Manolo secondo Gobetti – 2 (2-2)
(I gesti in un sacchetto)
di Andrea Gobetti
(pubblicato su Rivista della Montagna n. 112, ottobre 1989)
Lettura: spessore-weight**, impegno-effort**, disimpegno-entertainment**
Sarà la plastica a mettere fine all’età della pietra? La roccia non si adatta ai voleri del signore uomo. Taglia le mani e si sbriciola. La plastica, invece, è adorabile per come si piega a tutte le esigenze del suo inventore. Per avere un’arrampicata ancora più libera, occorre liberarla dal mondo imperfetto, dalla natura miope e infida della roccia. Se gli atleti corrono sul tartan e gli artisti usano fibre di carbonio (mica di bambù), che senso ha continuare a corteggiare calcare, grès e granito che, ignoranti come sono, continueranno sempre a far crescere troppi o troppo pochi appigli per una buona performance? Adattare, limare, chiudere appigli e appoggi? Mezzucci da poveracci. È ora di cambiare il letto agli ortaggi, di pensare alla grande, in plastica. Di entrare nel fluido mondo del polimero malleabile. Così i ricchi si faranno fare falesie in plastica massiccia, mentre i poveri dovranno accontentarsi di foderare in plastica a buon mercato le inutili rocce di una volta.
Manolo, potremmo fare uno spettacolo.
«Uno spettacolo, o un film. Un film su qualcuno che lavora e arrampica, per mostrare le due diverse personalità: quella che deve fare e quella che vorrebbe fare, quella che fa per poter fare e quella che è costretta a fare».
Manolo su Terminatore (8a). Foto: V. Bellotto
Negli ultimi tempi, io mi sono divertito di più a lavorare che ad arrampicare. Mi piacerebbe sistemare un’impalcatura da lavoro perpendicolarmente a una parete, e in quell’angolo dar vita a uno spettacolo sull’arrampicata e su quei lavori di aristocrazia del vuoto che sono soliti fare i climber non sponsorizzati. È una tradizione lunghissima, che si perde negli anni: una volta i patiti della roccia facevano gli spazzacamini, oggi per campare c’è chi lavora come disgaggiatore, chi monta palchi, chi lava vetri. E poi ci sono gli installatori di antenne, i verniciatori di ponti… L’immagine del tizio che svolge un lavoro dal rischio calcolato, un lavoro ben pagato, e poi arrampica, sta ritornando di moda. Chi fa così oggi sembra addirittura un privilegiato: non è affetto da stress di sponsorizzazione, è in grado di mangiare e digerire il cibo nella stessa quantità di tutti i cristiani in buona salute.
«Nello spettacolo si potrebbero mettere in evidenza due casi. Perché c’è chi lavora tutto il giorno e la sera, come piccolo premio, riesce ad andare ad arrampicare, e chi arrampica sempre. Il secondo fa solo quello, e così le cose non hanno molto senso. Chi lavora non riuscirà ad arrampicare come e quando vuole, ma almeno può dedicare una sensibilità maggiore ad altre cose… Sì, chi sta sull’impalcatura, chi lavora sulla verticale, nel vuoto, ha tutto un altro modo di vedere, di capire, di comportarsi rispetto a chi non fa nient’altro che arrampicare… Da parte mia credo di essere sensibile a troppe cose, non riesco a pensare solo all’arrampicata. Sono coinvolto da tutto ciò che succede nel mondo, da chi mi sta intorno. Se al mondo sei solo, inutile, cosa sei? Mi piacerebbe trovare un modo per dirlo, per intrecciare le due cose. Occorre far vedere che anche nel nostro ambiente, nella testa di qualcuno, ci sono valori che contano. Anche se il nostro mondo è inutile… Ma per te, qual è l’inutile più utile? lo credo che, se l’utile ti serve per vivere, l’inutile ti serve per non diventare come quelli che non riescono neanche ad andare in ferie, che non sanno cosa fare senza lavoro, che muoiono appena ottenuta la pensione».
Ci guardiamo soddisfatti delle nostre idee, contenti di esserci incontrati ancora una volta, perché ormai ci si vede assai di rado. Manolo sta lavorando, sta mettendo a punto alcune vie con gli appigli di plastica su un muro artificiale (serviranno per la gara di Plastic Rock), e io sono di ritorno dal montaggio di un palco da concerto con qualche idea nuova per la testa.
