Marc-André Leclerc

Era il miglior alpinista della sua generazione (1992), un canadese tranquillo e modesto che ha fatto scalate esageratamente futuriste. A 25 anni, si recò in Alaska per unirsi all’alpinista Ryan Johnson in una prima salita fuori Juneau. Non fecero mai ritorno e una frenetica ricerca durata nove giorni lasciò più domande che risposte.

“Quando arrampico è difficile spiegare quale sia l’ingrediente magico… è quasi come se fosse una specie di innocenza e curiosità nell’ispirazione per l’avventura, che determina uno stato mentale aperto e ricettivo. È terribilmente difficile da spiegare. Un po‘ come è difficile ricordare l’esatta sensazione di essere un bambino che scopre qualcosa di meraviglioso e nuovo, perché è una sensazione troppo lontana dal nostro stato mentale “adulto” per coglierla davvero in modo tangibile (Marc-André Leclerc)”.

Gli ultimi giorni di Marc-André Leclerc
di Matt Skenazy 
(pubblicato su outsideonline.com il 19 giugno 2018)

Nell’estate del 2016, stavo facendo ricerche sulla parete nord-ovest del Devil’s Thumb, una famigerata cima nel sud-est dell’Alaska, raccontata in Eiger Dreams di Jon Krakauer. Da giovane scrittore, Krakauer aveva scalato la cresta est, ma, come ho presto scoperto, nessuno era mai salito lungo la parete nord-ovest di 2000 metri. Era una delle ultime grandi mete dell’alpinismo. Nel 2003, Guy Edwards e John Millar, due alpinisti canadesi di alto livello, erano scomparsi su quella parete durante una settimana di maltempo e frequenti valanghe. Dopo sei giorni di ricerche, la polizia di stato dell’Alaska aveva rinunciato alle ricerche. Da allora, nessuno aveva più tentato la via.

Marc-André Leclerc in dry-tooling free solo

Ho chiamato Colin Haley, un alpinista di Seattle che ha scalato a lungo in Alaska, per chiedergli se conoscesse qualcuno che stesse pensando di tentare la scalata di quell’enorme e pericolosa parete. Non ne sapeva niente, ma mi ha detto che se cercavo una storia, avrei dovuto dare un’occhiata a un giovane della Columbia Britannica di nome Marc-André Leclerc. “È uno dei migliori scalatori a tutto tondo che conosca”, mi ha detto Haley.

Ho chiamato Leclerc. Al telefono, il ventitreenne era pacato e articolato, e rideva di se stesso quando si lasciava andare a canadesismi come “eh”. Spiegò di essersi appassionato all’arrampicata dopo aver letto un libro che sua madre gli aveva regalato quando aveva otto anni, di come avesse imparato in una palestra vicino a Vancouver, ma di come fosse sempre stato più interessato alle grandi montagne. “Ho detto agli adulti che volevo andare sull’Himalaya“, ha raccontato, “e mi hanno risposto che era troppo pericoloso. In Nord America, la gente ama spingersi oltre la difficoltà dell’arrampicata senza correre il rischio. Il rischio dell’andare in montagna non è tanto di moda“.

Due giorni dopo la nostra conversazione, Leclerc partì per la Patagonia. Nei mesi successivi, ci siamo sentiti a intermittenza via e-mail e abbiamo programmato di incontrarci a dicembre. Alla fine, ho scoperto che Guy Edwards, che si era fatto le ossa scalando nelle zone di Leclerc prima di scomparire in Alaska, era uno degli eroi del giovane canadese. Quello che non potevo immaginare era che di lì a poco, su una vetta non lontana da quella che aveva portato via la vita a Edwards, Leclerc avrebbe subito un destino simile.

Come molte coppie ventenni, Leclerc e la sua ragazza, Brette Harrington, avevano difficoltà a separarsi. Ma la mattina di sabato 3 marzo 2018, si è rivelato più facile del solito. La settimana prima, la coppia aveva effettuato la prima salita di una cima chiamata Station D, a 67 chilometri da casa loro ad Agassiz, nel sud-ovest della Columbia Britannica. Le temperature erano scese a meno quattro gradi e Leclerc aveva lasciato che la Harrington, una minuta bionda con brillanti occhi azzurri e nervi d’acciaio, tirasse ogni tiro per stare al caldo. Di notte le scaldava i piedi sulla pancia. Però, al ritorno dalla scalata dopo ben quattro fredde giornate in montagna, Brette era decisa di andare dove il clima potesse essere più mite. Si era diretta in Tasmania per arrampicare sull’isola per due settimane, con amici.

Leclerc aveva diverse opzioni per passare il tempo mentre lei era via. Aveva pensato di scalare in solitaria il Mount Waddington, con i suoi 4090 metri la vetta più alta delle Montagne Costiere canadesi, ma le condizioni non erano delle migliori. Il meteo intorno a Juneau, però, prometteva bene. E si ricordò di un invito ricevuto qualche mese prima da uno scalatore trentaquattrenne di nome Ryan Johnson.

Johnson, originario di Juneau (Nanaimo, 10 ottobre 1992), era un vero scalatore dell’Alaska. Affermava di riuscire a percepire la differenza tra venti a 130 e 160 chilometri orari. Una volta si descrisse come qualcuno con “bicipiti come quelli di un membro di un gruppo di dibattito di seconda media e polpacci tipo balle del toro” ma, come minatore d’oro e d’argento nel sud-est dell’Alaska, si era guadagnato la reputazione di un piccolo che sapeva fare più fatica dei grandi.

Johnson era ossessionato dalla parete nord della Main Mendenhall Tower da anni. Questo massiccio granitico di sette cime si trova a 16 chilometri a nord di Juneau. Nel corso degli anni, Johnson aveva tracciato innumerevoli vie su tutte le torri. Ma la linea più imponente e ovvia era l’inviolata parete nord di 765 metri. L’aveva tentata una volta, nel 2015, ma era tornato indietro quando il ghiaccio a metà salita era troppo sottile. La via, spiegò Johnson quando contattò Leclerc per una scalata insieme, non era tecnicamente difficile, ma era estremamente difficile proteggersi da una caduta: anche una piccola scivolata poteva essere fatale. Il granito sarebbe stato molto brinato, come scalare il polistirolo, e sebbene legati, avrebbero dovuto scalare come se stessero scalando la parete in solitaria. Sembrava proprio il tipo di arrampicata che Leclerc voleva.

L’Emperor Face del Mount Robson

Quando Johnson lo contattò, Leclerc non era più solo un giovane scalatore promettente; veniva elogiato come il leader di una nuova generazione di alpinisti. Nel 2015, fece il suo secondo viaggio in Patagonia e salì in solitaria il collegamento Corkscrew al Cerro Torre. La via di 1224 metri presenta arrampicata su ghiaccio e roccia esposta ed è al momento la linea più difficile mai salita in solitaria nella regione. Leclerc aveva solo 22 anni. Nel settembre 2016, tornò e salì in solitaria la vicina del Cerro Torre, la Torre Egger. La linea che scelse, sul Pilastro Est, era persino più difficile del Corkscrew. “Volete la definizione di duro?”, scrisse Rolando Garibotti, l’alpinista più rispettato della Patagonia e di fatto il detentore del record per le imprese nelle Ande meridionali. “Ecco qua”.

Nessuno aveva mai scalato l’Egger in solitaria in inverno, ma Leclerc, a quanto pareva, aveva le competenze ideali per l’impresa. Come mi disse Katie Ives, direttrice di Alpinist, l’anno scorso, quando le parlai per un profilo di Leclerc a cui stavo lavorando: “Sta portando le capacità tecniche che associavamo all’arrampicata sportiva in luoghi dove si devono affrontare anche altitudine, ghiaccio, maltempo e roccia bagnata. Sta mettendo insieme tutti i pezzi“.

