Montagne in salotto
(scritto nel 1994)
Lettura: spessore-weight(3), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(3)
Quasi in ogni casa un calendario segna lo scorrere dei giorni e dei mesi. Dopo un anno lo si getta e se ne riappende uno con l’anno nuovo. Ci sono calendari senza illustrazioni, ma la maggior parte è corredata da immagini e contribuisce all’atmosfera dell’ambiente circostante.
I più comuni temi che un calendario svolge sono gli animali domestici, i fiori, sempre più spesso le belle ragazze. Ma anche la montagna fa la sua parte, con i boschi di quattro stagioni, nevi candide, valli e prati a perdita d’occhio, nuvole bizzarre, vette e cime di ogni foggia e colore da tutto il mondo.
Il calendario di montagna oggi è confezionato anche per gli appassionati, che forse sono stati gli ultimi a sentirne l’esigenza. Così abbiamo le evoluzioni degli alpinisti sulla roccia e sul ghiaccio, le salite e le discese degli sciatori e poi ancora i voli in parapendio o le navigazioni estreme del kayak, in una panoramica completa delle attività che la montagna tollera.
Il calendario può essere esposto nel salotto buono, in camera da letto, nello studio, in cucina. E siccome ogni locale ha il suo odore, le montagne acquistano l’odore tipico di quella camera (ma c’è anche un po’ di carta e di tipografia) e propongono quindi un’atmosfera deviata ma conciliante. È un miscuglio del tutto variabile e soggettivo, specialmente in cucina sembra di vedere le Dolomiti al cavolfiore o il Cervino alla cipolla. L’Adamello in naftalina è di là, vicino all’armadio.
In genere il calendario è un oggetto abbastanza rispettato, il fatto che ci si scrivano sopra gli appunti dipende dalla distanza rispetto al telefono e comunque non è offensivo, è solo pratico. E altrettanto pratico è il rituale distacco della pagina che non serve più alla fine del mese. Il foglio staccato ha per destinazione la spazzatura, purtroppo, ma questa è la fine anche di cose ben più degne.
In fin dei conti quella montagna, o quella scena, hanno allietato molte ore, hanno scandito una vita familiare, hanno “dato” quel che dovevano. Chi conserva gelosamente a prendere polvere le pagine staccate passa per un maniaco collezionista.
Il “look” del calendario è variato assai nel tempo. Si può dire che ad ogni anno questo strumento di comunicazione, più diffuso di qualunque libro, registri i cambiamenti delle mode, delle attitudini, dei gusti e delle tendenze. Senza saperlo coscientemente, scegliendolo, apprezziamo una filosofia particolare dell’immagine e questa nostra scelta avrà ripercussioni, nel numero, su coloro che i calendari li fanno dopo aver osservato i “trend” con scrupolo.
A parte i quadretti idilliaci che faceva mia zia Mary, la prima montagna che ho visto è stata con certezza l’immagine di un calendario. I quadretti, indifferentemente a olio o ad acquarello, erano disseminati per tutta la casa. Per osservarli dovevo salire sulle sedie di velluto (sul quale si stampava la suola delle mie scarpe) e ancora allungare il collo. Nella mia curiosità non riuscivo bene a comprendere come mai l’erba avesse i colori così smorti o come un fiore rosso potesse essere così diverso dai fiori veri. La pittrice aveva fatto del suo meglio ma, ahimè, non era riuscita a crearmi un’immagine della montagna: avevo in testa solo dei fantasmi.
Invece il calendario ci riuscì. Era di quelli con una sola foto e il blocchetto dei giorni da strappare, un classico calendario “alla svizzera”, quel tipo di immagini che in effetti si sono ispirate più facilmente alle montagne elvetiche e alla gente che le abita.
Ed ecco quindi la pastorella con le trecce bionde e le guance rosse che mi sorride accanto alle sue mucche ben pasciute, ecco una fontana di legno cui si abbevera un vecchio col bastone, uno chalet tappezzato di fiori, un laghetto che riflette lontane montagne innevate, un villaggio raccolto attorno ad un campanile altissimo e circondato da prati punteggiati di fiori: e sempre fiori che occupano un primo piano su una scena di sfondo che non ricordo. Vorrei ancora poterlo guardare con la stessa intensità di allora, forse un giorno girovagando capiterò negli stessi luoghi. Ma quella bambina con le sue mucche non la vedrò mai più.
In seguito ho odiato quella che chiamavo “la nauseante iconografia del sentimentalismo tardo-romantico”. Vedevo quelle pose innaturali e incomode, perché le montagne erano scelte esclusivamente in base alla loro pittoricità e così anche le situazioni. In generale, l’espressione delle figure sorridenti e delle composizioni garbate era di maniera.