Siamo a Trento, in tempo di Filmfestival, e c’è acqua tanto nelle pozzanghere quanto nelle nuvole che stazionano sulla nostra testa. Al festival si parla di montagna, di spettacolo, di lavoro. Ma in un modo che mi lascia indifferente. A lavorare sono solo e sempre i vecchi: i protagonisti sono, al solito, vecchi pastori e artigiani con addosso una patina manierata di civiltà alpina che li allontana come marziani da un giovane disgaggiatore. I giovani, per essere altrettanto benemeriti alle giurie internazionali, devono mettersi un pantacollant e tirare come disperati sull’appiglio più piccolo del mondo. Tra il lavoro di ieri e quello di oggi, nebbia, nebbia in Val Padana. Per i signori della celluloide i lavori in altezza non esistono (a meno che non ci siano cinesini e bambù come nel film di Isabelle Patissier).
Manolo su La Gatta (7b). Foto: N. Simion
Manolo ha in mano un appiglio e una chiave inglese per stringere i bulloni, e mi ricorda degli anni in cui buttavamo giù pietroni e alberi e calavamo le reti di acciaio in Calabria, in gloria alla sicurezza stradale. Eravamo con Bobo, el Kiss, l’Aminta, Diego e Pierino: troppi nomi per un fegato solo. Tutti avevano capito che piaceva bere, a noi del Nord. Che dicevamo: «buono!» a dei bicchieri che sapevano di zolfo come se ci avesse brindato Satana, che non sapevamo dir di no alle vecchiette che ci avvicinavano col mezzo litro e i due bicchieri riparati dal panno bianco e che ci dicevano: «Butta nel mio campo quel bell’albero che ora tagli. Buttalo a me che ce n’hai tanti da tagliare…».
«Immagina» mi dice Manolo, «immagina quante cose potremmo mettere dentro in uno spettacolo così, infilandoci cos’abbiamo in testa tu, io, Patrick Berhault, altri… Pensa: tutto in una stessa scena continua, passando da una parte all’altra, da un’impalcatura a un appiglio, per entrare nelle varie personalità. Chi arrampica scarica tutto ciò che ha dentro, esprime la sua gestualità in mille cose; chi lavora non può, è represso, deve avvitare bulloni tutto il giorno. Però può creare lo stesso, e può farlo là dove l’arrampicatore a tempo pieno non arriva perché è costretto a tante cose che lo coinvolgono troppo e non si rende conto che sta marciando su un binario unico. Ma poi, in fondo, non è detto. Se il climber si accorge dei suoi limiti, può cambiare, non credi?».
Una volta in più le storie si intrecciano…
«lo vedrei sullo sfondo la parete verticale e strapiombante, perché è proprio di lì che partono la nostra ricerca, i nostri discorsi. E poi, passando dalla parete alle impalcature, ecco il movimento della vita (e non è detto che passi solo attraverso l’arrampicata o l’avvitar bulloni)».
Vorremmo continuare, ma Manolo deve correre: sono tre giorni che si alza alle 6 del mattino e rientra sfinito, a tarda sera, per terminare le vie di Plastic Rock. È alla sua prima esperienza del genere, e domani ci sarà la gara.
Arrivo mentre Jolly Lamberti si esibisce in una splendida interpretazione dei gesti inventati da Manolo, portandosi alla fine della prima via e al passo più difficile della seconda. Ma è l’unico ad arrivare così lontano. Altri arrampicatori non riescono neppure ad alzarsi. Manolo è preoccupato per il successo della sua creazione. «Sono sfato troppo cattivo?», si domanda.
Ma che razza di esperienza è stata, per Manolo, la creazione di un muro di quel tipo?
«Positiva, senz’altro. Anche se quello è un mondo di plastica, hai la possibilità di inventare dei bei movimenti. D’altra parte io sono sempre stato un fautore delle strutture artificiali. Le ho usate moltissimo, e da tanto tempo: le porte, i ponti, i balconi, i muri, gli appigli di casa e quelli di città. Certo che è strano, interessante, divertente, specie se hai più giorni di tempo. L’altra sera, quando ho finito di preparare le vie, le ho portate in albergo con me, talmente ci tenevo. C’era da ridere: partendo con un sacchetto della magnesite, ero arrivato a portarmi due sacchi di appigli; in quei contenitori di plastica ci stavano dentro tutti i gesti che vediamo adesso».
Plastic Rock è una gara senza corda, con grandi materassi a terra per accogliere chi cade. Le vie, molto strapiombanti, sono lunghe una decina di metri e arrivano a un’altezza di sei. La novità di arrampicare senza corda dà sicuramente un bell’effetto spettacolare alla manifestazione. Se mai, il problema per i concorrenti sta nella difficoltà di alzarsi e dar spettacolo.