Climbing pubblicò un profilo di Leclerc nel settembre 2017, intitolato “La follia calcolata di Marc-André Leclerc“. La Sender Films, la casa di produzione di Valley Uprising, iniziò a filmare con lui. Ma anche quando i media iniziarono a chiamarlo, a Leclerc non sembrava importare. Quando una casa di produzione gli chiese di girare dei B-roll di lui che passeggiava per Squamish, nella Columbia Britannica, evitò timidamente la strada principale della città, non volendo attirare l’attenzione. Ho trascorso una settimana con lui nel dicembre 2016, mentre viveva nella soffitta di sua madre a un’ora a est di Vancouver, e sembrava più entusiasta di avermi accanto come compagno che gli facesse sicura che della prospettiva di una copertura mediatica da parte mia. Amava semplicemente arrampicare. Il che spiega perché, quando un alpinista di cui non aveva mai sentito parlare lo contattò per affrontare una sconosciuta vetta dell’Alaska, colse al volo l’occasione.

La sera prima che Harrington e Leclerc si separassero per le loro scalate separate, Brette scrisse a Marc-André una lunga lettera in cui gli esprimeva quanto fosse triste doversi separare. “Ma so che ti divertirai un mondo in Alaska”, aveva scritto con lettere verdi ondulate. “Non vedo l’ora di rivederti e di poter scalare insieme per tutta la primavera! Buona fortuna e stai attento”.

Non gliela diede mai. Erano le 4 del mattino quando Harrington accompagnò Leclerc all’aeroporto di Vancouver, dove lui avrebbe preso il volo per Juneau. Lei lo abbracciò e lui se ne andò.

Alle 7 del mattino di domenica 4 marzo, un elicottero noleggiato dalla Coastal Helicopters di Juneau è atterrato sul ghiacciaio Mendenhall, a nord delle torri. Il sole era appena sorto e il tempo era sereno. Le previsioni indicavano un sistema di alta pressione che avrebbe attraversato la zona per almeno tre giorni e il manto nevoso sembrava stabile.

La parete nord della Main Tower, alta 765 metri, è più alta dell’Half Dome dello Yosemite. Persino per l’Alaska, dove tutto è grande, la parete è enorme. A fine inverno non vede mai il sole. La parete termina con una serie di crepacci che disseminano un nevaio con un’inclinazione di 55 gradi per alcune centinaia di metri prima di sbucare in una distesa piatta sul ghiacciaio. Se un masso cadesse dalla cresta, precipiterebbe per circa 600 metri prima di rimbalzare lungo il declivio innevato e fermarsi a circa 400 metri dal punto di caduta. Questo è il punto approssimativo in cui Leclerc e Johnson avevano nascosto tutta l’attrezzatura di cui non avrebbero avuto bisogno fino al giorno seguente, quando avrebbero sciato per 16 chilometri lungo il West Mendenhall Glacier Trail fino a Juneau. Avevano programmato di tornare al più tardi mercoledì sera.

Non avevano molta attrezzatura da portare. Entrambi erano fanatici dello spostarsi veloci e leggeri su terreni sconosciuti. In uno dei viaggi in solitaria di un mese in Patagonia, Leclerc aveva portato solo cinque moschettoni e due viti da ghiaccio: meno attrezzatura di quanta la maggior parte degli scalatori porti con sé per una giornata in falesia.

Leclerc e Johnson infilarono gli sci e la sonda da valanga nella neve e attaccarono un giubbotto riflettente alla sonda per poterla vedere dall’alto della parete. Poi si caricarono le scarpe e si avviarono faticosamente verso la parete di granito nero.

L’arrampicata non è stata nemmeno lontanamente difficile come alcune delle vie che gli uomini avevano completato in passato. Probabilmente non parlavano molto. Quando si ha un buon compagno per una scalata alpinistica, non c’è molto da dire. Qualche momento fugace in cui entrambi sarebbero stati assieme in sosta, ma anche lì un rapido cambio di attrezzatura, magari un paio di parole sulla linea, poi via a mettere una piccozza davanti all’altra.

Il sole tramontò alle 5.35 e Leclerc e Johnson bivaccarono in parete, probabilmente facendo uno spuntino con frutta secca e usando un piccolo fornello per sciogliere la neve da bere. Avrebbero ripreso a salire alle prime luci dell’alba.

Poco prima delle 10.30 di lunedì 5 marzo 2018, Leclerc mandò un messaggio a Harrington, che si trovava ancora in Tasmania: “Cara, sono in vetta! È stata una scalata incredibile”. Le mandò alcune foto e le pubblicò su Instagram. “Raro aggiornamento in diretta qui”, scrisse, accompagnando una foto che guardava a ovest. “Quello è il Mount Fairweather in lontananza”. Poi mandò un messaggio a sua madre con un’immagine delle cime circostanti. “Bellissimo”, rispose lei. “Dove sei?”

Nel frattempo, Johnson girò un video per la sua ragazza, in cui girava su se stesso per mostrarle un panorama senza nuvole che si estendeva per cento miglia.

Marc-André Leclerc è nato sull’isola di Vancouver, ma è cresciuto principalmente ad Agassiz, una piccola cittadina agricola nella Fraser Valley, conservatrice e religiosa: ma Leclerc non era né l’una né l’altra cosa. È il tipo di posto, ha detto, dove le persone “acquistano una fattoria, ricevono la benedizione del Signore e hanno un sacco di bambini che li aiutano”.

La famiglia non aveva molti soldi. Suo padre, Serge, lavorava nell’edilizia. Sua madre, Michelle, stava a casa con Marc-André, il fratello minore e la sorella maggiore, prima di trovare un lavoro in un ristorante per contribuire a sbarcare il lunario.

La regione non è nota per l’alpinismo o l’arrampicata in alcun modo. Anzi, è nota per la produzione di mais eccezionale. Ma a quattro anni, Marc-André conosceva l’altezza dell’Everest a memoria e sapeva recitare le gesta di Edmund Hillary e Tenzing Norgay con la stessa rapidità con cui alcuni bambini snocciolano i nomi dei dinosauri. La sua mente era iperveloce. Disegnava diagrammi del legame ionico per la madre; a otto anni si rigirava nel letto, pensando al principio scientifico dell’entropia. L’arrampicata era l’unico momento in cui il suo cervello poteva rilassarsi. Imparava, come molti bambini della sua età, in una palestra locale. Ma erano le montagne ciò che voleva. Nonostante vincesse gare contro ragazzi di tre anni più grandi di lui, chiese alla madre di toglierlo dalla squadra di arrampicata.

A 14 anni, iniziò a lavorare nell’edilizia con suo padre. Era dura, ma gli piaceva. Risparmiò i soldi e comprò degli attrezzi da ghiaccio di seconda mano, una corda e un set di chiodi d’acciaio che imparò a usare da un vecchio manuale di sopravvivenza dell’esercito. L’attrezzatura sarebbe stata all’avanguardia se l’avesse comprata 60 anni prima. “Non è stato come avessi detto. ‘Oh, voglio iniziare ad arrampicare’, e poi i miei genitori mi avessero comprato un corso di dieci giorni con le guide e un sacco di attrezzatura nuova”, mi ha detto Leclerc con un pizzico di orgoglio nella voce. “Ho dovuto mettere da parte i miei soldi e comprare delle piccozze di bassa qualità.”

