Tre titoli

Queste righe potrebbero intitolarsi Sinapsi del demonio, Avvio al monastero o anche Premesse per una società. Ogni titolo rappresenta una prospettiva che converge nel medesimo punto: la concezione egoica del mondo. Una formuletta questa, il cui esploso, invece di contenere il cuore della nostra origine cosmica, è pieno di importanza personale, ovvero è vuoto come l’effimero o come la storia secolare scambiata per sola verità. Superare la prevaricazione dell’ego, per quanto possa sembrare utopico a chi non sa immaginarlo, appare come la sola soluzione per la costruzione di un contesto sociale che invece di sapere d’inferno sappia di paradiso.

Tre titoli
di Lorenzo Merlo
(ekarrrt – 22 dicembre 2024)

Grevità
Non sono capace di vivere in questo tempo, mi sembra di essere costantemente tirato di qua e di là da idee lontane, incomprensibili, opposte. Forse non sono un uomo, forse devo ritirarmi in un monastero. Sì, perché osservare chi la pensa diversamente da me, prima di sembrarmi una cosa da matti, mi impone di capirne la genesi e ricostruire l’architettura delle sinapsi che hanno portato agli antipodi di dove hanno portato me. Ma non riesco a ricostruire il percorso necessario per arrivare dove vedo essere gli altri, neppure inserendo nel processo autopoietico il potere dei vizi capitali. Non riesco a credere, a rendere vero ciò che constato fare dai nostri comandanti e neppure dal loro esteso seguito popolare. Neppure ipotizzare si tratti di un semplice incubo riesce a farmelo accettare. Solo l’ipotesi che io non sia caduto dentro la scatola di Skinner (1) in cui sono caduti loro mi lascia la speranza d’aver compreso ciò che chiamerei impossibile.

Mi sembra che tutto stia precipitando come se al comando avessimo dei pazzi, più simili a personaggi da fumetti distopici che a esseri umani. Ma forse, anzi, senza forse, il problema sono io. Non sono io che vorrei costringere l’umanità entro la mia piccola scatoletta della concezione che ho di essa? Allora, per rimediare a me stesso, non rimane che adattarsi? Forse. Ma non secondo la mia scatoletta.

Prima ancora di cercare di ricostruire il labirinto, il caos o la presunta razionalità delle concezioni altrui, so che qualunque architettura comportino, arredata piacevolmente o meno, non fa differenza: so che esse hanno pari rispettabilità. Diversamente, si dovrebbe militare per l’impalamento, il rogo, la garrota, la forca, la fucilazione, l’assassinio e il genocidio. Sì, perché in qualunque punto ci si trovi ad albergare nel proprio calduccio, da qualunque balcone ci si affacci a guardare il mondo, qualunque paesaggio si stia osservando è solo l’abbaglio di essere separati a farci credere che io ne veda uno e un altro ne osservi un altro. Ma i ruoli e le posizioni cambiano, anche fino a invertirsi.

Quindi, se ciò che esiste, che ci ha portati dove siamo, non avesse pari dignità, chiunque, da qualunque balcone, avrebbe ragione di traguardarmi nel suo mirino e fare fuoco. Lui credendo di averne diritto, io credendo di aver subito un sopruso. Esattamente come sta accadendo, tanto alla faccia del presunto progresso, quanto a quello dei presunti cartacei diritti individuali sventolati dalle altrettanto presunte democrazie che, al posto del rogo, hanno messo più sofisticati sistemi di emarginazione, controllo ed eliminazione.

Leggerezza
Tutto un ingarbuglio imposto dall’identificazione di noi stessi con qualcosa che crediamo ancora essere noi, ma che, di fatto, non è che un’incastellatura che con noi non ha nulla a che vedere. La domanda da porsi sarebbe: perché un’incastellatura ha più o meno valore di altre? Perché quelle che vedo non sono capitate a me? Come se le gocce della pioggia cadute sul parco con piscina di Abu Dhabi fossero di maggior pregio di quelle andate a finire su uno slum di Nuova Delhi.

Il mio io quando pretende per sé non è che motivo di malesseri e conflitti. Prenderne coscienza riduce il male, ci emancipa dalle illusioni, fa insorgere il rispetto e consumare le energie per la bellezza e l’amore.

È questa parità che potrebbe edificare una realtà meno sanguinosa, una pace più radicata, un’evoluzione esistenziale e una messa al bando dell’idolatria scientistico-tecnologica. Ma, concentrati sul concetto opposto, non se ne parla neppure.

Il primo moto che ci tiene lontani da quel punto di svolta che tutti – possiamo giurarci – vorremmo è l’importanza personale, che ognuno, in questa cultura antropocentrica prima ed egocentrica poi e di conseguenza bellicista, esprime come un fatto spontaneo e irreversibile, ora esaltato dal liberismo e dalla liquidità dei valori.

È possibile una cultura capace di sviluppare psicologie meno vanesie, più mature? Certo che sì. Il passo dall’immaturità alla compiutezza di se stesso non è una chimera. Molte persone lo compiono entro la vita di cui dispongono. Spesso accade per un trauma o comunque per una forte emozione, se l’educazione familiare non ci ha già pensato. Da egoisti ed egocentrici, quanti traumatizzati dicono poi di avere capito quali sono le cose che contano; quanti genitori, prima irresponsabili, poi si fanno ligi con la nascita di un figlio. Ma non è questo il punto, il punto è che se lo facciamo privatamente, significa che non dobbiamo andare a scuola per farlo anche politicamente. Non c’è niente da imparare, è già in noi quel potere di cambiare le cose, cioè di cambiare noi stessi.