Il fastidio che provavo era una conseguenza alla mia voglia di agire, stavo rifuggendo da ogni forma di contemplazione e non volevo e non potevo fermarmi mai. Avevo la stessa impressione negativa ascoltando un coro alpino, cantori in divisa a gorgheggiare canzoni insulse che si rifacevano a una guerra che invece fu bestiale e terrificante.
Oggi non più. A questo proposito, come dicono i Pink Floyd, mi sento comfortably numb, piacevolmente distaccato. Che ognuno veda la montagna come vuole. È vero però che la diffusione dei calendari svizzeri è diminuita, forse il turismo s’è sviluppato anche altrove, forse abbiamo subito tutti una trasformazione. Siamo sommersi dalle immagini, anche da quelle belle, e spesso non ci emoziona più nulla. La cinematografia e le videoriprese, con il movimento, tolgono spazio alla fotografia e alla fantasia. La fotografia a sua volta cerca nuove strade percorrendo i sentieri della tecnologia, in futuro sarà sempre più soggetta alla rielaborazione a computer. Le immagini si creeranno con sempre maggiore facilità a prescindere da una realtà sempre più lontana e sempre più inutile. La nostra immersione nel virtuale sarà così totalitaria da suscitare una futura ribellione. Per questo, già adesso, vorrei rivedere la bambina con le trecce bionde, con quei colori un po’ scialbi, con le lentiggini sfumate: ed emozionarmi ancora.
Lacs de Fenêtre, Vallese. Sullo sfondo, a sinistra, le Grandes Jorasses. Foto: Alexandre Vouilloz
È stato un caso. Popi ed io, nel Bureau de Turisme di Arâches, abbiamo notato una bella fotografia appesa al muro. La parete est delle Grandes Jorasses campeggiava sopra a un lago bellissimo, sembrava la Muztagh Tower che Vittorio Sella fotografò in bianco e nero all’inizio del ‘900. In entrambi i casi il teleobiettivo aveva operato un forte cambiamento dell’impressione visiva, assai gradevole però. Capimmo subito dove poteva essere quel lago e ci riproponemmo di visitarlo.
Generalmente le mete di chi frequenta la montagna sono costituite da cime, colli o rifugi; qui si vuole invece proporre per obiettivo quello che in genere non è che una tappa fra le tante, lungo un percorso che ha un punto d’arrivo più “importante”.
L’arrivo ai Lacs de Fenêtre avrebbe suggerito una riflessione: quante volte, tesi verso una meta che riteniamo di maggior valore, perdiamo per strada istanti, panorami e angoli di grande suggestione? I laghi alpini vivono di particolare magia che si può cogliere solo interrompendo il parossismo della “corsa alla vetta” per sostare sulle loro sponde. Ve ne sono di tutti i tipi, di ogni dimensione, colore, forma e posizione orografica; alcuni si trovano in gruppo a formare una collana di perle azzurre e riflettere le montagne intorno. Su di loro sono già stati scritti libri corredati da splendide foto, se ne conosce la storia e l’origine, ma raramente essi vengono proposti al turista come unica meta. Eppure il lago alpino, anche la più piccola delle pozze spersa fra riarse pietraie, ci rimanda un messaggio che va oltre la profondità delle sue acque. Come uno specchio (quello di Alice?) ci restituisce la nostra immagine e quella delle cose circostanti, ma allo stesso tempo cela il suo vero mondo. Là sotto c’è vita di batteri, crostacei, pesci e alghe: un mondo vivissimo eppure sconosciuto, che ci attira eppure si nega. Pensiamoci, mentre anche la nostra immagine si riflette in quegli specchi magici.
Ma furono Marco e Federico a salire lassù, un bel giorno di settembre, con mia grossa invidia. C’era la totalità degli elementi per riprendere, nel nostro discorso, il filone del calendario svizzero. Il bel lago, la solitudine, la montagna incantata sullo sfondo. Ma i tempi sono cambiati, non si riesce più a ricreare le condizioni che furono. Copiare sembra facile, poi ci si accorge che mancano molti ingredienti, forse prima di tutto la convinzione. Occorre interpretare al meglio ciò che si ha oggi a disposizione, senza essere ancorati alle immagini del passato. Quel mondo tornerà quando vorrà, oggi è lontano, appartiene ai corridoi della memoria. E alla fine siamo condannati ancora una volta ad essere originali.
Scopri di più da GognaBlog
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.