Un geometra di mezza età gli insegnò ad arrampicare su ghiaccio quando era al liceo, e raggiunse la cima della sua prima via a più tiri con un tedesco sulla settantina. Per raggiungere l’inizio dei sentieri, Leclerc faceva l’autostop, prendeva l’autobus o si faceva accompagnare dai genitori o dalla sorella. Arrampicava da solo per la maggior parte del tempo, sviluppando lentamente la sua tecnica su roccia e ghiaccio. Si esercitava a costruire ancoraggi nella sua stanza e a scalare pali del telefono con le sue piccozze. Divenne uno dei migliori scalatori della sua generazione soprattutto grazie alla lettura di libri e alla tenacia con cui si sviluppò da solo.

Marc-André Leclerc in free solo su cascata di ghiaccio

Leclerc finì il liceo con un anno di anticipo, trascorse un’estate a installare cartongessi e poi si trasferì a due ore di distanza a nord-ovest, a Squamish, dove incontrò la Harrington. Se c’era una cosa che amava più dell’arrampicata, era Harrington: “quella carina”, come la chiamava lui. Era difficile parlargli senza divagare su cosa stesse facendo Harrington in quel momento. “Non è fantastica?”, diceva a chiunque lo ascoltasse.

I due si conobbero quando lei aveva 20 anni e lui 19. Lei frequentava l’università nella vicina Vancouver, e lui viveva a casa di un amico con un affitto a 180 dollari al mese. Entrambi volevano solo scalare. Iniziarono a legare e presto si frequentarono. Leclerc amava stare in montagna. Ancora di più, amava stare in montagna con lei. Viaggiarono fino all’Isola di Baffin, allo Yosemite e in Patagonia, migliorando sempre di più. Quando lui scalò in solitaria il Corkscrew, lei stava scalando in solitaria il Chiaro di Luna, una salita di 765 metri sul versante opposto della valle. Quella notte al campo base, mentre una tempesta infuriava intorno a loro, cantarono nella loro tenda, festeggiando insieme.

Marc-André chiamava sempre Brette appena tornato dalle montagne per farle sapere che stava bene. Quando arrivò il mercoledì e lui non l’aveva contattata, lei gli mandò un messaggio: “Spero che tu stia tornando sano e salvo. È passato un po’ di tempo dal tuo messaggio dalla vetta”. Non ricevendo risposta, chiamò il soccorso alpino di Juneau per verificare.

Juneau, una città di 32.000 abitanti, non è considerata una meta di arrampicata. La comunità di scalatori lì è piccola. Molti membri del JMR conoscevano Johnson personalmente; alcuni si erano uniti a lui per scalare. Tre anni prima, Johnson, pur non essendo membro del gruppo, aveva salvato la vita a quattro membri del JMR che erano rimasti bloccati su una cresta da una tempesta.

Era mercoledì mattina, 7 marzo, quando ricevettero la chiamata di Harrington. Uno dei membri del JMR aveva parlato con Johnson prima che partisse per le torri e gli aveva riferito che gli uomini non sarebbero tornati in città prima di sera.

Forse questa volta ho esagerato, pensò Harrington. Elaborò mentalmente i possibili scenari. Se i soccorritori fossero intervenuti il ​​giorno dopo e non avessero trovato gli sci di Leclerc, significava che gli uomini erano da qualche parte sul ghiacciaio e stavano tornando indietro. Se avessero trovato gli sci alla base della salita, significava che per qualche motivo erano ancora in montagna, impossibilitati a chiamare aiuto o a uscire da soli. E questo significava che lei sarebbe volata in Alaska.

Il giorno dopo, il telefono di Harrington squillò. Era Gabe Hayden della JMR.
“Brette”, disse Hayden, “abbiamo trovato i loro sci”. Hayden era un compagno abituale di Johnson. Avevano scalato il contrafforte sud della Main Tower nel 2011 e la parete sud della West Tower nel 2013. Hayden raccontò a Harrington che un elicottero della Guardia Costiera di stanza a Sitka si era recato in volo alle torri e aveva ispezionato la parete nord e il ghiacciaio circostante con una telecamera a infrarossi, cercando di rilevare eventuali tracce di calore corporeo. Le ricerche non avevano dato esito positivo; non c’erano corpi. Si presumeva che Leclerc e Johnson fossero scesi lungo la linea di salita e fossero stati travolti da una valanga.

Ad Harrington sembrava che fosse finita lì; che avessero interrotto le ricerche. No, no, no, pensò. Non possiamo interrompere le ricerche dopo un giorno. Non va bene. Prenotò un volo e iniziò a pianificare la sua operazione. Fece liste dell’attrezzatura di cui avrebbero avuto bisogno e dei luoghi in cui effettuare le ricerche.

In realtà, le ricerche non erano state interrotte, ma quando Harrington atterrò a Juneau sabato 10 marzo, erano già sospese. Il giorno prima, un elicottero della Guardia Costiera era arrivato solo fino al ramo meridionale del ghiacciaio prima che il maltempo migliorasse. La visibilità era troppo scarsa e il vento troppo forte per consentire a un elicottero di raggiungere in sicurezza le torri. Invece, dalla loro base presso l’hangar della Guardia Nazionale dell’Alaska all’aeroporto internazionale di Juneau, JMR iniziò a ricostruire una cronologia attraverso i messaggi di testo che gli uomini avevano inviato dalla vetta.

A questo punto, un piccolo gruppo di amici, familiari e compagni di scalata di Leclerc e Johnson si era radunato a Juneau: i genitori e la sorella di Leclerc, Bridgid-Anne; i suoi compagni di scalata di Squamish Will Stanhope, Paul McSorley e Kieran Brownie; Nick Rosen e Pete Mortimer della Sender Films; Justin Sweeny, responsabile atletico di Arc’teryx, sponsor di Leclerc; e Clint Helander e Samuel Johnson, compagni di scalata di Ryan Johnson.

Il messaggio di Leclerc dalla vetta ad Harrington era stato inviato alle 10.26. Il suo ultimo messaggio alla madre era stato inviato più di un’ora dopo. Era improbabile che gli uomini avessero trascorso così tanto tempo in vetta, e se fossero scesi dallo stesso percorso di salita, avrebbero perso immediatamente il segnale. Dovevano aver preso un’altra strada.

Più che la difficoltà estrema e l’audacia delle salite di Leclerc, era il suo approccio all’arrampicata a distinguerlo. Era, tecnicamente e atleticamente, allo stesso livello di uno come Alex Honnold. Eppure, passava inosservato. Preferiva così.

Da un lato, abbiamo qualcuno che è davvero all’avanguardia dell’alpinismo moderno“, ha detto Katie Ives di Alpinist. “Dall’altro, opera con una mentalità filosofica molto all’antica“.

I resoconti di viaggio che Leclerc ha scritto sul suo blog sono costellati di bivacchi su vette ghiacciate e altri momenti poco chiari, ma sembra sempre, per usare le sue parole, “profondamente felice e in uno stato d’animo incredibile”. A un certo punto, scrive: “Ero attratto dalla montagna in cerca di avventure, dal desiderio di esplorare i miei limiti e di immergermi in un mondo così profondamente bello da rimanere impresso per sempre nella mia memoria“.

Marc-André Leclerc. Foto: Scott Serfas.

