Metadiario – 216 – Una settimana fortunata (AG 1998-002)
(la traversata scialpinistica della Vanoise)
(scritto nel 1998)
Ad Aussois troviamo ad attenderci Odile Bigaut, dell’Office de Tourisme, e naturalmente Benoît Robert, la guida alpina al quale ci appoggeremo. Odile ci omaggia di un bellissimo Opinel a testa: veniamo così a sapere che questo famoso coltello tascabile dal manico di frassino (ma anche di faggio e di ciliegio) è stato inventato e realizzato proprio da queste parti, più di un secolo fa, da Joseph Opinel, di Albiez-le-Vieux, vicino a St-Jean-de-Maurienne. L’opinel è esposto al museo d’arte moderna di New York e qui a St-Jean c’è un museo dedicato solo a lui.


Nel pomeriggio del 6 maggio 1998 partiamo per il refuge de la Dent Parrachée, carichi all’inverosimile e sotto un cielo ancora più scuro e nebbioso. Siamo accolti da Frederic Leviavant, cognato del custode: non c’è nessun altro, nel rifugio fa freddo, fuori è brutto. Non siamo molto entusiasti. In più Frederic ci comunica che al refuge de l’Arpont non c’è nessuno, quindi dobbiamo caricarci anche dei viveri per domani sera. La Dent Parrachée con il suo profilo dentellato e dolomitico non s’è fatta neppure vedere. Il mattino dopo, a notte fonda partiamo decisi perché finalmente è tutto stellato. La salita al Col de Labby non è una gran fatica anche se oltre al normale equipaggiamento da scialpinismo abbiamo con noi una quindicina di chili di materiale fotografico. Dopo un’alba mitica al colle, la discesa sul refuge de l’Arpont è fantastica: incontriamo anche un plotone di militari, in divisa rigorosamente bianca. Due parole di saluto, poi via verso il rifugio, dove in effetti saremo soli. La mia tracheite mi preoccupa.


Nella notte ci alziamo presto e vediamo che il cielo è di nuovo coperto. “C’est la lombarde” asserisce Benoît. Ma sappiamo che le previsioni sono buone, perciò partiamo ugualmente sui ripidi pendii che portano al Lac de Chasseforêt. Nebbia, disagio e venticello umido di lombarde ci accompagnano fino al primo chiarore di un’alba che invece si rivela di speranza. Il sole squarcia di prepotenza la nuvolaglia e di colpo la giornata diventa radiosa. Dopo le salite al Col Ouest du Pelve e al Col du Dard, sulle piatte distese di neve del Glacier de la Vanoise per la prima volta sento che forse ce la faremo. Sembra di essere in Groenlandia, sull’ice-cap. Raggiungiamo la Pointe du Dard e quindi per una discesa entusiasmante ci buttiamo sul refuge de la Vanoise, dove le marmotte vengono a mangiarti in mano. Il sole è abbacinante in questo pomeriggio di festa. Tanti stanno scendendo giù dalla via normale della Grande Casse: mi sembra un po’ tardi per avere neve decente e non pericolosa…
Il mattino dopo (9 maggio) ancora in marcia per il Col de la Grande Casse, sotto le splendide guglie della Grande Glière in un vallone stretto ed incassato. Dal colle, la visione sulla parete nord della Grande Casse, dove una cordata è impegnata a salire, ci ricorda l’alpinismo delle grandi pareti nord. Filiamo in discesa nell’alba dorata, passando sotto ai seracchi della parete, poi facciamo belle evoluzioni sul Glacier de Rosolin, fino alla sua fine. Dai pressi della morena destra saliamo ora su un ripido versante erboso, con gli sci in spalla, aggiungendo così peso ad altro peso per un totale insopportabile. La mattina è calda, la salita sulle nevi del Grand Plan fino al Col de la Croix des Frêtes è decisamente faticosa: vi arriviamo con distacchi di quarti d’ora, Benoît in testa. Le piste che da Col du Palet scendono a Tignes sono ormai chiuse e di neve marcia. Val Claret e Tignes ci appaiono per quello che sono, un’intrusione di brutto cemento in questa disastrata Val d’Isère. Ma le birre che ci beviamo al sole di un tavolino di bar sono degne compagne delle frîtes…
Con gli impianti di La Tovière saliamo in cima ad una cresta e da lì per altre piste chiuse e fradice scendiamo alle Gorges de l’Isère. Un taxi ci porta per Val d’Isère al Pont St-Charles. Ultima fatica della giornata fino al refuge de Prariond, di nuovo in dimensione alta montagna, con il simpatico custode Laurent Bois-Mariage.


