A cospetto del sovrano
(scritto nel 1994)
Lettura: spessore-weight(1), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Nella Charta del 1091, con la quale la valle di “Campusmunitus” (Chamonix) era ceduta all’Abbazia di San Michele delle Chiuse (alle porte della Val di Susa), per la prima volta si parla della “rupe que vocatur alba”. Mont Blanc è la menzione che ne fa San Francesco di Sales, nel 1603. Ma Carlo Passerin d’Entrèves parla di Mont Malet (monte maledetto). Simili sono “Mont Maudit”, “Mont Malay” e “Montagne Maudite”. Nel suo Voyage aux Glacieres du Faucigny, 1742, Pierre Martel cita entrambi i nomi, tentando una prima distinzione delle cime. Oggi “Mont Maudit” è riservato ad una cima imponente ma secondaria ed è ovvio che “Mont Blanc” abbia avuto il sopravvento per via degli scritti di Horace Bénédict de Saussure e della conquista (1786) di Balmat e Paccard, avvenuta per il versante di Chamonix, decisamente più “bianco” di quello italiano.
Da qualunque punto lo si osservi, il Monte Bianco appare una creazione ogni volta nuova e affascinante. Gaston Rébuffat (Il massiccio del Monte Bianco, Zanichelli, Bologna,1974) così racconta: “Quante volte – certamente più di mille – ho atteso questo incontro? Ci si avvicina a Sallanches e più su, dal Pont Sainte-Marie, oppure dal Col des Montets e si sa con esattezza che a quel tornante della strada lo si vedrà. Si è preparati a questo. Ce l’aspettiamo. Sappiamo persino, secondo l’ora, quale sarà il suo aspetto, dove saranno le ombre, quali i colori. Il paesaggio è in noi sotto tutti i punti di vista. Con gioia, semplicemente, stiamo per ritrovarlo. È là: ma è sempre un’altra cosa, è così bello, così grande che ogni volta tutto è daccapo; è stato appena creato, ci appare straordinario. E’ una rivelazione, un’impressione subitanea, l’emozione della scoperta“.
Monte Bianco e Grandes Jorasses dal Mont Chétif. Foto: Gadàn.it
Prima di lui Leslie Stephen (The playground of Europe, Longmans, Londra, 1871) asserisce che “Nessun’altra cima delle Alpi gli è paragonabile in splendore e in bellezza… Il vecchio re può sempre imporre rispetto… Quando è di buon umore, si lascia avvicinare con sicurezza anche da un novizio, ma nei suoi momenti di collera, quando si riveste di nubi e fa sentire la sua voce di tuono, nessuna cima è più terribile… È il più solitario di tutti i picchi: si erge, come Saul, ben al disopra degli altri e tuttavia, in questa massa unica, i paesaggi sublimi sono stati più generosamente prodigati che in ogni altra regione montana meno elevata. Le muraglie più austere e più massicce, le guglie più fantastiche scolpite nella roccia tormentata, i torrenti di ghiaccio sconvolti, i campi di neve puliti e lisci come conchiglie, tutto ciò si alterna con una varietà infinita, e tuttavia con un’unità che è una grande opera d’arte“.
Queste sono alcune delle innumerevoli descrizioni in generale che il massiccio ha ispirato all’uomo in quasi 250 anni: ma anche le visioni più particolari hanno acceso la nostra fantasia. Thomas Graham Brown definiva il versante meridionale, quello “maledetto”, “il vero Monte Bianco, ben più che le masse nevose che si vedono da nord“. È ancora Rébuffat che dice che “la muraglia di roccia si erge all’improvviso con una potenza selvaggia; è il dominio del granito che a salti e con pilastri giganteschi si eleva fino alla neve delle cornici sommitali“.
Dunque il versante valdostano è più roccioso, più ripido, più selvaggio, forse “maledetto”. Quando Luigi Vaccarone, alpinista e divulgatore dell’Ottocento, definì “panoramiche” alcune rappresentazioni grafiche di montagne, intendeva quelle che davano una visione d’insieme. Ma questo ce lo avevano già insegnato gli inglesi con le loro “panoramic views”. Nel secolo scorso disegni, dipinti e, solo molto più tardi, le fotografie erano il necessario complemento ai viaggi, alle esplorazioni e alle ascensioni, ma dobbiamo attendere il 1896 (Perracchio) per avere una rappresentazione completa del versante italiano del Monte Bianco: la veduta fu ripresa dal Mont de la Saxe, la montagna che chiude a sud-est lo sbocco della Val Ferret. Opposto a lei, a chiudere lo sbocco della Val Veni, è il Mont Chétif: questo è dunque più vicino ancora alla vetta del Monte Bianco, si erge praticamente di fronte e ai piedi del sovrano.