Idolatrava uomini come Guy Edwards e Walter Bonatti, archetipi di un’epoca passata di esplorazioni. “Gli scalatori della vecchia scuola sono famosi per la loro tenacia”, mi disse malinconicamente mentre ci spingevamo a gomitate verso il bancone di un pub in una baita vicino ad Agassiz. “Si legge di Bonatti che ha scalato in solitaria il Pilastro Bonatti. Si è bagnato fradicio sotto la pioggia, si è congelato, ha rovesciato benzina nel cibo, si è spaccato un dito con un martello ed ebbe la corda tagliata, eppure ha completato la via. Al giorno d’oggi non si sente più parlare di gente che fa cose del genere“.

Ma questa è la vita che Leclerc voleva vivere. “È in una ricerca personale“, ha detto lo scalatore Steve House. “La sua arte è l’alpinismo“.

Durante la prima salita in solitaria del versante Emperor del Mount Robson, in Canada, nell’aprile del 2016, Leclerc bivaccò in cima, sperando di aspettare la notte per condizioni migliori in discesa. Mentre scaldava l’acqua, questa traboccò e gli inzuppò i vestiti. Poi le batterie della lampada frontale si scaricarono. Poi lasciò cadere l’accendino, rimanendo senza acqua e rendendo inutilizzabili il fornello e la sua scorta di cibo liofilizzato. Solo, al freddo e al buio sulla vetta più alta delle Montagne Rocciose canadesi, Leclerc affrontò tutto con calma. “Nonostante il disagio“, scrisse in seguito, “era innegabile che la situazione fosse davvero stupenda“. Alla fine, barcollando, tornò indietro dalla cima fino all’inizio del sentiero.

Alcune persone sembrano volerlo un po’ troppo“, ha detto Honnold, che ha incrociato Leclerc un paio di volte in Patagonia. “Perciò non si è sicuri che la motivazione per cui vogliono essere bravi in ​​qualcosa sia pura. Marc non sembra volerlo affatto. Lo fa e basta. Non vuole riconoscimenti o altro, vuole solo fare un’esperienza in montagna“.

Dopo aver scalato il versante Emperor, Leclerc scrisse:
“Era ormai il mio quarto giorno da solo in montagna e i miei pensieri avevano raggiunto una profondità e una chiarezza mai sperimentate prima. La magia era reale. […] Grazie al tempo trascorso in montagna, lontano dalla folla, lontano dal cronometro, dai punteggi e da tutte le liste dei record, sono riuscito lentamente a distinguere ciò che è importante per me e a scartare ciò che non lo è.

L’ultima volta che l’ho visto, ho chiesto a Leclerc cosa fossero quelle cose. “È importante apprezzare il posto in cui ci si trova“, ha detto, “e vivere un’esperienza memorabile, qualcosa che ti rimane impresso a lungo. Quando sarò vecchio, voglio che tutte queste avventure siano impresse nella mia memoria“.

La sera di sabato 10 marzo, la possibilità che Johnson e Leclerc fossero ancora vivi, bloccati in un crepaccio da qualche parte non ancora perlustrato, portò un piccolo barlume di speranza e un turbinio di attività nelle operazioni di soccorso. Ma gli elicotteri erano ancora a terra.

La natura frettolosa e sbrigativa della ricerca ha lasciato amici e familiari degli scalatori in una situazione strana e surreale. C’era molta urgenza, ma non c’era molto da fare.

“Marc-André sarebbe felicissimo qui”, continuava a ripetere sua sorella Bridgid. Ovunque andassero Harrington, Michelle e Bridgid, la gente sapeva chi fossero. Non era loro permesso pagare il conto per pasti o bevande. Una cameriera preparava loro dei dolcetti a casa sua. Harrington faceva vedere sul suo cellulare dei video di Marc-André che cantava e ballava. Scoprirono anche di Johnson: che aveva un entusiasmo per l’arrampicata incontenibile, che alle tre donne ricordava molto Leclerc. Era chiaro che i due scalatori dovevano aver fatto subito amicizia.

Da ventenne, Johnson aveva un carattere selvaggio, fumava sigarette anche in tenda. Ma nel 2015 aveva avuto un figlio, Milo. Johnson si è sistemato. Ha aperto una palestra in stile CrossFit a Juneau. Diventare padre, ha detto ai genitori, “è stato all’altezza delle aspettative”.

Martedì 13 marzo, il cielo si è fatto azzurro. Aveva nevicato per oltre un metro e venti nei sei giorni trascorsi dalla scomparsa di Leclerc e Johnson. Con l’aiuto della Guardia Nazionale dell’Alaska, JMR ha portato un elicottero Blackhawk alle torri. Sorvolando la vetta, hanno individuato le impronte quasi completamente riempite di due serie di impronte che attraversavano la cresta in direzione est. Le impronte terminavano in cima a un canalone dove una linea di ghiaccio blu e freddo scendeva per circa 300 metri dalla cresta fino al crepaccio terminale, un ampio crepaccio vicino alla base della parete formato dal ritiro del ghiacciaio dalla parete. Un piccolo pezzo di cordicella bianca e nera penzolava in cima.

La squadra SAR tornò alla base e passò a un elicottero AStar. Più piccolo e agile di un Blackhawk, l’AStar avrebbe permesso loro di avvicinarsi al canalone. Era anche dotato di un detector Recco, che utilizza un radar per rilevare metalli o componenti elettronici.

A bordo di un elicottero separato, Harrington e Samuel Johnson monitorarono i progressi dell’AStar con Emily Nauman, membro del JMR. Volarono vicino alla parete nord. Nastri di ghiaccio ricoprivano una serie di ripide pareti. Più in alto, rampe di neve conducevano alle creste e poi alla vetta. Una cornice si ergeva lungo la cresta che conduceva al canalone. Al crepaccio terminale, era visibile parte di una corda arancione. L’AStar rimase sospeso sopra di essa a lungo.

Sono lì, pensò Harrington. Sono proprio lì. Si sentiva vicina, come se potesse raggiungerli. Andare a controllare se Leclerc e Johnson fossero lì e ancora vivi non era un’opzione. Il pericolo era troppo grande. In qualche modo sapeva che Leclerc se n’era andato.

“Vuoi volare con me fino alla vetta?” chiese, girandosi sul sedile per guardare Samuel. “Possiamo calarci con la corda di discesa e trovarli.” Era una proposta rischiosa. Ma Samuel acconsentì.

Brette e Marc-André

Così l’elicottero virò e tornò in città per recuperare l’attrezzatura necessaria. Al loro arrivo, i membri del JMR mostrarono loro foto ravvicinate dell’attrezzatura degli uomini scattate dall’AStar. Una corda da arrampicata arancione era parzialmente visibile nella neve. Secondo le ricerche Recco, gli uomini erano sepolti a circa 4,5 metri di profondità. Una discesa in corda doppia pericolosa non sarebbe stata necessaria.

A causa delle circostanze“, si leggeva più tardi quel giorno in un dispaccio della polizia stradale dell’Alaska, “si presume che Johnson e Leclerc siano deceduti“.

Morire durante una calata è comune. Due scalatori che muoiono contemporaneamente durante una calata è più raro. C’è la possibilità che uno dei due abbia commesso un errore durante la costruzione dell’ancoraggio, o che abbia dimenticato di mettere i nodi di sicurezza all’estremità finale della corda. Tutti commettono errori. Ma chi conosceva Leclerc e Johnson considera la probabilità di una qualsiasi di queste spiegazioni estremamente remota. I due scalatori erano troppo metodici e attenti.

Certo, la prudenza non sempre ti protegge in montagna. Qualcosa potrebbe essere caduto su di loro e aver reciso l’ancoraggio che li teneva agganciati alla parete. Potrebbe essere stato un grosso pezzo di ghiaccio o di roccia. Una cornice potrebbe essersi staccata. Una valanga potrebbe aver travolto il canalone. Tutti e tre gli eventi possono essere innescati da una singola persona, da sbalzi di temperatura o da nulla.

