In questi ultimi due anni si è avviata una collaborazione tra Giovannino Giova Massari, dell’Associazione Arrampigranda, e Gian Piero Porcheddu, della Cooperativa Coesioni Sociali (che si occupa di gestire strutture e servizi in campo Socio-Sanitario-Educativo, in particolare nel settore dei minori affetti da patologie neuro-psichiatriche e/o con diagnosi di ritiro sociale o in carico ai servizi di NPI).
Sono partiti con un laboratorio di arrampicata sportiva indoor per poi costruire delle esperienze in falesia e in montagna.
Da “cosa nasce cosa” e l’interesse di Andrea Gallo (noto climber di livello internazionale passato alla regia di filmati e video sull’ambiente della montagna e non) per questo progetto, nonché l’amicizia con Giova, ha permesso loro di realizzare un cortometraggio dal titolo Portami su.
Questo racconta il percorso intrapreso da ragazze e ragazzi adolescenti “fragili” in cura presso i servizi del SSN: un laboratorio, all’interno del più ampio progetto della Montagna Terapia, che mette in risalto il valore terapeutico, riabilitativo, educativo e preventivo che l’arrampicata può trasmettere ai soggetti più a rischio di emarginazione e isolamento.
L’obiettivo principale che si è inteso raggiungere, con il laboratorio di arrampicata, è quello di realizzare e testare un modello educativo che possa coinvolgere direttamente i giovani e adolescenti, tramite attività sportive di montagna, e che renda concretamente attivo il minore, sviluppando risultati positivi in ottica di potenziamento cognitivo, capacità di empowerment, miglioramento della relazione con il prossimo e acquisizione di maggiore fiducia delle proprie capacità.
Il cortometraggio racconta dunque la storia di questo “laboratorio terapeutico” mettendo in risalto i risultati ottenuti. L’opera ha avuto il patrocinio del GISM (Gruppo Italiano Scrittori di Montagna) e della Scuola Nazionale di Alpinismo Giusto Gervasutti di Torino.
Massari e Porcheddu stanno cercando di socializzare il progetto perché ritengono (e non solo loro ma anche i servizi per minori delle ASL interessate) che ci siano stati dei positivi risultati.
Hanno promosso pertanto delle serate con i CAI del territorio e in alcune scuole per far conoscere il progetto e vedere un bellissimo cortometraggio di arrampicata e di montagna.
Si augurano che altre sedi CAI, Scuole e Associazioni li possano invitare, per far conoscere il progetto e, chissà, essere da volano ad altre esperienze simili.
Poi si sono fatti prendere la mano e hanno dedicato al cortometraggio anche una via: ma siccome il posto meritava, hanno tracciato altre vie così da creare un sito di vie multipich, ottimo per le scuole di arrampicata/alpinismo e per chi vuole alzare il grado.
Su GognaBlog non poteva pertanto mancare un racconto della storia di questo laboratorio che porta il titolo di Portami su e narra non solo della genesi del progetto ma di quante cose siano cambiate in questi ultimi 40 anni, nel mondo della psichiatria.
Portami su
di Gian Piero Porcheddu
Marzo 1993
Varco il portone del manicomio o, come si soleva chiamarlo allora, dell’Ospedale Psichiatrico e un mondo si apre davanti a me.
Avevo vinto il concorso all’USL da pochi mesi e il Direttore Amministrativo, che conoscevo da tempo, mi aveva affidato un compito originale.
– Vai all’Ospedale Psichiatrico, vedi se riesci a fare qualche cosa con i pazienti ancora ricoverati, magari falli lavorare o inventati qualche attività ricreativa, se riesci, falli anche uscire dall’ospedale, basterebbe una gita a Cuneo o a Torino.
La cosa non mi dispiaceva. Di fare l’assistente amministrativo non ne volevo sapere, diversamente un incarico così era nelle mie corde.
Avevo lavorato, appena diplomato, per alcuni anni in un grande centro di riabilitazione con i ragazzi psicotici che arrivavano dal carcere minorile di Torino e poi con un gruppetto di persone autistiche.
Pertanto, ne avevo passate di cotte e di crude e non immaginavo che quello che rimaneva del manicomio più grande del territorio, mi potesse inquietare più di tanto.
Un lunedì mattina iniziai la mia visita, presentandomi alla portineria dell’ospedale e dando in visione il tesserino di riconoscimento dell’USL. Ricordo che fui preso in consegna da un infermiere che mi portò dal Direttore, un omino basso e tarchiato, con il volto tondo, occhi piccolissimi, naso aquilino, che mi accolse con tutti i salamelecchi immaginabili, non fosse altro che ero stato preceduto da una lettera di servizio, che mi qualificava come “esperto di ergoterapia”.
Fatte le debite presentazioni, mi fece accomodare e mi chiese come intendevo procedere; risposi chiedendo di poter visitare la struttura di cui si narravano tante storie (avrei voluto aggiungere gli aggettivi “crudeli e indicibili” ma mi morsi la lingua).