Ma se la questione è così elementare, come mai non sta già spuntando all’orizzonte? O peggio, come mai non è già alta in cielo? È qui che tutti i divanisti, quella categoria che riesce ancora a guardare la tv e credere di venirne informata, e che viene invece istruita a mantenere lo status quo, potrebbe prendere coscienza che forse, ma forse, ma forse forse, c’è qualcosa dietro le quinte. Che forse il gran pavese che orna il panfilo delle narrazioni giornalistico-governative, secondo le quali le cose vanno bene o andranno a posto, forse eh, non è che un diversivo per evitare che scoppi tutto. Che, forse, sanremo, la champions, il grande fratello, le telenovele, il woke, il sostenibile, Putin a Lisbona, la guerra per la pace, l’Iran canaglia, l’ultimo iphone, non sono che stratagemmi al bromuro, assuefacenti oppiacei per seguitare a tenere troppi alla longhina, entro il tondino del mulino bianco. I mercanti guidano sempre le carovane. E le carovane hanno al seguito schiavi e bestie.

Ma dal divano ci si può alzare a guardare cosa c’è dietro la tv e, invece di stracciare le vesti, stracciare le egregore e non sedersi più. Alzarsi per avviare quel processo verso il benessere profondo, quella presa di distanza dalle pretese personali, verso quella presa di coscienza di che razza di parassita sia l’io, di quanto prosperi a cavallo della nostra cecità e a spese della nostra energia, di quanto ci induca a bisogni fatui e a scelte adatte a mantenerci in preda a logiche dis-graziate.

Riconoscere il reticolo di sinapsi satanico-magistrali dell’io è possibile a tutti gli uomini.

Nota

  1. https://www.sinistrainrete.info/societa/29600-norberto-albano-campi-di-concentramento-skinneriani-come-orizzonte-storico.html

Tre titoli ultima modifica: 2025-03-30T04:32:00+02:00 da GognaBlog

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2 pensieri su “Tre titoli”

  1. Il paradiso, per definizione, non é di questo mondo. Ergo ipotizzarlo sulla terra è non solo un’utopia, ma roba da gente con l’anello al naso. Di conseguenza le considerazioni esposte sono solo belle astrazioni a tavolino. (nella migliore delle ipotesi). La realtà è che i rappresentanti delle specie Sapiens si uccidono l’un l’altro senza tante remore e tutto ciò dalla notte dei tempi. L’unica soluzione è diradare l’intensità della specie in modo tale che ci siano ampi spazi fisici fra individuo e individuo, come dei polmoni che compensi l’egocentrismo individuale (che è ineliminabile perché è la caratteristica fondante della nostra specie). Non a caso nella classifica dei paesi più felici al mondo è sempre in testa la Finlandia (e, subito dietro, le altre nazioni scandinave). Come mai? Semplice: c’è molto spazio fra individuo e individuo. La Finlandia ha all’incirca la stessa superficie geografica dell’Italia ma, mentre la popolazione italiana è sui 60 milioni, i finlandesi sono poco meno di 6 milioni. Ovviamente ci saranno località (fra tutte la capitale Helsinki) di particolare densità umana, ma per il resto la popolazione vive con cosiddetti i vicini di casa che, in realtà, stanno a 10 km. Noi italiani invece siamo ammassati gli uni sugli altri e, a dispetto di una conformazione geografica (sole, mare, caldo ecc) e anche uno stile di vita (buon cibo, buon vivo, ecc) molto più piacevole rispetto alle tundre gelate del Nord e a una loro dieta monotona e non attraente , siamo tutti incazzati neri. Come mai? Perché hai sempre un vicino o anche solo un passante momentaneo che ti rompe i coglioni. Quello fuma, quello puzza, quello tiene la radio a palla, quello ti impone i figli chiassosi o il cane che abbaia… Il pianeta Terra, in quanto tale, non è né un inferno né un paradiso: invece è la densità umana che determina, zona per zona, il prevalere dell’una o dell’altra ipotesi.

  2. Con la parola «genocidio» Lorenzo Merlo allude allo sterminio dei palestinesi a Gaza che sarebbe simile allo sterminio nazista degli ebrei. Per comprendere la differenza tra il genocidio e lo sterminio conviene rinunciare alla parola ebraica «shoah», una tempesta atmosferica utilizzata in senso metaforico per una tempesta sociale. Per lo stermino degli ebrei la parola più chiara in italiano sarebbe «genocidio» oppure «olocausto» che convergono nello stesso senso: lo sterminio («causto» o «cidio») di un intero popolo («olo» o «geno»). Infatti allo sterminio del totale, sei milioni di ebrei circa, sopravvissero solo in poche migliaia. Dunque non ci sono elementi per confrontare lo sterminio di tutti gli ebrei con il massacro di una parte dei palestinesi, che avviene senza la scellerata pianificazione politica ed organizzativa dei nazisti.

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