Leclerc e Johnson probabilmente fecero circa cinque calate in corda doppia prima di raggiungere la crepaccia terminale. Non avrebbero avuto molto tempo per reagire. Si sarebbero aggrappati alla crepaccia terminale, sperando che per miracolo, qualunque cosa fosse caduta dal cielo, li mancasse. Invece, li strappò dalla parete. Erano a meno di mezzo miglio dai loro sci.

Nei giorni successivi alla sospensione delle ricerche, Harrington tornò alle Mendenhall Towers. Camminò ai piedi delle pareti rocciose, a distanza di sicurezza dalla zona di fuga. La neve era calda e bagnata, e scricchiolava sotto i suoi piedi. Aveva così tante cose che voleva dire a Leclerc.

Rimase immobile ad ascoltare le torri. Ascoltò i cornicioni che cadevano. Ascoltò le valanghe. Ascoltò le frane. Udì solo la perfetta quiete dell’inverno. Nulla si muoveva. Nulla emetteva suono.

Il ricordo di Marc-André Leclerc
di Derek Franz
(pubblicato su alpinist.com il 24 marzo 2018)

“Una delle grandi contraddizioni della scrittura di arrampicata è che più l’esperienza è grande e profonda, più è difficile raccontarla. Scalare in solitaria la parete Emperor [del Mount Robson] è una di quelle esperienze che non si possono riassumere in pochi paragrafi, ma è stata una scalata così significativa che sarebbe un peccato non provare nemmeno a scriverne finché è ancora fresca nella mia mente…”.

Così iniziava un post sul blog di Marc-André Leclerc dell’aprile 2016. La sua esperienza era qualcosa che la maggior parte di noi può solo immaginare nei sogni, eppure il modo in cui la raccontava – onestamente, con semplicità, con il cuore ma con discrezione – le sue storie turbinavano nella mia immaginazione come spruzzi di neve e brina che cade. Non ho mai dimenticato il suo nome dopo aver letto quelle umili parole sulle sue incredibili incursioni nelle Montagne Rocciose canadesi.

Leclerc era uno degli scalatori più forti e completi al mondo, ma molti non lo sanno. Anche tra gli scalatori, era spesso fuori dai radar, ma forse perché molte delle sue imprese audaci – e spesso solitarie – si sono svolte su montagne formidabili in luoghi remoti, in pieno inverno. Quante persone ci saranno in giro ad accorgersi quando ti avventuri in silenzio verso le torri patagoniche in solitaria nelle condizioni più scoraggianti? Ed è quello che ha fatto Leclerc.

Marc-André Leclerc su El Corazon, El Capitan. Foto: Kieran Brownie.

Nel settembre 2016 ha completato il Winter Link-Up sulla Torre Egger in un’impresa di 21 ore per la prima salita invernale in solitaria della vetta e, nel frattempo, ha portato a termine un’impressionante tripletta: scalate in solitaria di tutte e tre le vette principali del gruppo Torre. (Nel 2015, aveva scalato in solitaria la Corkscrew Route, una via di difficoltà composita di circa 5.11d WI5 M4, 90 gradi, 1200 m, sul Cerro Torre e aveva scalato in libera e a vista il collegamento da Tomahawk a Exocet [5.8 M6 WI6, 900 m] sull’Aguja Standhardt il 24 settembre 2015, appena un giorno dopo l’equinozio di primavera.) E queste salite sono solo alcune delle linee di una lunga e impressionante lista di successi che include una salita in libera del Muir Wall su El Capitan (VI 5.13c, 900 m) e salite trad di 5.13 X oltre alle sue grandi solitarie alpine come Infinite Patience sull’Emperor Face del Monte Robson (VI 5.9 A2, 2500 m). Le scalate che in genere lo attraevano di più erano quelle creative in angoli tranquilli di luoghi selvaggi, come la recente prima salita invernale del Navigator Wall sul Mount Slesse, che ha finalmente completato con Tom Livingstone a gennaio, dopo aver atteso per anni le condizioni giuste.

I due tipi di arrampicata che mi motivano davvero sono le nuove vie o le solitarie interessanti“, ha dichiarato ad Alpinist nel 2016 dopo la sua salita alla Torre Egger. “Mi piace applicare trucchi e sistemi di arrampicata in solitaria a queste grandi montagne, credo sia un po’ una cosa da nerd della tecnologia. Non sono tanto motivato dai gradi o dai record, quanto dalle grandi avventure e dall’immersione in luoghi selvaggi. Essere da solo intensifica davvero questo“.

Leclerc durante la sua salita in solitaria della via Corkscrew del Cerro Torre (grado composito di circa 5.11d WI5 M4, 90 gradi, 1200 m) nel 2015. Foto: Marc-Andre Leclerc.

In un articolo di Drew Copeland per Climbing, Leclerc afferma: “Da bambino appassionato di montagna, non avrebbe potuto essere più ideale: un’infinità di escursioni e arrampicate su terreni grandi e piccoli, senza regole o ‘norme prestabilite’. Era uno stile di apprendimento indipendente, in cui ognuno sceglieva la propria avventura“.

Brette Harrington, ha dichiarato ad Alpinist : “Gli anni della scuola sono stati i peggiori della sua vita perché si sentiva limitato dalla classe. Continuava ad avere incubi sulla scuola anche a 25 anni“.

Ma in montagna, l’amore per l’apprendimento è venuto naturale. In un’intervista del 2013 con Chris Van Leuven sulla sua salita in solitaria in velocità del Chief a Squamish, disse: “Ero davvero entusiasta quando ero piuttosto giovane, a 15 anni. A volte era difficile trovare compagni. Avevo vie di sei tiri vicino a dove andavo al liceo. Provavo le vie lunghe da solo, imparando strada facendo. Ci sono dei trucchi che la gente usa per scalare le pareti in solitaria più velocemente. Li ho imparati da solo“.

Nello stesso articolo, Chris Geisler, scalatore di Squamish, a cui si attribuisce il merito di aver insegnato a Leclerc il metodo delle tre catene a margherita per l’arrampicata artificiale veloce, disse a Van Leuven: “Marc ha una mente forte e lavora da tempo per rafforzare i suoi punti deboli. Questo è solo l’inizio. Solo un riscaldamento, prima che Marc capisca davvero cosa sarà in grado di realizzare“.

I seguenti segmenti sono stati scritti da amici e soci di Leclerc.

Brette Harrington:
Io e Marc eravamo relativamente riservati nell’esprimere la nostra relazione sui social media, ma condividevamo la nostra vita insieme. Abbiamo aperto così tante prime salite insieme che mi ci vorrebbe un po’ per raccontarle tutte… Febbraio è stato forse il mese migliore della nostra vita insieme – lo ammettevamo entrambi a parole – sia dal punto di vista alpinistico che mentale/emotivo, eravamo in piena forma… Lui era la mia vita…

Marc aveva capito cosa amava e cosa lo rendeva più felice. Era un vero esploratore e si innamorò della bellezza delle montagne e della pace delle calotte glaciali. Per quanto riguarda l’arrampicata, a Marc interessava solo se era piacevole. Questa era la sua filosofia di vita: “Goditi quello che fai, altrimenti non vale la pena farlo”. Ogni volta che iniziavamo una scalata e i nostri zaini sembravano troppo pesanti, cambiava rapidamente i nostri piani per evitare inutili sofferenze. Se si svegliava stanco prima di una scalata, si riaddormentava e cambiava obiettivo. Se avevo freddo, mi scaldava i piedi sulla pancia e mi faceva bollire dell’acqua nel cuore della notte. Era il miglior compagno che potessi mai immaginare. La sua idea di romanticismo era stare in montagna. Me lo ripeteva più e più volte: “Questo è il posto più bello” e “che posto perfetto per un appuntamento”. Marc amava stare in montagna, ma amava soprattutto stare in montagna con me. Mi sento davvero privilegiata ad aver avuto una persona così straordinaria, meravigliosa, gentile e davvero stimolante nella mia vita per così tanto tempo. Ha avuto un impatto positivo su tutti coloro che ha incontrato, donando loro il 100% della sua energia. Marc vedeva il meglio nelle persone, anche quando quelle persone non riuscivano nemmeno a vederlo in se stesse.