Ebbi una risposta accondiscendente:
– Molto bene, le farò visitare tutta la struttura ma si prepari, ci sarà da camminare tutto il giorno, forse anche di più, mi farebbe piacere che parlasse con tutti i miei collaboratori. Purtroppo non posso accompagnarla però l’affido alle cure del nostro vicedirettore, lui ne sa quanto me… Siamo le memorie storiche di questo Ospedale… ma poi ripassi a trovarmi, le mostrerò molte altre cose ancora. Mi hanno detto che studia ancora, vedrà, ho delle cose interessanti da farle vedere.
Detto fatto venni accompagnato dal vicedirettore, che mi aspettava sulla porta del suo ufficio con alcuni medici e infermieri.
Le persone davanti a me si stupirono della mia giovane età, e chissà cosa pensavano… La qualifica di “esperto di ergoterapia”, faceva presupporre una persona più matura e con la classica “vestimenta” da impiegato statale… Io ero arrivato in jeans, scarpe da ginnastica, polo e maglione peruviano: se non fosse stato per la lettera che mi aveva preceduto, mi avrebbero preso per un paziente.
Ci sedemmo tutti intorno a un tavolo bellissimo. Gli arredi erano veramente splendidi, tutti in legno pregiato, noce e ciliegio, senza fronzoli, lineari, caldi e tirati a lucido.
La stanza era molto grande e ordinata, non un rigo di polvere, non una ditata, era semplicemente tutto perfettamente e “pazzescamente” perfetto.
Ogni posto al tavolo aveva la propria caraffa d’acqua e il bicchiere davanti, la tazzina di caffè e un “bacio di dama” al centro di un piattino.
Il vicedirettore recita il benvenuto della struttura e di tutta l’equipe medica e infermieristica, mi presenta le persone intorno al tavolo, comincia a raccontarmi del loro modello organizzativo, delle cose che stavano facendo per superare la logica del manicomio come luogo di contenzione per trasformarlo in luogo di cura.
Si soffermò, più volte, a raccontarmi il grande sforzo per adeguare la legge 180 (la legge Basaglia sul superamento dei manicomi) alla realtà della struttura e di quante difficoltà ci siano per fare questo cambiamento.
Sottolineò che la mia figura era stata auspicata perché utilissima in questa fase di cambiamento epocale. (Che cavolo avesse scritto il mio Direttore nella lettera di presentazione, non lo seppi mai!).
Iniziò la visita alla struttura: il vicedirettore ed io davanti, dietro le altre persone che erano sedute al tavolo.
Man mano che si camminava, ognuno di loro mi raccontava un pezzo di storia manicomiale, lo facevano a loro modo, perché dimenticare il passato non era cosa possibile al momento e, a onore del vero, neanche utile.
La struttura era grande come un paese e nei periodi d’oro aveva ospitato anche 1.800 pazienti e 700/800 operatori.
Si entrava a volte sani o con piccoli problemi psichiatrici ma si diventava malati, dopo qualche anno…
– Era più facile uscire sani da un carcere che da un manicomio! – mi disse un medico dall’aria sorniona.
Il nome dei padiglioni non me li ricordo più ma a ognuno di loro era dedicato una tipologia di malati: i tranquilli, gli agitati, gli acuti, i maniaci pericolosi, e così via.
Tutto era enorme in questo posto, costruito a fine ‘800: i cortili interni erano dei campi da calcio a perdita d’occhio, vi erano masserie, orti, campi di seminato, forni per il pane, stalle, porcilaie, una colonia agricola che forniva sussistenza al manicomio e regalie ai potenti del territorio. Era veramente una comunità completamente autarchica di cui si andava fieri a quei tempi.
Era così strano questo mondo che non smettevo di fare domande, il più delle volte mi rispondevano senza problemi ma alcune domande fecero finta di non sentirle.
Non insistetti più di tanto, avevo bisogno di loro in futuro e sarebbe stato da stupidi metterseli contro.
Sapevo che cosa erano i manicomi, avevo letto libri, articoli di giornale e sentito tante storie nelle prime assemblee aperte della Lg.180 ma un conto era sentirne parlare, un conto era esserci dentro e toccarle con mano.
Ci misi tre giorni a visitare tutta la struttura, riuscii anche a parlare con alcuni pazienti; erano presenti ancora 120 ospiti: malati psichiatrici anziani o senza più nessuno al mondo e disabili gravissimi.
Al quarto giorno tornai dal Direttore con una serie di appunti e domande da fare.
Mi accolse con la solita devastante gentilezza e cortesia. Prima che potessi iniziare a parlare mi invitò a seguirlo.
Attraversammo un lungo corridoio per arrivare dall’altro lato dello stabile, ci fermammo davanti a dei grandi tendaggi grigi che nascondevano una monumentale porta di legno che aprì con aria solenne; dentro penombra, dei tendoni di panno spesso e pesante coprivano la luce esterna ma dei lampadari circolari e immensi diedero subito luce a quello spazio, illuminando la stanza che ora si dimostrava per quella che era: un’aula magna.
