Tornare sui monti fa bene alla natura

Dopo l’era dello sfruttamento del territorio per scopi turistici, piccoli flussi di persone sono tornate a popolare le frazioni e a praticare le attività tradizionali.
E’ il fenomeno dei cosiddetti «amenity migrants», i nuovi abitanti delle alte quote che combattono contro l’incuria che ha rinselvatichito i versanti e preservano il paesaggio.

Tornare sui monti fa bene alla natura
di Simone Bobbio
(già pubblicato su In Movimento de Il Manifesto, 12 luglio 2016)

Il concetto di paesaggio in ambito alpino non può pre­scindere dall’interazione che per migliaia di anni è av­venuta tra gli esseri umani e un ambiente naturale particolar­mente ostile e difficile da addo­mesticare. Difatti ancora oggi si possono osservare i segni eviden­ti dell’antropizzazione anche nelle valli più remote e abbando­nate, al di sotto della fascia di ter­ritorio delle alte quote frequenta­to tradizionalmente soltanto dai cacciatori di camosci e dai porta­tori che valicavano le montagne per commerciare tra i versanti della catena.

L’aspetto attuale delle Alpi è quindi determinato dalla storia degli insediamenti umani che si sono susseguiti nel corso del tempo e ha subito una rapida evoluzione verso una sorta di ritorno alla wil­derness durante il secolo scorso quando lo spopolamento della montagna ha raggiunto livelli mai visti prima per numeri ed estensione del fenomeno. Soprat­tutto nel secondo dopoguerra, come ha raccontato lo scrittore cuneese Nuto Revelli ne Il mondo dei vinti, masse di montanari so­no emigrate in pianura attratte dalle prospettive di un lavoro si­curo e di uno stipendio fisso che l’industrializzazione del nord Italia era in grado di offrire.

Da allora molto è cambiato. Per lungo tempo, gli unici esem­pi di bilancio demografico attivo hanno riguardato le grandi sta­zioni sciistiche, sorte spesso su versanti dove fino a pochi anni prima nessuno si sarebbe sogna­to di abitare, men che meno d’in­verno. Ma si è trattato di esperien­ze circoscritte ed esclusivamen­te legate al mero sfruttamento del territorio per fini turistici. In­vece, negli anni più recenti, an­che alcune cosiddette valli mino­ri hanno assistito a piccoli flussi di persone che sono ritornate ad abitare le frazioni e a praticare le attività tradizionali dei luoghi.

TornareSuiMonti

 

Il più importante studio per fo­tografare questo fenomeno è sta­to condotto dall’associazione «Dislivelli» di Torino e pubblica­to in un volume uscito nel 2014 con il titolo Nuovi montanari. Abitare le Alpi nel XXI secolo, edito da Franco Angeli. Il lavoro è stato coordinato da Giuseppe Demat­teis, professore emerito di Geo­grafia urbana e regionale al Poli­tecnico di Torino e presidente di Dislivelli.

«Il quadro che abbiamo tracciato – esordisce Dematteis – mostra un territorio alpino che numerica­mente è tornato a crescere con 212.656 nuovi residenti tra il censimento del 2001 e quello del 2011. Tuttavia si tratta di una ri­presa demografica che ha inte­ressato prevalentemente le bas­se valli, le grandi stazioni turistiche e i comuni posti sul confine tra montagna e pianura. Le aree più interne, che rappresentano circa la metà delle Alpi italiane, rimangono a rischio desertificazione così come un’ampia porzio­ne di Appennini.

La superficie complessiva dei Comuni montani che si trovano in condizioni di spopolamento e ab­bandono si aggira intorno al 23% dell’intero territorio nazionale. È un’enormità che genera tre principali conseguenze: circa un milione di abitanti vede violati i propri diritti di cittadinanza poi­ché non può continuare a vivere in condizioni di marginalità e iso­lamento; un patrimonio di risor­se idriche, agrarie, forestali, pae­saggistiche e culturali, che po­trebbe contribuire a creare ric­chezza per il Paese, è poco o male utilizzato; l’assenza delle cure tradizionalmente operate dai montanari sul territorio genera seri rischi idrogeologici che minacciano pianure e città».

In un contesto che presenta ancora significative criticità, in­dubbiamente si iniziano a osser­vare i semi di un cambiamento che potrebbe condurre a un nuo­vo paradigma evolutivo della montagna dal punto divista umano e, di conseguenza, dei suoi pa­esaggi.

Negli anni più recenti il turi­smo alpino è mutato sotto la spin­ta della crisi che ha portato a una rivalutazione dei suoi aspetti più “montani”. Le stazioni sciistiche vivono una fase di difficoltà pro­vocata dall’aumento esponenzia­le dei costi per l’ammoderna­mento delle infrastrutture e per l’innevamento artificiale reso necessario dai cambiamenti clima­tici. Invece l’incremento di fre­quentatori dei rifugi e delle picco­le strutture che offrono un’acco­glienza spartana ma genuina, più inserita nel contesto ambien­tale e culturale dei luoghi, diven­ta un’opportunità per quelle aree fino a poco tempo fa conside­rate minori.

