Ricordi di un itinerario invernale
(in solitaria sulla via Eisenstecken alla Roda di Vaèl)
di Heinz Grill
(traduzione di Barbara Holzer)
Un amico che soffriva per la costante alienazione d’arrampicata e che aveva molti anni di esperienza come alpinista disse una volta: “Nelle vie più facili si incontrano le persone più piacevoli”. Molti amanti della natura e della roccia potrebbero fare questa osservazione. L’alpinismo estremo, al di sopra dei facili sentieri, costretto nella temerarietà di una linea verticale ed esposto all’avventura dei cieli, conduce spesso e facilmente l’animo a livelli altezzosi e alla superba arroganza. Chi è abituato a separarsi dalla massa degli escursionisti e a arrampicarsi sulle altezze ardite sopra le loro teste, difficilmente può evitare la tentazione, nella sua data posizione di superiorità altimetrica, si senta anche come un individuo migliore. Come in un’intossicazione d’alta quota, molti alpinisti sono segretamente attanagliati da un vigoroso sentimento di superiorità pieno d’orgoglio. Gli escursionisti, che percorrono itinerari abbastanza semplici e che a volte da inesperti devono andare quasi a quattro zampe, dal sentiero ammirano l’alpinista che è sopra di loro, mentre questo può godere in segreto di quell’ammirazione che gli viene tributata, nell’euforia dell’estasi della verticale. L’altezzosa sensazione di orgoglio è probabilmente una delle sensazioni più familiari all’alpinista, in particolare non appena ha superato qualche difficile itinerario.
Oggi, dalla posizione sicura in poltrona, mi passano per la mente alcuni ricordi di un’audace scalata di quarantasette anni fa. L’arrampicata, soprattutto quella in solitaria senza corda e completamente lontana dalle folle e dalle postazioni della civiltà, mi ha portato allora, in gioventù, ad un confronto profondo, ad uno sviluppo di pensieri e ad un’esperienza di sentimenti profondi che probabilmente corrispondeva più alla purezza intuitiva tipica dei bambini. Allo stesso tempo, il percorso solitario mi ha anche portato a cogliere e ad apprezzare tutto ciò che ha significato per l’essere in compagnia, per l’integrazione in una comunità e per l’attenzione interiore nei confronti di coloro che ti sono vicini. L’arrampicata in solitaria su roccia ripida era quindi più un sentiero collocato all’interno dell’anima, in modo che i fatti quotidiani, con le loro esigenze spesso competitive, potessero essere nuovamente vissute in modo più modesto, più distaccato e quindi come parte relativa. Era la vita che si avvicinava in senso diretto quando si lasciava il sentiero e ci si preparava a una parete verticale con le sue richieste spesso così imprevedibili. Arrampicarsi su pareti remote, lontane da ogni civiltà, inosservate da spettatori e talvolta anche isolate da veli di nebbia, ha avvicinato i miei sensi alla materia e ad un sentimento consapevole verso la montagna.
Quando un ricordo come questo entra di nuovo nella mente dopo quarantasette anni, rimane solo l’essenziale, mentre tutto ciò che è inessenziale e relativo scompare nell’oscurità dell’inconscio. Era inverno sulla Roda di Vaèl , la classica parete delle Dolomiti vicina al Passo di Costalunga: in quella giornata lasciava appena trasparire la sua faccia giallo-rossa attraverso la nebbia. Gli impianti di risalita per lo sci erano in funzione e la stagione era molto intensa. Gli amici sono rimasti sulle piste, mentre io ero preso dal grande fascino di quel mare di roccia. Fortunatamente, in macchina ho trovato le mie scarpette da arrampicata appena acquistate, le “Superfriction”, che all’epoca erano le migliori scarpe da arrampicata. Queste scarpette erano una grande conquista per noi in giovane età. Avevamo lasciato a casa corde, moschettoni, imbragature e altro materiale per l’arrampicata, poiché non ci si aspettava che le vie di arrampicata fossero percorribili in inverno. La salita iniziò lasciando le piste, verso i ripidi pendii semi-ghiacciati, entrando nella massa di nebbia fino ai piedi della possente parete della Roda di Vaèl. La via di Otto Eisenstecken sulla parte sinistra della parete era la mia meta.
Non avendo a disposizione alcuna attrezzatura, ho estratto dallo zaino un anello di cordino di quattro millimetri di spessore, che avrebbe dovuto servirmi per infilare i chiodi durante l’arrampicata. Era molto freddo e ventoso. Probabilmente la parete con quelle rocce sulfuree di colore giallo vivo e spesso un po’ friabili amplificava l’impressione parecchio spiacevole di un’atmosfera già da brivido. Le fessure, tuttavia, erano sorprendentemente facili da scalare e in cima allo strapiombo, più o meno dove la parte centrale della parete si apre in una ripida rampa che porta alla vetta, c’erano abbastanza chiodi, che ho caricato alternativamente una volta con il dito e una volta con il cordino. I sentimenti che permangono oggi, dopo quarantasette anni, sono meno legati ai dettagli del percorso, ma molto più alla sua totalità e al suo carattere particolare. Da un lato, la salita era elegante, ma dall’altro era temeraria, ed era la chiusura in alto della linea a produrre una certa sensazione di intrappolamento, che aumentava fino alla piena sensazione di essere in balia della parete. A partire da una certa altezza, e questo soprattutto dopo aver superato lo strapiombo centrale, un’eventuale discesa si faceva sempre più improbabile, mentre la prosecuzione giaceva ancora nell’incertezza. Sotto di me si stendeva una nebbia opaca e sopra la mia testa un velo scuro e spesso, quasi spalancato. La rampa, con una fessura larga un pugno, era coperta in molti punti da spessi blocchi di ghiaccio.