Cominciò a raccontare che il manicomio in questione fu trai primi ospedali in Italia che sperimentò l’elettroterapia, cioè l’elettroshock prima e la lobotomia dopo (quella che ridusse al silenzio il pazzariello simpatico – Jack Nicholson – del film Qualcuno volò sul nido del cuculo).
Davanti a me le apparecchiature di una sala operatoria dell’epoca: gli elettrodi. Le cinture di contenzione, il casco che portava corrente, la dinamo che la produceva.
Tutto intorno all’aula magna, foto in bianco e nero: in alcune mi sembrava di intravedere dei crani aperti, ma non domandai nulla, in altre si vedevano chirurghi dell’epoca, con lunghi camici bianchi e il bisturi in mano.
Rimasi impietrito, guardavo le immagini delle foto con curiosità ma senza avvicinarmi troppo, non volevo certo vedere i dettagli.
Il Direttore intanto continuava a parlare, spiegava i grandi passi fatti dalla medicina in questa struttura, le prime sperimentazioni di elettroterapia diventate poi consuetudine negli anni successivi.
Continuavo a rimanere immobile, giravo su me stesso per guardare tutto ma non mi avvicinavo troppo e, alcune volte, chiusi gli occhi.
Settembre 2021
Giuliana e Marco, rispettivamente la responsabile della Comunità Minori e il responsabile dell’area progetti del Consorzio, chiedono di parlarmi su un progetto da presentare alle fondazioni bancarie.
In ufficio tutti sanno della mia passione, oramai sono abituati alle mie assenze nelle giornate primaverili di bel tempo oppure nelle ghiacciate mattinate invernali.
Dopo quasi quarant’anni posso permettermi qualche assenza non programmata e sicuramente rompo meno di quando rimango in ufficio.
Seduta stante e senza tanti giri di parole, mi illustrano il nuovo progetto del Laboratorio di Arrampicata.
Questa volta, a differenza del passato in cui abbiamo portato i nostri ragazzi in palestra di arrampicata indoor, si parla di uscite in falesia e in montagna.
Cerco di non farmi condizionare troppo da questo entusiasmo e rimango nel ruolo che mi compete… ma essere “distaccati” non è facile.
Comunque il progetto è buono e, se le Fondazioni Bancarie ce lo finanziano, non dovremo spendere neanche cifre folli.
Manca solo qualcuno che ci porti in montagna e in falesia e chiedono che ci pensi io.
Qualche guida alpina che conosco potrebbe fare al caso nostro, però, da qualche mese è operativa l’associazione US Acli Arrampigranda di cui è Presidente Giovannino Massari.
Lo chiamo e combiniamo una chiacchierata, gli anticipo il progetto e mi risponde con l’entusiasmo che serve in queste occasioni.
Giovannino è un insegnante e, come tale, ha avuto come allievi alcuni dei ragazzi che ospitiamo nelle comunità, pertanto sarà facile inquadrare il progetto.
Giova è uno di quei personaggi alpinistici a dir poco unici, ha sembianze umane ma, secondo me, è sicuramente un extra-terrestre perché riesce ad arrampicare pur con un grave quadro patologico.
Avevo sentito parlare di lui da Lino Castiglia e mi fece subito una grande impressione pensare come una persona dializzata potesse fare quello che lui faceva.
Oddio 30 anni fa, su alcune vie alla Castello-Provenzale, lo mandai – mentalmente – a quel paese, quando affrontai dei passi che lui aveva recensito sulla guida di V+ ma erano almeno dei 6b, chiodati eterni.
Avevo letto alcuni suoi scritti e rimasi ammirato dalla sua scelta di vivere alla grande, nonostante i suoi problemi di salute che, invece di essere da freno, erano quasi un incentivo a fare di più e meglio.
Eh sì, Giova era un personaggio che avevo sempre ammirato e conoscerlo di persona mi faceva veramente piacere.
Siamo al tavolino del bar davanti al Municipio di Mondovì, due orzi lunghi e le nostre chiacchere iniziano.
Giova mi racconta di lui, del progetto di “Arrampigranda”, che ha fatto incazzare non poco l’associazione Guide, dell’amarezza per alcune persone con le quali aveva condiviso belle giornate di arrampicata e che oggi, per via del suo progetto, non gli parlano più. Certo spiace, ma alla fine le annunciate denunce per abuso della professione e cazzate simili sono cadute nel vuoto per manifesta incongruenza.
Gli faccio notare che sarebbe stato anacronistico e sciocco mettersi contro uno come lui, volente o no, è un personaggio che può dire la sua per le cose che ha fatto in falesia e in montagna e per un’attività alpinistica che non è seconda a nessuno.
Giova a Finale faceva parte di quella élite che strapazzava le vie di grado 7a, b e c (8 ?), erano gli anni in cui arrampicavamo ancora con i pantacollant (a dir poco dai colori e disegni orribili!) comprati al mercato ma la roccia offriva delle vie che sarebbero rimaste nella storia dell’arrampicata. Sulle cascate di ghiaccio si lanciava sui temuti 5+/6 nelle valli monregalesi e cebane, oppure ripeteva le cascate che Giancarlo Grassi recensiva “ED”. Senza dimenticare le vie che chiodava in montagna, dove, oltre a fare il grado come in falesia, si divertiva a scalare in free solo! E tutto questo continuando a fare la dialisi 3 volte alla settimana… se non è un extraterrestre, poco ci manca!