«Le tendenze espresse da queste nuove forme di turismo monta­no – prosegue Dematteis – sono alla base del fenomeno dei “nuo­vi montanari”, cioè del ritorno al­la montagna di singoli e famiglie che spesso decidono di reinse­diarsi per svolgere attività specificamente montane come l’agri­coltura, l’allevamento o il turi­smo slow. Sono esempi ancora esigui, ma positivi, di come il re­cupero delle produzioni tipiche in aree isolate possa dare una nuova attrattiva economica al territorio e una nuova funzione al paesaggio. E poi c’è il fenome­no numericamente più impor­tante dei cosiddetti amenity migrants che si trasferiscono in montagna, soprattutto nelle aree più vicine alla pianura, riva­lutando le qualità del vivere in un piccolo centro. Esercitano un ruolo meno significativo nella trasformazione e nell’innovazio­ne dei territori perché non sono impiegati nelle attività tradizio­nali». Non bisogna essere un illu­stre geografo per ritrovare nei pa­esaggi alpini i segni dell’evoluzio­ne demografica. Anche il turista meno accorto comprende dove è avvenuto lo spopolamento con­frontando un panorama costella­to di pascoli sfaldati inframmez­zati da macchie di bosco, con la vi­sta di un versante dove la bosca­glia ha progressivamente invaso i prati e le borgate abbandonate. Ma quali valori si celano dietro a queste due immagini così diver­se di uno stesso territorio?

Giuseppe Dematteis
TornareSuiMonti-G.Dematteis

 

«Sono convinto che il concetto di wilderness non appartenga alle Alpi ormai da migliaia di anni – conclude Dematteis – da quando gli uomini dell’età del bronzo bruciavano il bosco per ottenere maggiori estensioni di erba con cui nutrire il bestiame. D’altron­de, anche sotto l’aspetto ecologi­co, un pascolo ben curato conser­va maggior biodiversità della boschina infestante che cresce a causa dell’incuria: il termine stesso, wilderness, descrive bene quelle estensioni smisurate di fo­resta delle Rocky Mountains do­ve per millenni gli esseri umani non hanno messo piede. Da un punto divista estetico preferisco di gran lunga un bel paesaggio al­pino dove la natura testimonia l’impegno e il lavoro dell’uomo. I “nuovi abitanti” che abbiamo stu­diato sono, da un lato, i continua­tori di questa antica tradizione, dall’altro i pionieri di un nuovo ritorno alla montagna perché si trovano a combattere contro l’incuria che ha rinselvatichito i ver­santi e contro norme e vincoli che rendono il loro lavoro tre­mendamente faticoso. La monta­gna è un laboratorio di economia verde, dalla filiera del legno all’utilizzo dell’acqua, che può tornare a generare ricchezza re­cuperando e rinnovando la sua antica bellezza, in questo senso sono profondamente critico nei confronti dei parchi che tendono a museificare il territorio: vivere e curare la montagna nel rispet­to degli equilibri naturali la ren­de assai più attrattiva da un pun­to di vista turistico. L’agricoltu­ra, la silvicoltura e l’allevamento contribuiscono a preservare il pa­esaggio e la natura che, non di­mentichiamo, rappresentano un bisogno psicologico degli esse­ri umani».

Giuseppe Dematteis – Geografo italiano (nato a Cagliari nel 1935), professore universitario a Torino, dal 1975 di geografia economica nella facoltà di economia e commercio e dal 1984 di geografia urbana nel politecnico.  Socio d’onore della Società Geografica Italiana (2002). Ha svolto studi di organizzazione territoriale e di geografia urbana (Le località centrali nella geografia urbana di Torino, 1966) ed è autore di scritti metodologici (“Rivoluzione quantitativae nuova geografia, 1970) ed epistemologici (Le metafore della Terra, 1985).

Tornare sui monti fa bene alla natura ultima modifica: 2016-10-13T05:43:14+02:00 da GognaBlog

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5 pensieri su “Tornare sui monti fa bene alla natura”

  1. Trovo che sia un articolo importantissimo e che molti abitanti e frequentatori delle nostre valli dovrebbero leggere.

  2. Mi pare però che ci sia un travisamento del concetto di wilderness: wilderness non significa natura senza l’uomo, ma natura vissuta dall’uomo con rispetto e armonia, anche usando le risorse rinnovabili del proprio territorio. Nemmeno nelle aree wilderness più estese del pianeta l’uomo è mai mancato (pensiamo agli indiani d’america, ai boscimani, agli esquimesi o agli indios dell’Amazzonia…)
    Da facebook, 14 ottobre 2016

  3. Questo nuovo patto basato sulla convivenza tra uomo e natura, sul rispetto degli equibri e dei limiti deve essere terreno di confronto e riflessione tra istituzioni, montanari e associazioni ambientaliste.

  4. “L’agricoltu­ra, la silvicoltura e l’allevamento contribuiscono a preservare il pa­esaggio e la natura che, non di­mentichiamo, rappresentano un bisogno psicologico degli esse­ri umani».”

    Di certo non le cave di marmo e di carbonato di calcio come avviene in Apuane.

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