«Il problema» dice Manolo, «è che questa è una gara con difficoltà di livello internazionale, non nazionale. C’è gente che va fortissimo: hai visto Gnerro? Due tentativi e si è mangiato la via. Gente così è difficilissima da selezionare. Se fai le cose un po’ facili arrivano su tutti. E poi qui non c’è il fattore resistenza, che gioca un ruolo determinante sulle vie da 20 metri e più. Qui tutto è lasciato alla difficoltà pura. Ho dovuto creare passaggi del tipo “o sì o no”, da boulder, anche se le dimensioni delle vie sono a metà tra il masso e la falesia. Il bouldering è una specialità a sé. Corrisponde ai 100 metri nella corsa: occorre tantissima potenza di scatto e, senza dubbio, i climber più leggeri sono molto avvantaggiati perché devono fare i conti con un passaggio violento».
Antoine Le Menestrel, uno dei più famosi “disegnatori” francesi di vie, è temuto dai concorrenti più per le trappole che infila nelle sue vie che non per la forza necessaria a superare i passaggi. Hai messo anche tu delle trappole?
«Certo, qualcuna, una sola per via. Poi ho fatto il bravo. Cos’è una trappola? Un passaggio su cui puoi avere tutta la forza del mondo e non riesci lo stesso a passare: un movimento che devi intuire, capire. Che ti invita ad afferrare l’appiglio col destro in un certo modo e, quando capisci che invece dovevi muoverti col sinistro, è troppo tardi e cadi di sotto».
È un’idea che gli piace, quella che ha appena realizzato. Nelle mani di Manolo un muro con gli appigli di plastica diventa davvero una palestra di intelligenza motoria. È un modo di insegnare ai più giovani come talvolta l’apparenza inganni, un modo di prepararli all’avventura delle prese impossibili. Ma chissà se a Manolo piacerebbe insegnare ad arrampicare, insegnare intelligenza motoria?
«Sì, certo che mi piacerebbe, ma prima dovrei staccare del tutto con l’ambiente dell’arrampicata. A Ferentillo, dove abbiamo fatto i corsi per maestri d’arrampicata, ho visto che avevo ancora una gamba di qua e un’altra di là».
E quale sarebbe la gamba di qua?
«Quella che è ancora competitiva con l’ambiente, dei climber, che sente e reagisce alle punzecchiature e a tutto il resto. Invece per dedicarsi all’insegnamento occorre essere mentalmente distaccati da tutto il resto, non dover dare dimostrazioni vincenti a tutti i costi. La gamba di cui parlo è quella che tutti guardano. Ma non per vedere cosa inventa: la osservano per vedere se cade di sotto o no. Non si può insegnare così. Devi semplicemente esprimere in gesti la tua teoria, allora l’insegnamento diventa positivo. Altrimenti quest’ultimo può essere solo superficiale perché una certa parte di te frena quella che insegna».
Forse potresti insegnare ai bambini, ai giovanissimi…
«Sarebbe bellissimo. A un bambino si può cominciare a insegnare prestissimo. L’evoluzione graduale farà il resto. Il procedere per tappe è un fattore di importanza fondamentale. I guai che si sono visti negli ultimi anni sono capitati perché siamo arrivati troppo in fretta agli appigli piccolissimi, talmente piccoli da spaccarsi le mani per prenderli. È stato un disastro».
Ma che fine ha fatto l’appiglio più piccolo del mondo?
«Non lo so. Ora cerco il più bello. Ma questo non è il posto giusto. Preparare le vie di plastica è l’aspetto che mi diverte di più, l’unico attraverso il quale posso avere a che fare con la competizione. Forse qualcuno troverà qui il suo appiglio più bello, io no. Penso che sia stato costruito dalla natura senza aspettare che qualcuno lo fabbrichi. È un appiglio da scoprire, non da inventare, lo vorrei continuare a fare ciò che ho fatto in falesia, in palestra, e trasportare quei gesti in montagna. Lassù ho ancora voglia, ho ancora motivazioni, per me la montagna è ancora determinante».
E la gente?
«A quella sono impermeabile. Cosa vuoi che risponda: mi chiedono perché non faccio le gare; nessuno si chiede cosa ho visto, dove, con chi, in tanti anni…».
E alle Olimpiadi?
Manolo scoppia a ridere. Ma questa non è una domanda, è la frase chiave per innescare un nostro ricordo privato, di quando si lavorava insieme alla Rocca di Papasidero e lui chiedeva al Bob: «La vuoi una sigaretta?». «No, ho appena fumato». «Ma ti mandano alle Olimpiadi? No? E allora fuma». Era l’80, si correva a Mosca, e noi non avremmo mai immaginato quanto presto lo sport avrebbe messo le grinfie sul nostro piccolo universo, fuori dal mondo.
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