Chiacchierare con Giova era qualcosa di speciale e sentirlo chiedermi delle mie salite in montagna o cosa ne pensassi delle sue ultime creature in falesia…mi riempì di orgoglio.
Alla fine parlammo anche del progetto.
Conosceva i ragazzi della Comunità e aveva anche dei bravi istruttori che ci sapevano farce con i ragazzi.
Pochi minuti e l’accordo era preso: i maestri di arrampicata di “Arrampigranda” avrebbero portato i nostri ragazzi ad arrampicare in falesia e in montagna: il progetto si concretizzò dopo qualche settimana.
Le partenze di nuovi laboratori sono sempre un pochino complicate, lo sanno bene i ragazzi che si divertono anche ad essere più agitati di quello che sono normalmente… anche solo per fare casino e mettere un pochino di pepe all’attività.
Questa volta furono tranquilli e rilassati come non mai.
Si andava in posti nuovi e all’aperto, l’anno prima ci eravamo dovuti chiudere per settimane in comunità, per colpa della pandemia. L’attività si presentava strana ma avventurosa, e poi la si poteva raccontare agli amici come un qualcosa di unico e di “figo”.
Avevo prestato ad alcuni di loro dei libri di montagna e penso che già si immaginassero di essere dei Bonatti o dei Manolo pronti a scalare le guglie più inaccessibili.
Appuntamento al casello autostradale di Mondovì. Si parte per la falesia e arrivati al parcheggio di questa, si distribuisce il materiale ai ragazzi e si parte per andare sotto le pareti. Keoma, Enrico e Roberto sono i maestri di arrampicata, cominciano a spiegare le manovre più elementari, soprattutto mandano messaggi tranquillizzanti sul fatto che salire la parete con la corda che li trattiene dall’alto è un bellissimo gioco.
La giornata scorre tranquillamente; i ragazzi, a turno, scalano la parete: chi con dimestichezza e chi attorcigliandosi come un pitone sulla corda; si scherza, si ride, ci si sbeffeggia, tutto come una normale uscita di climber collaudati e attempati.
Noto in disparte il nostro più piccolo allievo.
Igor è un bambinetto che, se tira il vento, bisogna mettergli le pietre in tasca se non vogliamo vedercelo volare via; spiccica una parola alla settimana, ha due occhioni grandi in un faccino piccolo, piccolo. Ha accanto il suo educatore, tutto il giorno ha guardato i suoi compagni arrampicare ma lui non ne ha voluto sapere di mettersi l’imbrago.
Lo chiamo e gli dico se vuole salire assieme a me su un pietrone appoggiato alla parete; insisto, insiste anche l’educatore; alla fine, dopo quasi 20 minuti di inviti e lusinghe, riusciamo a convincerlo.
Mi metto dietro di lui, prendo le sue mani nelle mie e le appoggio sul pietrone. Poi gli dico di alzare una gamba e poi l’altra, ma non ne vuole sapere. Provo a dirgli di farlo in orizzontale, ci prova. Mentre sposta le gambe io gli sposto anche le mani, facciamo 3/4 metri intorno al pietrone rasentando il suolo. Siamo alti 20 cm da terra però ci muoviamo, lenti ma ci muoviamo.
Ripetiamo l’esercizio per un paio di volte e poi arriva l’ora della merenda; Igor molla tutto e si dirige verso il resto del gruppo oramai interessato più ad addentare il panino che a fare il secondo giro appesi alla parete.
Igor riuscirà a mettersi l’imbrago e salire di un paio di metri sulla parete. Ci sono volute tre uscite, un milione di parole rassicuranti e almeno tre panini con la nutella, però viene classificato come un ottimo risultato anche dalla psicologa dell’ASL.
Aprile 1993
Ho il progetto di ergoterapia pronto e lo sto portando al Direttore per farglielo vedere e poi partire in settimana con le attività agricole e della lavorazione del cuoio.
Il Direttore mi accoglie con la solita gentilezza che mal comprendo ma che accetto, obtorto collo, perché non posso polemizzare con chi mi tratta con i guanti bianchi.
Questa volta mi attende in piedi e, prima che possa parlare del progetto, mi ferma con il gesto della mano e parla lui.
– Il Presidente dell’USL non ha gradito la sua relazione sulle questioni economiche, in particolare su come teniamo i conti correnti dei degenti. Mi ha comunicato che è stato sollevato dall’incarico e pertanto la saluto, è stato un piacere conoscerla.
Rimango come uno stoccafisso. E dire che avevo descritto la tenuta dei conti correnti degli ospiti come uno degli esperimenti più interessanti e nobili del manicomio. Non solo era tutto “perfettamente perfetto”, ma garantiva agli ospiti un rendimento maggiore sui loro conti correnti. Avevo solo suggerito di aprire uno sportello Bancomat all’interno dell’ospedale, così da permettere agli ospiti (che erano in grado di farlo) di vivere un pezzettino di normalità e non chiedere sempre agli infermieri la “paghetta settimanale” per comprare le sigarette.