Di mattino presto (10 maggio) saliamo alla Grande Aiguille Rousse, dove io tocco il fondo di fatica e di tracheite. Marco preferisce aggirare per il Col du Montet e tutto sommato ha ragione. Infatti, nella discesa dalla cima, lungo un canalino esposto pienamente a sud, Benoît che mi precede stacca una piccola slavina nella quale rimane intrappolato, per fortuna senza conseguenze. La brevità del versante e la scarsa quantità di materiale nevoso lo costringono a nuotare un po’ ma senza esserne veramente travolto. Comunque un bello spavento.


Al refuge du Carro, la custode Josette Diffloth è un personaggio di gentilezza materna che vorrebbe perfino unirsi a noi per il giorno dopo: che si presenta preoccupante, nelle nostre condizioni, con tre colli da superare per giungere al sospirato refuge des Evettes. Sempre carichi come muli saliamo il Col des Pariotes, il Col de Trièves e il Col de Gran Méan. Al rifugio arriviamo davvero stanchi. Ma da lì, il giorno dopo (12 maggio), ultimo sforzo per salire la vetta sciistica dell’Albaron, il nostro punto più alto, con successiva discesa su Avérole. Sdraiato a piedi nudi nell’erba secca, accanto alla strada, non ho più forze. E neppure più mal di gola.



Curiosità. Qualche volta i boschi non nascondono soltanto gnomi, fate e coboldi. Talvolta si scoprono delle formazioni rocciose davvero particolari. Ci si può arrivare o da Sardières o da Aussois e, quando si è alla fine della strada, improvvisamente da una radura e tra le fronde delle conifere appare una scaglia monumentale di 93 metri. È il Monolithe de Sardières 1703 m. Sembra un gigantesco strumento dell’uomo neolitico, modellato in seguito da uomini di più generazioni: un simbolo che sfida la gravità e strapiomba sull’equilibrio. Quanto è facile arrivarvi, tanto difficile e delicato è l’arrampicarsi sulla vetta. Gli scalatori lo frequentano quando il tempo è incerto, oppure quando una calda giornata estiva fa apprezzare ancora di più la fresca ombra dei boschi. La prima sezione di arrampicata è un classico IV grado, fino ad una piccola grotta. In seguito una sezione un tempo superata in parziale arrampicata artificiale è oggi superata più artisticamente in libera, ma le difficoltà arrivano al VII grado. Solo la parte finale, in un vuoto aereo con pochi confronti, offre appigli ancora più lavorati ma più solidi che nella parte inferiore, dove una moltitudine di alveoli talvolta grossi, più spesso microscopici sono il tenero risultato di un’erosione incessante. A malapena una persona può stare eretta sulla cima. La prima ascensione del Monolithe si deve a Michel Pasquier e Alfred Cognet, il 27 settembre 1959.
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“Sembra di essere in Groenlandia, sull’ice-cap”, ho vissuto la stessa sensazione attraversando il ghiacciaio in una gita dell’Alpinismo Giovanile, spazi vuoti a perdita d’occhio senza incontrare anima viva… le cime lì sono piccoli panettoni che non attirano le folle. Fu entusiasmante!
Alla faccia degli antibiotici.