Un po’ svilito dagli impianti di risalita che lo circondano almeno nella sua metà boscosa, il Mont Chétif si erge con una bella mole di duri porfidi granitoidi proprio sopra Courmayeur ed è proprio lui che impedisce a chi sta in paese la vista sulla vetta del Monte Bianco.
Marco e Luisa sono andati a dormire in vetta. Chiusi nella tendina, nella notte calda sono stati più volte turbati dai rumori sordi provenienti dal Ghiacciaio della Brenva che, giusto di fronte a loro, riversa la sua fiumana di ghiaccio verso Entrèves, nei pressi dell’imbocco del traforo stradale.
L’alba scatena colori selvaggi, talvolta diabolici, sulle quinte rocciose, sui bacini ghiacciati, sui seracchi in bilico. È uno spettacolo pirotecnico quello che sposa per pochi istanti il mondo della Brenva, il pianeta a parte che Thomas Graham Brown descrisse con un libro apposta, Brenva appunto, l’epica esplorazione alpinistica del più pericoloso versante ghiacciato delle Alpi. A poca distanza dall’imbocco del traforo, dove s’incontrano Val Veni e Val Ferret, termina una lingua di ghiaccio smisurata e mansueta, nera perché ricoperta da ciclopici detriti, testimone di ben altri fasti: oggi si allunga fino a lì quasi pigramente, ma nel 1800, per esempio, il dirimpettaio santuario di Nôtre Dame de la Guérison dovette essere ricostruito perché abbattuto da una scarica immane. E fu soltanto nel 1920 che assunse l’attuale colorazione grigiastra, a causa di una potente frana staccatasi dall’Aiguille Noire. Più in alto, placconate di roccia scoperta, liscia e nuda, sono spazzate dalle continue cadute di seracchi. Al di sopra infatti pencola una paurosa arcata di ghiaccio dai riflessi verdastri che, premuta e sospinta di continuo dal peso delle masse glaciali del bacino superiore, si frantuma frequentemente, e a orari imprevedibili, in blocchi che si abbattono rovinosamente a devastare il ghiacciaio sottostante con esplosioni che si odono anche da molto lontano. Al di sopra è il bacino collettore sfolgorante di bianco, enorme intrico di crepacci e di ripiani nevosi a sbalzo l’uno sull’altro, fiancheggiato da cime aguzze ed eleganti come l’Aiguille Noire de Peuterey o l’Aiguille de la Brenva. Ancora più imponenti sono l’Aiguille Blanche, il Pilier d’Angle, il Mont Maudit, cioè i grandi dignitari del sovrano finale, un’imperiale e diafana corona nevosa posta lassù, in quella zona rarefatta oltre la quale è solo più il cielo.
Grandes Jorasses, val Ferret, Grand Rochère e Grivola dal Mont Chétif. Foto: Gadàn.it
Quando il 15 luglio 1865 la comitiva degli inglesi George Spencer Mathews, Adolphus Warburton Moore, Francis e Horace Walker guidata dalle due fortissime guide Jakob e Melchior Anderegg raggiunsero la vetta del Monte Bianco dopo aver percorso l’himalayano versante della Brenva, sicuramente ignoravano almeno due cose. La prima è che il giorno precedente, seppure a prezzo di una tragica conclusione, il loro connazionale Edward Whymper era riuscito a coronare il suo sogno: la prima salita al Cervino. La seconda cosa, molto più difficile da sapere, era che questi due episodi chiudevano il capitolo dell’esplorazione delle vie normali aprendo una nuova era: quella della ricerca di nuovi e difficili itinerari su pareti ancora inviolate. Esiste tuttavia una diatriba in merito alla prima ascensione del versante della Brenva. Alcuni autori, tra cui l’abate Joseph Henry e successivamente Renato Chabod, ritengono che già nel 1854 una comitiva di guide di Courmayeur si sia spinta fin al Colle della Brenva percorrendo virtualmente l’itinerario avendone superate le maggiori difficoltà. A tale versione si oppose duramente Thomas Graham Brown, grande esploratore del versante della Brenva, che consegnò il primato a Moore e compagni. Nel sostenere la sua ipotesi, il Brown arrivò persino a dire che era impossibile che le guide di Courmayeur avessero compiuto una simile impresa perché, nel 1854, erano “poco più che mulattieri e quasi interamente ignoranti di ghiacciai“.
Gli occhi sono paghi di questa mattinata radiosa, un tripudio di spazi, di gioia, di colori. Marco e Luisa scendono lentamente a valle, pensando a quanto una giornata possa essere già a mezzogiorno colma di belle sensazioni. Per essere scagliati poi nella disperazione per la morte di Elena Orlandi, un’amica precipitata dal Dente del Gigante proprio in quelle ore così felici.
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