Non replicai alcunché e tornai in ufficio incazzato nero.
Chiesi di parlare immediatamente con il mio direttore; appena mi vide non mi fece proferire parola.
– Non dire nulla, so tutto ma non fare casino; stamattina è arrivata la comunicazione del tuo distacco sindacale, da domani sei fuori ma vedi di ricordarti di quello che hai visto in questi mesi, i tempi non sono ancora maturi qui da noi ma le rivoluzioni le puoi fare altrove.
Marzo 2023
Siamo sulla terrazza del Castello di Dogliani, sede del nostro Centro Giovanile, la giornata è stranamente calda per la stagione, i ragazzi del centro ci portano il caffè, prima di dedicarsi alle attività insieme ai loro operatori.
Il gruppo di lavoro è al completo; i maestri di arrampicata Giova, Roberto e Keoma, gli educatori che seguono i ragazzi, i coordinatori del dipartimento ed io; oggi dobbiamo decidere come proseguire e le uscite che faremo in falesia e in montagna.
A questo punto pare tutto organizzato ma Roberto se ne viene fuori con un’idea: almeno nei due giorni al rifugio, sarebbe bello fare un piccolo video da far vedere ai ragazzi e alle loro famiglie e poi usarlo come materiale di rendicontazione alle fondazioni che hanno sostenuto il progetto.
Come molte volte accade, le proposte più strampalate sono anche quelle che entusiasmano le persone e così tutti si dichiarano d’accordo su questa idea e si impegnano a cercare qualcuno che sia capace di fare video, così da creare un qualcosa di presentabile.
Passano i giorni e ricevo solo telefonate di chi pensava di avere la persona giusta per il video ma la persona giusta era già impegnata.
Poi mi chiama Giova.
– Ho trovato una persona che è interessata al progetto per girare un video.
– Bene – gli rispondo – Chi è? Così lo chiamo e vediamo di concordare il tutto.
– È un mio vecchio amico, Andrea Gallo… si è subito entusiasmato al progetto.
– Ma chi? Andrea Gallo quello di Finale?
– Sì.
– Cavolo mica “micio-micio, bau -bau” quello è un professionista, ci costerà un patrimonio…
– Tranquillo, vedrai che è la persona giusta, parlatevi e vedrai che una quadra la trovate.
Ha ragione Giova, il tempo di una lunga e simpatica telefonata e non solo troviamo la quadra per gli aspetti organizzativi in tre minuti, ma ci mettiamo a parlare del progetto sulla stessa lunghezza d’onda che avevo trovato la prima volta che ne parlai a Giova.
Passa una settimana e si combina di incontrarci tutti e tre, Giova, Andrea ed io.
Li invito a pranzo nella nostra Osteria Sociale “Magna Neta”, così vedono un altro progetto della Cooperativa e possiamo chiacchierare tranquillamente.
Del progetto parliamo dieci minuti, tempo di trovare una data per la prima uscita con i ragazzi e di scegliere la falesia; il resto del pranzo si finisce a raccontare i tempi passati. A onore del vero io ascolto e loro raccontano di Finale, di Arco, di Montecarlo, del Buoux, dei viaggi in Verdon, in Dolomiti e altri posti della mitologia arrampicante di quel periodo.
Ascolto e rido come un matto!! Da quando hanno cominciato a parlare si prendono in giro vicendevolmente, raccontando fatti e misfatti uno dell’altro e dei tanti personaggi che hanno frequentato e che ora sono Storia dell’Arrampicata.
Scopro così due persone che hanno tantissimo da raccontare di quel periodo unico e li esorto a farlo perché loro ne sono stati protagonisti a tutto tondo. Navighiamo anche in un progetto, che si vorrebbe fare, di interviste e racconti di quei momenti, andando a rifare le vie o, forse, più verosimilmente, farle vedere a chi ne ha solo sentito parlare.
Bene, le idee non ci mancano di certo ma per ora le accantoniamo per pensare al nostro cortometraggio.
Si decide di andare alla “falesia degli Astigiani”, una falesia storica del monregalese che Giova sta rimettendo a posto e aggiungendo nuovi tiri.
Andea arriva con un furgone accompagnato da suo figlio; scaricano una quantità di materiale incredibile che si caricano in spalla e cominciano a precederci sul sentiero di accesso alla falesia. I ragazzi paiono impazziti!! Vedere un drone che li filma mentre arrampicano e la telecamera a spalla che li inquadra li rende super eccitati e non stanno fermi un minuto. Sono in quattro istruttori, più io di riserva, a farli arrampicare e ci sono almeno altri quattro educatori che ci danno manforte, così da non perdere di vista quello che accade.
La giornata passa in men che non si dica; Andrea e suo figlio sembrano dei furetti indiavolati che ci ritroviamo sopra la testa mentre assicuriamo, affianco mentre arrampichiamo, sbucano dietro un masso dove ci eravamo seduti a guardare arrampicare i ragazzi. Una giornata epica che sarà ricordata a lungo da tutti noi.