Ricordare questa via in solitaria della mia giovinezza, mi fa sentire un po’ in apprensione oggi, perché il mio sentire vitale mi faceva intuire passo dopo passo la profondità della natura appartata della montagna. Qui non c’è nessuno in giro in questo periodo dell’anno. L’intero gruppo del Catinaccio sembrava solitario, protetto da un velo di nebbia. Le mie dita si sono attaccate al ferro dei chiodi, anche la roccia sembrava appiccicosa per il freddo. A quanto pare, però, questo freddo mi ha fatto sentire abbastanza bene, perché non ha influito sull’arrampicata. La via continuava, in salita per la ripida rampa, superando lastre e facili strapiombi, finché finalmente, dopo un ultimo passaggio, la parete si inclinò e apparve sempre più neve. Mi ritrovai a gestire bene, in movimento ritmico, gli ultimi metri fino alla via ferrata che portava alla vetta.
In un certo senso, già in gioventù avevo un’idea di quanto sia vero che su queste salite rischiose esiste una specie di guida superiore. In queste scalate in solitaria non si parlava né di procedimenti logici e riflessivi, né di valutazioni sulla nostra riserva di sicurezza e nemmeno di una migliore messa a punto dello stato di allenamento. Come può tornare indietro un arrampicatore solitario se la parte superiore della parete è impraticabile a causa delle condizioni di ghiaccio e neve? Senza una corda, ci sono poche possibilità di fuga. A rigore, l’unica possibilità sarebbe quella di disarrampicare, scendendo per i passaggi già superati prima, tastando insicuri con la punta dei piedi i freddi appoggi.
L’intuizione, in quel periodo della giovinezza, era la sensazione di essere guidati o, per meglio dire, di essere a contatto con poteri superiori e spirituali, che proteggono e governano saggiamente la vita. Questi presentimenti si potevano manifestare con maggiore forza nei ritmi dei movimenti, i quali si sviluppavano in un gioco di alti e bassi ma in una sensazione continua e sempre più profonda di unità con la materia della pietra. Ma si trattava di una percezione inconscia, intuitiva appunto, che tuttavia permetteva di far emergere dal subliminale la sicurezza e la giusta libertà d’azione. In realtà, non abbiamo la vita nelle nostre mani, sia che rendiamo i nostri percorsi in montagna un po’ più audaci, sia che li manteniamo interamente all’interno delle strette precauzioni e nelle riserve di sicurezza.
La morte può certamente sopraggiungere più facilmente su una parete alpina che su un sentiero escursionistico o su una via ben assicurata che si supera con l’aiuto di una corda. Ma com’è la vita nella realtà? In senso stretto, la vita è una via in solitaria nella quale devi superare un’ampia varietà di strapiombi, ostacoli e rischi spesso difficili da valutare. L’esistenza è un tastare i limiti da un punto all’altro, da un mondo all’altro, dal presente al futuro incerto e dalla dipendenza ad un nuovo passo di indipendenza. E cosa rimane cui aggrapparsi in questo cammino? Arrampicare in solitaria su pareti remote a quel tempo soddisfaceva più la mia esigenza di sconfinamento nell’inconscio, un percorso di apprendimento che preparava il mio carattere a una maggiore capienza e a una più ampia prospettiva di fede.
L’arrampicata senza corda in mari di roccia solitari e magari invernali non è certo un messaggio che si può rivolgere ai giovani di oggi con la coscienza pulita. Ma perché la maggior parte delle persone oggi soffre della terribile malattia dell’arroganza, del meschino saper fare e dell’amor proprio narcisistico che crea dipendenza? La risposta dal punto di vista pedagogico-psicologico può essere molto complessa. Una di queste risposte può essere data qui direttamente a titolo di esempio: nell’adolescenza, in quegli anni preziosi in cui una forza di volontà espansiva spinge verso nuove possibilità e verso una prima realizzazione nei fatti, le molte paure e le conseguenti cautele condizionano l’animo dell’individuo. Pochi giovani oggi sperimentano un vero rapporto tra individuo e materia e tramite questo un rapporto sincero sotto forma di amicizie e di responsabilità verso il prossimo. Le giovani generazioni ricevono l’attrezzatura per l’arrampicata, non devono più risparmiare per poter acquistare la prima corda, viene preparata per loro la strada attraverso la parete con i chiodi e la roccia viene preparata in modo che non debbano più sperimentarla nella sua naturale ruvidezza. A causa di questa mancanza di esperienza con la materia, pochi giovani riescono a conoscere se stessi e ad assumersi la responsabilità di se stessi in questa fase della loro vita. Non percepiscono più la vita interiore nella propria realtà nascosta e la gioia saggia del creare e del realizzare le proprie fantasie. L’attraversamento del confine in un mondo ampio e gioioso rimane quasi completamente invisibile. Così i giovani non conoscono più la luminosa verità alla quale guidano le forze superiori che abbiamo nell’interiorità del nostro spirito. L’orgoglio straripante del nostro tempo non è il risultato di un sincero e saggio sforzo dell’individuo al di là dei propri limiti fisici e di un’entrata in relazione con la materia e la sua logica sapiente, che suona come una musica all’interno della creazione del mondo: è piuttosto il risultato di una mancanza di relazione e di un’alienazione che è iniziata assai presto nell’intero sviluppo di crescita con una fissazione unilaterale sulle prestazioni e sui successi, entrambi di breve vita. In questo senso, il cammino verso la montagna dovrebbe rimanere un cammino solitario.
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Riflessioni molto interessanti da un punto di vista differente e perciò stimolante.
Non so se sono d’accordo su tutto, ma voglio rileggere con calma per cercare di capire.
Rimane l’ammirazione per un’impresa mica da ridere!