Aveva una visione del mondo che gli proveniva direttamente dal cuore. Ammirava e amava la bellezza e la vastità del territorio alpino, le calotte glaciali, i freddi poli Nord e Sud. Non gli importava solo dell’arrampicata: gli importava dell’esplorazione. Marc era un vero esploratore e non aveva paura di seguire quella strada. Marc viveva la vita al massimo… Era felice di ciò che aveva e riconoscente di essere esattamente dove voleva essere.

I piccoli compiti venivano svolti con la massima cura, come legare gli zaini o arrotolare l’attrezzatura. Era così preciso e attento in ogni cosa. Non si lanciava mai in qualcosa di troppo impegnativo. Anzi, analizzava ogni cosa meticolosamente prima di provarci. Il suo cervello era programmato per la strategia, l’aveva addestrato a esserlo, ed è per questo che era un genio nell’arrampicata. Perché pensava costantemente alle montagne. Naturalmente aveva anche altri interessi e preoccupazioni mondane: amava parlare spagnolo, che imparò con una velocità eccezionale, e aveva molti amici intimi in Argentina. Io e lui parlavamo spagnolo insieme ogni giorno. Qualsiasi cosa lo interessasse, ne diventava ossessionato, il che lo portò alla padronanza. Marc aveva la capacità di concentrare tutta la sua energia in una cosa sola e di scomporla fino a comprenderla completamente. Amava anche gli animali. Da bambino, crescendo in una fattoria, aveva molte capre e aveva un legame autentico con tutti gli animali che incontravamo. Trascorrevamo settimane vivendo nella foresta, arrampicandoci ogni giorno, osservando le creature della foresta, le tracce degli animali e altri compagni. Amava andare a cavallo ed esplorare le montagne a cavallo… Il suo spirito è fatto per correre, esplorare ed essere libero. So che è in pace tra le vaste calotte glaciali e le vette granitiche dell’Alaska.

Nel racconto di Harrington del 2015 per Alpinist 51, intitolato “What the Heart Only Sees“, l’autrice racconta l’ispirazione di Leclerc e il suo sostegno alla sua decisione di scalare in free solo il Chiaro di Luna sull’Aguja Standhardt. Scrive:
Ogni volta che mi arrampicavo slegato con il mio amico Marc-André Leclerc, adoravo vedere la gioia che gli illuminava il viso. Insieme, la nostra energia sembrava raddoppiare, trascinandoci in una danza inconscia”.

Luka Lindič:
Ho incontrato Marc-André in Patagonia nel gennaio 2015… Stavo scalando con gli sloveni Luka Krajnc e Tadej Kriselj durante questo viaggio… Durante le nostre calate in corda doppia lungo la cresta sud-est del [Cerro Torre], Marc ci ha superato, perché era molto più veloce, conoscendo gli ancoraggi e scendendo in corda doppia da solo. Ha solo accennato brevemente di aver scalato il Corkscrew in solitaria, ma quello che ricordo di più è che irradiava davvero la bella energia di un uomo che viveva i suoi sogni. La sera dello stesso giorno, ci siamo incontrati di nuovo in un crepaccio del Col de la Paciencia, dove abbiamo passato tutti una notte. Ho avuto la sensazione che mi sarebbe piaciuto conoscerlo meglio e magari scalare con lui un giorno.

Lo stesso anno ci siamo incontrati a Chamonix per lavoro con il nostro sponsor e nel Verdon, dove lui era in viaggio di arrampicata con la sua ragazza Brette Harrington. Avevamo programmato di incontrarci la primavera successiva nelle Montagne Rocciose canadesi per un po’ di arrampicata alpina.

Alla fine di marzo 2016, è venuto a prendermi all’aeroporto di Calgary e abbiamo iniziato una missione di arrampicata alpina di tre settimane. Ci siamo legati per la prima volta sulla parete nord del Mount Temple e abbiamo scalato la via Greenwood-Locke in giornata. Fin dal primo momento, la nostra cordata ha funzionato bene e in seguito abbiamo scalato tre nuove vie nella Valley of Ten Peaks. Tra queste anche una sulla parete nord del Mount Tuzo. Questa scalata rimarrà per sempre un ricordo speciale per me. In primo luogo, perché siamo riusciti a scalare una nuova via molto difficile su una grande parete, e in secondo luogo, ma soprattutto, perché questa scalata rappresenta per me ciò che Marc era veramente: un maestro dell’improvvisazione e del rimanere positivo. Inizialmente eravamo andati a tentare la parete est del Monte Fay, ma le valanghe ci hanno costretto a tornare indietro. Poi il nostro cibo/attrezzatura [scorta] è stato distrutto da un animale, ma abbiamo continuato con l’idea di “esplorare un po’”. Alla fine abbiamo trascorso due notti sulla parete, sprofondati nella fame e nella disidratazione, ma alla fine siamo tornati sani e salvi e molto felici.

Luka Lindič (a sinistra) e Leclerc. Foto: Luka Lindič.

Nei giorni successivi, ci siamo rilassati nella zona di Canmore. Abbiamo mangiato un sacco. Ci siamo resi conto che entrambi adoriamo il trail mix e abbiamo finito per comprarne chili di quello chiamato “Temptation Mix” in un supermercato di Canmore. Spesso andavamo a sederci al sole e a rilassarci vicino al fiume Bow. Lui amava molto stare nella natura. Abbiamo scambiato musica: a lui piaceva la band balcanica Dubioza Kolektiv e io ho preso gli Emancipator da lui. I suoni che spesso creavano ci ricordavano a entrambi le fredde, gelide giornate in montagna.

Ci siamo incontrati di continuo in molti altri posti. In Polonia ci siamo conosciuti dopo la sua presentazione di diapositive sulla scalata dei Monti Tatra. Abbiamo fatto un sacco di festa durante questo breve viaggio, con tanto di brutto tempo. Lui viveva sempre appieno il momento, che fosse bello o brutto. Un giorno eravamo seduti in una mensa di un’università di Cracovia e ho visto una scritta sul muro: [“Non pentirti mai / se è bello, è meraviglioso / Se è brutto, è un’esperienza”]. Ho pensato che descrivesse così bene il modo in cui Marc-André vedeva le cose nella vita che gli ho chiesto se potevo scattargli una foto accanto.

Dopo l’ultima festa, ha quasi perso il volo di ritorno. Al suo ritorno, mi ha scritto subito per raccontarmi quanto fossero incredibili le condizioni quest’anno per l’arrampicata su ghiaccio in Columbia Britannica e che avrei dovuto andare con lui a provare la parete est del Mount Slesse.