L’uscita al rifugio Mondovì è ancora più bella; Andrea ci ha anticipato di qualche ora al parcheggio di partenza e ha cominciato a far volare il drone che, come un’aquila, sta sopra le nostre teste e riprende tutto quello che accade.
Ci accompagna Monica, una guida escursionistica che, mentre camminiamo in fila indiana, ci spiega il territorio, ci indica il nome delle montagne in lontananza, ci insegna il nome dei fiori e delle piante che incontriamo e ci racconta la vita di pastori, rifugisti e alpinisti che hanno frequentato questi luoghi.
Alla sera stanchi, anzi distrutti, da questa camminata, eccoci al rifugio e, come d’incanto, tutto si acquieta, le parole sono dette sottovoce, i rumori attenuati dal momento solenne di entrare in un luogo di cui abbiamo parlato per settimane (per tutti i ragazzi è la prima volta che vedono ed entrano in un rifugio alpino), ci dividiamo nei letti a castello e nelle stanze che il gestore ci ha messo a disposizione, tutto con calma tutto in modo disordinatamente ordinato come si conviene a una compagnia di adulti e adolescenti felicemente scapestrati.
A cena e nel dopocena, scherziamo sul fatto che le mucche che abbiamo visto al pascolo sono molto grandi, talmente grandi che i ragazzi pensano siano una razza speciale allevata per resistere al freddo e alla neve. Ci ridiamo su e lasciamo che ognuno esponga la sua teoria, farlocca, su come le mucche si “trasformino” in bistecche.
Al mattino neanche uno di loro si fa richiamare due volte per alzarsi e prepararsi all’escursione; tutti pronti in un’ora.
Oggi si va alla falesia di “Gias Gruppetti”, una bella struttura riscoperta da “Arrampigranda” a quasi mezzora dal rifugio, attrezzata perfettamente per scalare in sicurezza in un contesto alpino e carsico tra i più suggestivi della zona.
Mentre si cammina e poi si arrampica, il nostro Andrea gira con il drone e con la telecamera a spalla per non perdersi un solo momento della giornata; ne verranno fuori delle scene bellissime che farebbero invidia ai documentari di “Geo & Geo”.
Gli istruttori di “Arrampigranda” non mollano un istante il gruppo e così la giornata permette a tutti di scalare su un calcare bianco che spella per bene i polpastrelli dei nostri ragazzi lasciandoli senza parole ma contenti e appagati di quello che hanno fatto in questi due giorni.
“Arrampigranda” sceglie la falesia di Monte Moro per chiudere il corso; abbiamo deciso che in questa giornata faremo le interviste ai ragazzi e agli istruttori, per dare voce al cortometraggio. Andrea coglie i momenti salienti tra i ragazzi, le loro manovre, le parole che si scambiano tra di loro, raccoglie le testimonianze degli istruttori.
La giornata è perfetta, una luce particolare ci coglie mentre ritorniamo ai pulmini, tutto è stato fatto secondo il programma (un programma inventato al mattino prima di partire!) e ci mettiamo almeno un’ora a salutarci, non fosse altro che qualche ragazzo non lo vedremo più perché lascerà la comunità con un ricordo di quanto ha vissuto in queste ultime settimane.
Per tutti gli altri l’appuntamento è a una serata in pizzeria per vedere di organizzare una prossima uscita in falesia. Me li guardo in disparte e penso che questo laboratorio sia riuscito alla grande, non fosse altro perché ho visto sorridere ragazzi che hanno sempre avuto uno sguardo malinconico e perché li abbiamo “contaminati” con la nostra passione.
Ottobre 2024
Entro nei locali di quello che fu l’ospedale psichiatrico, nulla è rimasto di quanto avevo visto trent’anni prima, faccio fatica persino a ricordare quelle stanze, all’epoca in ordine, pulite e curate; oggi il colore dell’intonaco si stacca dalle pareti e i vetri delle finestre sono opachi.
Stiamo facendo, con altri due colleghi, un sopraluogo per verificare se vi sia la possibilità di recuperare degli spazi per aprire dei servizi territoriali su progetti dedicati ai disturbi del comportamento alimentare, nuova piaga tra gli adolescenti.
Mi allontano dal gruppo che un funzionario del Comune sta guidando come un cicerone in un museo. Cerco di ricordarmi i percorsi per ritrovare quell’aula magna che vidi una sola volta ma che, per anni, mi ripromisi di rivedere.
Giro a destra, salgo di un piano, cammino per un lungo corridoio sentendo i miei passi e in lontananza, il vocio del gruppo che ho abbandonato.
Non so che giro io abbia fatto ma, sta di fatto, che mi ritrovo davanti ai grossi tendaggi che ricordavo, oramai laceri dagli anni di incuria; mi avvicino, li sposto, prendo la grossa maniglia della porta per girarla.
Una voce, un pochino adirata, mi coglie alle spalle.
