per leggere (o rileggere) questo intrigante testo di Enrico.
Ma io la penso così, cioè che basta un attimo che l’andar in montagna passi da un sano “driver” di vita a diventare un “male”, cioè un qualcosa di malsano, come una droga, di cui si necessita la “dose” periodica.
Io sono profondamente convinto che la montagna sia una cosa bella che arricchisce la propria esistenza, ma deve esser tenuta sempre a bada, con tanto di museruola e guinzaglio, altrimenti se ne diventa schiavi. Il rischio è che si instauri una dipendenza negativa che poi invade tutto il resto dell’esistenza. Mi viene da concludere che vale anche per la passione verso la montagna quanto suggeriva Seneca, il quale (qui banalizzo per semplificare il discorso) sosteneva che se domini una passione ne trai beneficio, ma se ne vieni dominato essa ti conduce alla rovina.
Il discorso non riguarda solo gli alpinisti al top o i professionisti che hanno compiuto la scelta di vivere di montagna.
Anzi, il rischio più subdolo si annida fra le pieghe di vita degli alpinisti/arrampicatori/scialpinisti amatoriali, i quali, nella passione incontrollata della domenica, tendono a ricercare la compensazione delle loro frustrazioni personali. Non è facile, quindi, camminare in equilibrio su quel filo di cresta, che è più affilato del tagliente dei Lyskamm, la celebre “Mangiatrice di uomini”.
Io mi considero fortunato perché mi è capitato abbastanza presto che gli impegni oggettivi e le inevitabili responsabilità (nonché gli interessi alternativi e le soddisfazioni in altri campi) mi abbiano allontanato da tale rischio: l’andar in montagna, con tutti i suoi corollari (leggere, scrivere, meditarci su, parlarne con gli amici, consultare guide e cartine, elaborare progetti e programmi, andare a mettere il naso in quel vallone, ecc.) è un innegabile motore della mia intera esistenza, ma è sempre stato ampiamente sotto controllo. Beneficio del suo sostengo esistenziale, ma non mi è mai capitato di venir sopraffatto dall’irrefrenabile frenesia.
Per questo motivo difficilmente mi capiterà di venir indicato come esempio di trascinante passione per la montagna, né entrerò mai in un elenco di “malati di montagna”, ma sono profondamente convinto, e di conseguenza così insegno agli altri, che il vero valore esistenziale della montagna sia quello della prudenza e del controllo, esasperati fino alla rinuncia. Vale per una singola uscita e vale come approccio generale.
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Quando ti prende la passione é passione : ti brucia dentro , ti trasforma ! Non sarai più quello di prima poiché certe sensazioni , certe avventure lasciano un segno indelebile . L’Alpinismo diventa uno stile di vita , una filosofia che ti influenza profondamente . Avere sinceri affetti e un lavoro che ami ( entrambi implicano responsabilità verso gli altri ) ti aiutano restare con piedi ben piantati nella realtà della vita .
Non è il caso di andare al mare o di disturbare Dio , Patria e …… Continuiamo pure ad andare in montagna con sana passione .
Per meditare sulla questione trovo calzante un bel pezzo di Ugo Manera : “Settimogradisti parassiti sociali ?”pubblicato su Gognablog .
Passione “sana” non è un semplice passatempo. E’ una vera passione, che ti accompagna per tutta la vita, ma che ti “dà” senza condizionarti. La passione per la montagna è tendenzialmente sana, ma basta poco per passare nella parte malata, perché il confine interno spesso è molto labile. Non dipende dalla passione in sé, ma dagli individui e del loro modo di vivere, D’altra parte, se si prende l’elenco dei 15 ritratti contenuti nel libro, si individuano a colpo d’occhio i personaggi caratterizzati da una passione sana e quelli affetti da una passione malata. Non c’entra nulla che salite si sono fatte né se si è morti in montagna o meno.
.Penso che sia importante avere un lavoro che ci piaccia e ci dia soddisfazione , avere famiglia , figli e amici , interessi vari . Es Penso che sia importante avere un lavoro che ci piaccia e ci dia soddisfazione , avere famiglia , figli e amici , interessi vari . Essere poliedrici ed in pace con il mondo e possibilmente con una donna al fianco che ci capisca.
Che infilata di stereotipi!
Mettiamoci pure dio, patria e famiglia e …..andiamo al mare
Ragazzi, devo farvi una confessione. Tutte le volte che mi imbatto nelle parole di Roberto Bianco il cuore ha un sussulto.
Mi ricordo di quando lessi dell’epica scalata sulla parete N della Dent Blanche, e altre storie ancora. Conservo religiosamente quei numeri della Rivista del CAI.
Con lui la mente per pochi istanti ritorna agli anni Settanta e alla prima metà degli Ottanta.
Caro Roberto, grazie!
Non bisogna cercare nella Montagna compensazioni a nostre eventuali frustrazioni .Penso che sia importante avere un lavoro che ci piaccia e ci dia soddisfazione , avere famiglia , figli e amici , interessi vari . Essere poliedrici ed in pace con il mondo e possibilmente con una donna al fianco che ci capisca. Allora difficilmente verremo colpiti dal Mal di Montagna , come giustamente asserito da Cominetti.
“[…] solo l’attrazione estetica può salvare gli esseri umani dalla degenerazione agonistica dello sport e permette di ritrovare nella montagna un luogo dello spirito. L’appello ai sentimenti diventa sempre più necessario per dare un senso all’esistenza e contrastare il vuoto del materialismo consumistico che soffoca la società odierna.”
Dopo “Cosí parlò Zarathustra”, ecco a voi “Cosí parlò Telleschi”.
P.S. Sto scherzando… ma dico anche sul serio!
Avete presente le cose che possono andar perdute per sempre durante un trasloco o simile , sposti tutti gli oggetti e cose accumulate da una vita ed inevitabilmente tra queste qualcosa si rompe o inspiegabilmente non la trovi piu da nessuna parte . Gli scritti di Camanni hanno la magia e la raffinatezza di farti ripescare nella memoria attimi di vita e pensieri che credevi persi.
“Se non dovessi tornare ” e questa carrellata di grandi nomi di ” Mal di Montagna “offrono una capacità di scrivere che omaggia l’ occhio e la mente.
La sensibilità che trapela ,assieme alla ricerca danno un insieme che fa riemergere ogni istante condiviso in montagna!
Si trasloca più volentieri con E.Camanni!
Escondo me si può andare in montagna una vita senza esserne dipendenti.
Ma neppure per passatempo.
Fa bene Camanni a ricordare l’innocenza dei vecchi alpinisti innamorati della montagna: solo l’attrazione estetica può salvare gli esseri umani dalla degenerazione agonistica dello sport e permette di ritrovare nella montagna un luogo dello spirito. L’appello ai sentimenti diventa sempre più necessario per dare un senso all’esistenza e contrastare il vuoto del materialismo consumistico che soffoca la società odierna.