Abbiamo poi trascorso il gennaio 2017 trasportando l’attrezzatura, cercando di arrampicare un po’ ma per lo più perdendo completamente la concentrazione. Ma ho capito perché amava davvero queste montagne. Era il suo paradiso. Un luogo pieno di grandi montagne e pochissima gente, soprattutto d’inverno, e tutto questo praticamente sopra la sua casa di famiglia. È quando non tutto va alla perfezione che si impara davvero a conoscere i propri partner o amici. Marc-André è sempre rimasto positivo e calmo. Non l’ho mai sentito parlare male di qualcuno o lamentarsi in generale.

Durante le volte in cui ci siamo incontrati, abbiamo parlato sempre di più di cose diverse dall’arrampicata. Non ha mai dimenticato di dirmi quanto sia orgoglioso della sua “piccola B”, come chiamava la sua ragazza Brette. Durante il nostro ultimo viaggio insieme in Patagonia, ha detto che gli piacerebbe dedicarsi di più alla scrittura e persino scrivere romanzi un giorno. Se i suoi libri fossero così pieni di immaginazione, nuove idee, audacia e buona energia come lo era la sua vita, sarebbero dei bestseller.

Tom Livingstone:
[Quanto segue è tratto da un omaggio che Tom Livingstone ha condiviso con Alpinist e che aveva scritto originariamente per UKClimbing.com.]

Avevo sentito parlare delle straordinarie scalate in solitaria di Marc-André molto prima di incontrarlo. Ho scoperto presto che dietro le sue imprese si celava un alpinista umile e cordiale, la cui energia per la vita e l’arrampicata ardeva di vitalità. Marc non era gravato dal tempo, dalle pressioni moderne di un giovane scalatore (come i social media) e dal concetto di alpinismo come competizione. Basta leggere il suo racconto delle scalate in solitaria sulle Montagne Rocciose per capire che la vera avventura era ciò che più gli stava a cuore…

Di solito, ogni mattina iniziava una colazione da campioni. All’inizio, suggerivo una partenza più veloce, ma presto mi sono goduto le fritture di Marc: pancetta, avocado, uova, funghi su pane tostato, frullato e caffè. Ci dava la carica per i walk-in, mentre ci scambiavamo i nostri colloquialismi nativi. Marc mi spiegava “rugged” e “rowdy”; io proponevo “drongos” e “get tae fuck”… Forse avrei dovuto insegnargli l’inglese della Regina, “old chap”. In qualche modo sapevo che la natura tranquilla e sicura di Marc significava che aveva già una buona familiarità con il mondo. Dopotutto, non si scala il Cerro Torre in solitaria senza avere un’idea chiara di cosa c’è in gioco…

Marc era così disinvolto e rilassato che si potevano quasi dimenticare i suoi successi di livello mondiale… Se – o quando – il mega progetto di Marc [sul Mount Slesse] verrà scalato, potrebbe essere un tributo appropriato. Pochissime persone hanno sentito parlare dello Slesse, ma sarà sicuramente una via incredibile. Marc era uno scalatore di livello mondiale, ma senza ego. Era rilassato, sicuro di sé e non sentiva la pressione di dover fare qualcosa per gli altri perché la sua motivazione veniva da dentro. Rideva sempre, era paziente, gentile e preparava delle colazioni fantastiche.

Altri commenti
Alpinista forte, mentalmente e fisicamente, appare come un ricercatore di se stesso e dei propri valori in circostanze montane e isolate. Marc sembra essere distante dai record e dai cronometri, relegando invece più valore alla spiritualità, alla scoperta di séed alla ricerca di un suo stile di vita, come esploratore, allontanandosi dalla competitività alpinistica dei giorni nostri.
Per questi motivi, e probabilmente anche per la sua prematura morte a soli 26 anni, la sua vita a qualcuno ricorda quella dell’esploratore solitario, che aveva fatto perdere le tracce di sé eliminando documenti di riconoscimento, vivendo con lavori saltuari e dando prova di grande adattamento della vita all’aria aperta, Christopher Johnson McCandless (alias Alexander Supertramp, quello del libro e film Into the wild) (sestogrado.it)”.

Christopher Johnson McCandless (Into the wild)

Non ho mai incontrato uno scalatore con la rara combinazione di Marc: intelligenza profonda, creatività ispirata, talento brillante e modestia senza pretese. Era unico. Mi sento così privilegiata ad averlo conosciuto e sono profondamente addolorata che la sua fiamma si sia consumata così brevemente“, ha detto Bernadette McDonald, scrittrice e storica dell’arrampicata che ha scritto un profilo di Leclerc per una prossima edizione del Canadian Rockies Annual.

Marc era un giovane eccezionale“, ha scritto Sonnie Trotter, uno dei migliori scalatori canadesi, in un’e-mail ad Alpinist. “L’ho incontrato per la prima volta nel 2008, credo; aveva circa 15 anni in una caffetteria di Squamish. Oltre al suo evidente talento, era naturalmente ispirato. Una delle persone più brillanti che abbia mai incontrato. Credo che sia stata proprio quella rara, genuina e pura ispirazione che aveva dentro di sé a spingerlo ad andare in montagna così spesso e a fare ciò che amava. Ha maturato un’esperienza enorme in pochissimo tempo, e quando si uniscono la sua esperienza, la sua passione e il suo talento naturale, è semplicemente incredibile ciò che è riuscito a realizzare. Era uno scalatore molto gioioso e mancherà moltissimo alla sua famiglia, ai suoi amici e alla nostra comunità“.

L’amico intimo di Leclerc, Brandon Pullan, ha scritto un articolo per Gripped.com in cui racconta molte delle imprese inedite di Leclerc in montagna e ricorda con affetto l’attesa del miglioramento del tempo.
Era un visionario scalatore canadese che ha sfidato i limiti su roccia, ghiaccio e alpinismo“, ha scritto Pullen. “Aveva spalle larghe, capelli castani ricci e un invitante sorriso a trentadue denti; un sorriso indimenticabile“.

Per ulteriori notizie sull’attività alpinistica di Marc-André Leclerc, vedi https://it.wikipedia.org/wiki/Marc-Andr%C3%A9_Leclerc

The Alpinist, il film
di Mario Gottardi
(pubblicato su nemesismagazine.it il 12 marzo 2022)

Chi va per mare, anche solo per fare una passeggiata in solitaria, o in montagna, anche solo per fare un’escursione in mezzo ai boschi, sa quanto alla natura bastino pochi istanti per trasmettere i valori essenziali della vita e farci riconciliare con essi, con il creato, con noi stessi.

Marc-André Leclerc in uno screen dal trailer del film The Alpinist – Uno spirito libero

Il cellulare si mette via, Spotify si spegne e si ascolta il rumore del vento, si respira l’odore del mare, del cirmolo, del pino mugo, del corbezzolo, del bosco. E mentre si contempla questa bellezza che avvolge, si cura la propria anima. Non si ha bisogno di altro. Tutto sembra lontano, effimero.

Quando sono in montagna la vita è incredibilmente semplice”. A pronunciare questa frase così pregna di verità è Marc-André Leclerc, uno degli scalatori più forti e al contempo poco conosciuti della storia recente. Per lui andare in montagna significa arrampicarsi in pareti verticali a mani nude, senza corda, con solo le scarpette da roccia o magari scalare le montagne più tecniche e difficili sempre e solo, senza nessuno nemmeno per di supporto, anche di inverno, quando le cime sono sferzate da tempeste con venti fortissimi, mica fare semplici passeggiate rigeneranti tra abeti e tassi. 

E a lui, alla sua storia, alla sua incredibile vicenda, al suo spirito che è dedicato The Alpinist, uno spirito libero, il documentario firmato da Peter Mortimer e Nick Rosen, prodotto da Red Bull Media House.