– Non può entrare, la porta è chiusa, è un locale che il Comune non mette a disposizione, per cortesia, ritorni nel gruppo.
Mi giro e lo vedo, è il clone del direttore o almeno ha lo stesso sguardo, occhi piccoli e il naso aquilino, solo la voce è diversa: lasciva quella di allora, perentoria quella che ascolto oggi.
Gli chiedo scusa e gli spiego che volevo solo vedere una stanza in quanto ero stato un dipendente che aveva lavorato lì tanti anni prima.
– Mi spiace è impossibile, non abbiamo le chiavi delle stanze a questo piano – e con un movimento circolare del braccio e della mano mi invita a ritornare nel gruppo.
Non ho scelta, mi rimetto sui miei passi e raggiungo il gruppo.
La visita è finita, con i miei collaboratori decidiamo che, dei locali messi a disposizione, nessuno può essere utile per i nostri progetti e pertanto mi dirigo verso il Comune per annunciargli la nostra decisione.
In Comune mi fanno parlare con il responsabile del servizio economato e in modo sbrigativo gli spiego le ragioni del nostro diniego. È una persona a modo e comprende le mie argomentazioni senza problemi; vista la disponibilità offerta per vedere altri locali in futuro, provo a chiedergli se posso visitare una parte dell’ospedale psichiatrico che non faceva parte dei locali messi a disposizione dal Comune in questa occasione.
Gli racconto del fatto che un loro collega mi ha redarguito perché volevo aprire una stanza le cui chiavi erano custodite in Comune.
Mi guarda con aria stupita, non capisce cosa gli stia chiedendo e allora gli racconto cosa mi era accaduto un’ora prima.
Sorride…
– Non è un nostro collega, è Giovanni, un signore a cui abbiamo intimato di non entrare nella struttura ma lui riesce a trovare sempre qualche pertugio nuovo e fare qualche giro a nostra insaputa.
Gli faccio notare che sembrava conoscesse molto bene la struttura e sapeva come muoversi tra quei lunghi corridoi e stanze oramai deserte.
– In paese se ne dicono tante, anche quella che lui ci sia vissuto nella struttura non so se come malato o altro. Noi abbiamo segnalato la cosa ai servizi sociali, ma non ha mai fatto nulla di male o di che lamentarci, pertanto ci passiamo sopra.
Scendo le scale del Comune e mi trovo in piazza, dall’altra della strada ecco il muro di cinta dell’ospedale psichiatrico, i suoi rossi mattoni, oramai consumati dai decenni di incuria.
Cammino sul lato opposto della strada per vedere bene la cinta muraria dell’ospedale, arrivo a quella che era stata la portineria e il passo carraio dell’ospedale, oramai sbarrato e lasciato alle bottiglie di plastica abbandonate.
Lo guardo bene, cerco di ricordarmi cosa sentii la prima volta che oltrepassai quella portineria, ho dei ricordi sfuocati, come dei sogni che si ricordano a malapena al mattino.
Mi sforzo di ricordare quello che ho visto e sentito in quell’esperienza durata tre mesi; gli occhi che ho incrociato parlando con gli ultimi degenti del manicomio, le parole sconnesse dei loro pensieri, quella voglia di vivere una normalità impossibile, sono oramai nei ricordi che stanno sfumando.
Salgo in auto, sono solo perché devo raggiungere un’altra sede della Cooperativa; mentre faccio retromarcia, vedo nello specchietto Giovanni che cammina, con passo lesto, verso di me, fermo l’auto e lo attendo.
Quasi arrivato sul lato sinistro dell’auto, si curva un poco verso il finestrino e mi guarda, il suo sguardo è interlocutorio, poi si rabbonisce e mi sorride, si alza di nuovo e si allontana senza dire una parola. Lo guardo e provo a immaginare chi sia veramente Giovanni ma poco importa oramai, anche lui è diventato un ricordo.
Ciano Pillar
(alle pendici del Monte Merdenzone)
Accesso: da Prato Nevoso (CN) raggiungere il Colle del Prel ed imboccare la strada per Fontane. Scendere oltre Stalle Penna e dopo alcuni tornanti parcheggiare in corrispondenza della partenza del sentiero per casera Veja (4 km dal colle). Ovviamente è possibile arrivare anche da Fontane con un itinerario stradale sull’altra vallata (Val Corsaglia). Ricordarsi di parcheggiare a bordo strada e lasciare spazio per il passaggio di auto, moto e biciclette: se non trovate posto, scendere di un centinaio di metri e parcheggiare in un ampio spazio verde ad un tornante.
Imboccare il sentiero e poco prima di uscire dal bosco reperire a destra una serie di ometti e bolli rossi (ora presente anche una targhetta con nome e freccia indicativa) che, superando una pietraia, conducono alla base dell’evidente struttura (25’).
Storia e caratteristiche: questa evidente struttura alle pendici del Monte Merdenzone ha attratto per primo Igor Napoli, esploratore di queste vallate, che, nei primi anni del nuovo millennio, traccia la prima via, Kyè, seguendo fino in vetta la successione delle torri.