Chi ha avuto la tempestività di andare a vederlo (il film distribuito da Nexo in collaborazione con il Club Alpino Italiano e Trento Film Festival, infatti è rimasto nelle sale solo tre giorni, il 7, l’8 e il 9 marzo) si sarà subito accorto che non avrebbe assistito a un film in stile hollywoodiano, tutto adrenalina, eroismo e suspence che tengono incollato lo spettatore alla poltrona e senza fiato. Pietro Lacasella, curatore della seguitissima pagina Alto-Rilievo / voci di montagna in un post dedicato a The Alpinist ha dissipato ogni timore: “Se il suo modo di scalare tende la mano a questi ‘Marvel d’alta quota’, il suo approccio alla montagna si è mantenuto inalterato anche di fronte alle telecamere. Ed è questo, forse, l’aspetto più interessante del film, tant’è che i produttori sono spesso dovuti scendere a compromessi per preservare inalterata la passione di Marc”.

Marc-André Leclerc in uno screen dal trailer del film The Alpinist – Uno spirito libero

Quando sullo schermo compare per la prima volta questo ragazzone con i capelli arruffati, timido, dal sorriso sincero, un po’ goffo si ha subito la sensazione di trovarsi davanti una sorta di fricchettone delle montagne, uno spirito libero. Un ragazzo che che vive la montagna spiritualmente. E forse è questo il suo segreto, da qui deriva il suo talento per l’arrampicata, che compie con un’eleganza e un’armonia da far sembrare perfino facile salire a mani nude, senza corde, su una parete a strapiombo.

Questa sua capacità di entrare in relazione con la roccia, con la parete che ha fatto raggiungere a Marc-André Leclerc traguardi incredibili, come il completamento della “Torres trifecta” nella Patagonia argentina, ovvero la salita sul Cerro Torre, Aguja Standhardt e infine la Torre Egger, che è mostrata nel documentario; o come la salita, sempre in solitaria, della via Infinite Patience sull’Emperor Face del Mount Robson 3954 m, la cima più alta delle Montagne Rocciose Canadesi.

Il film si apre con Peter Mortimer che casualmente si imbatte nel nome di Marc-André Leclerc. Provano a fare una ricerca sul web per cercare qualcosa ma trovano poco e niente.

Il giovane canadese, classe 1992, non è come altri alpinisti e arrampicatori, attenti all’immagine, alla sfida con gli altri, agli sponsor. A Marc-André non interessa minimamente sapere se c’è qualcuno che sa che in quel momento sta scalando, che ha raggiunto una certa cima, aperto una certa via, in un certo modo. A lui non interessa nulla di tutto ciò.

Marc-André non scala per sport, non ascende per sfidare qualcuno o per battere un record. Non arrampica per gli sponsor, per la fama, per soldi. Arrampica solo ed esclusivamente perché lo fa stare bene. E gli fa ancora meglio arrampicare in solitaria. Il suo è un approccio totalmente spirituale alla montagna.

Ed è proprio questo approccio a creare quel problema ai registi. Marc-André è sofferente alle costrizioni e alle regole che un documentario impone. Marc-André è nomade e solitario, non possiede un’auto e per molto tempo nemmeno un cellulare, difficile per lui adattarsi alla presenza di qualcuno che lo filma mentre scala, specie se è la prima volta che ascende su una parete. Sparisce per settimane, non risponde al telefono che la produzione gli ha dato, perché lui di telefoni non aveva bisogno. Lo trovano, dopo tempo, e scoprono che voleva scalare, da solo ovviamente, la Torre Egger, nella Patagonia argentina, ai confini del mondo. In inverno. Trovano un compromesso: Marc-André accetta di salire con una videocamera ma senza la presenza di alcuno.

La compagna di Leclerc, Brette Harrington

Il ritratto di questo ragazzo è affidato alla sua viva voce, alle testimonianze della compagna, Brette Harrington, scalatrice anche lei, che gli ha fatto riscoprire i suoi valori fondamentali in un momento di smarrimento della sua vita, dei suoi amici, di altri scalatori, come Alex Honnold, Will Gadd, importanti al vero e proprio mito, il nostro Reinhold Messner che sottolinea che le scalate in solitaria come quelle che compie Marc-André, specie se compiute in inverno, “è l’arte di sopravvivere nelle situazioni più folli”. 

Ma il ricordo più dolce, è quello della mamma, Michelle Kuipers, che ha raccontato dei problemi del giovane Marc-André, del disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD) che gli impediva di stare a scuola. La mamma però asseconda le esigenze del figlio, il suo talento nell’arrampicata e la sua voglia di scoprire il mondo non nel chiuso di un’aula ma all’aria aperta, una vera e propria scuola impropria. “Quando scalava era libero di essere se stesso”.

E in montagna si è sempre sentito libero. Lo dimostrano le immagini straordinarie, nel vero senso della parola mozzafiato (specie per chi soffre di vergini), degne della qualità che ci ha abituato il team media della Red Bull con i suoi video su sport estremi e spettacolari. Il montaggio, poi, è stato eseguito magistralmente. Peter Mortimer e Nick Rosen hanno dato ritmo al documentario, che scorre velocissimo fino al climax, che sa di beffa per uno che amava salire in solitaria e lasciare il telefono a casa arrivare sul picco di una montagna assieme a un compagno di cordata e assieme a lui fare un video e trovare campo per mandare un messaggio alla compagna e ai familiari.

Marc-André Leclerc verrà ricordato per aver contribuito a ridare all’alpinismo, alla scalata quel senso etico, filosofico, spirituale che negli anni stava perdendo.

Questo film è un documento importante perché lascia una traccia di uno scalatore che di tracce dietro di sé ne aveva lasciate ben poche. Ma soprattutto è fondamentale perché come effetto ha quello di eliminare tutte le sovrastrutture che in questi anni si sono stratificate sull’alpinismo e sul vivere la montagna: sponsor, business, lo stesso concetto di sport e di sfida hanno progressivamente velato il vero spirito di chi si approccia alle vette, anche solo per ammirarle da lontano.

Quando sei in montagna è come se tutte le superficialità della vita evaporassero”. È questa la grande eredità che ci ha lasciato Marc-André Leclerc. Una verità che sa chiunque calzi un paio di scarponi anche solo per fare una passeggiata nei boschi ma che spesso poi si dimentica quando si torna in città. Lo spirito di Marc-André invece ora è lì, a ricordarcelo. Sempre.

Il trailer ufficiale di The Alpinist – Uno spirito libero

Marc-André Leclerc ultima modifica: 2025-06-30T05:11:00+02:00 da GognaBlog

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8 pensieri su “Marc-André Leclerc”

  1. “Il letto è il posto più pericoloso al mondo: vi muore l’80% della gente”. M.T.

  2. 5@ È così! Cassin,:non certo uno qualunque quando racconta del amico compagno di cordata colpito da un sasso in testa e muore al suo fianco, oltre a inorridire che fa?pensa ; …”che culo che ho avuto!”
    Non ha preso me , in sostanza…
    E questo per quanto riguarda la sorte che dicono sia cieca…
    Mentre il cercare e spostare il proprio limite fisico e mentale è tutto nelle proprie facoltà e decisioni.

  3. 1) La vita è una. 
    2) Della propria vita ciascuno fa ciò che vuole (e che può). 
     
    Fate il vostro gioco. 
     

  4. Gli alpinisti che restano vivi penso abbiano avuto solo un gran culo… O si siano fermati prima.

  5. Solo tanta passione per l’avventura vissuta nella mstura selvaggia. Il resto non conta nulla.

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