Nel corso di successive esplorazioni Giovanni Massari e Gian Piero Porcheddu decidono di chiodare nuove linee trasformando il pilastro in una piccola palestra per l’arrampicata di più tiri ma con la possibilità di ulteriori monotiri alla base.
Il Pilastro è dedicato all’amico Ciano Orsi, chiodatore, fornitore e inventore di materiali per la chiodatura su roccia e ghiaccio, recentemente scomparso.
Le vie qui presentate sono soltanto le multipitch. L’arrampicata si svolge su muri quarzitici forniti di caratteristici “knobs” (pietre intruse) che consentono un’arrampicata tecnica ed elegante su roccia sempre ottima.
Alla base di ogni multipitch è presente una targhetta che indica il nome della via mentre alla base dei monotiri, per ora, non c’è nulla.
Discesa: in doppia sulle vie Portami su, Le scamorze di Fata Morgana e su Merluzzo & Piagnina, o (consigliata) a piedi per evidenti tracce a sinistra della struttura (dalle ultime soste menzionate, seguire i bolli rossi che riportano all’attacco delle vie in 10 minuti).
Materiale&chiodatura: sono sufficienti una corda da 50 m (oppure una mezza corda usata doppia) e 10 rinvii (di cui almeno due “lunghi”).
Chiodatura a Fix zincati friulsider 10 mm e/o Fix Inox e placchette in acciaio Petzl o a Fix inox con placchette Kinobi. I primi tiri delle multipitch sono attrezzati per la moulinette.

1) Kyè, 60m, 3 lunghezze (L1: 5c+, 2om. L2: 4c, 18m. L3: 5b, 35m.). Chiodatura rivista.
2) Knobs Lovers, 65m, 3 lunghezze (L1: 6a, 22m, L2: 4b, 16m. L3: 5c, 25m)
3) OrsoCiano, 70m, 3 lunghezze (L1: 6a+, 2om. L2: 6a+, 25m. L3: 5c, 25m)
4) Portami su, 70m, 3 lunghezze (L1: 6a+, 22m. L2: 6b, 22m. L3: 6a, 25m)
5) Le Scamorze di Fata Morgana, 70m, 4 lunghezze (L1: 6a+, 22m; L2: 6b+, 20m; L3: 6a+, 20m; L4: 5c, 15m.(Le Scamorze di Fata Morgana ha dato spunto al racconto Il guado che è stato pubblicato sull’Annuario 2025 del GISM).
6) Merluzzo & Piagnina, 90m, 5 lunghezze (L1: 6b+, 15m; L2:6a+, 15m: L3: 6a, 20m; L4: 6a, 25m; L5: 5c, 15m).
Le vie sono state chiodate da Giovannino Giova Massari e Gian Piero GPP Porcheddu tra il 2024 e il 2025.
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L’iniziativa è sicuramente encomiabile e da lodare, però mi pare che ci sia il coordinamento, e forse qualcosa in più, del servizio sanitario nazionale, quindi parlare di volontariato è fuori luogo.
Poi ci sarà anche chi vi opera in qualità di volontario ma la cosa sembra condotta da professionisti o similari e non volontari.
Purtroppo queste azioni, che sottolineo:ammirevoli per il contesto in cui operano, sono spesso viste come “celestiali” anche quando sono soltanto opere a sostegno dei più deboli.
Lo dico perché ho da poco assistito a una presentazione del Soccorso alpino in cui aleggiava un esagerato sbrodolamento di complimenti reciproci tra persone che, fanno si un opera di indubbia utilità sociale, ma l’hanno scelto e si spera, non per fare la figura degli eroi (come invece sembra), ma perché credono che aiutare chi ne ha bisogno sia giusto.
Paolo, sono d’accordo.
… … …
“[… ] bisogna togliersi non uno ma molti cappelli.”
Però di cappelli ne portiamo uno solo in testa.
😀 😀 😀
Sarà perché nel campo dei “fragili” ho fatto volontariato per 7 anni con anche 2-3 uscite in montagna, perché mia figlia nel 2001 aveva fatto la tesi di laurea su 3 degli ultimi 12 pazienti rimasti nel manicomio di Racconigi (e l’avevo letta tutta con vero interesse), perché una sera intorno al 2000 ho conosciuto Massari a una riunione di Alpidoc a Mondovì o Peveragno e mi aveva colpito per chiarezza e modestia, sarà per tutto questo ma il racconto mi pare scritto in modo magistrale, e se si va alla sostanza, bisogna togliersi non uno ma molti cappelli. Ottima scelta del gestore del blog.
Iniziativa encomiabile a dimostrazione che andare in montagna non è solo “gradi, performance, dislivelli, tempi, attrezzatture, ecc ecc ecc”, ma può anche essere “terreno” per impegno di volontariato a sostegno di persone meno fortunate di noi. Si sa che esistono molte altre iniziative, anche in altri settori di sofferenza fisica o esistenziale o semplicemente a sostegno di giovani che, altrimenti, si perderebbero in chissà quali meandri sbagliati: sono tutte iniziative da elogiare.