Alagoune, una memoria interiore
di Bernard Amy
(pubblicato in italiano con il titolo Pietra di Nuvola su Rivista della Montagna n. 39, aprile 1980. Traduzione di Andrea Gobetti)
a Odette e Jean-Louis Bernezat
Stanotte in sogno ho scalato una dura montagna
Solo con la mia mazza d’agrifoglio
Mille crepacci, cento e cento vallate
Tutte ho esplorato nel mio viaggio di sogno.
Per tutto il tempo i piedi non mi tradirono
Gagliardo era il passo come nei miei giovani anni
Può essere che se la mente ritorna indietro
Anche il corpo riprenda l’antico stato?
E può essere che fra anima e corpo
II corpo languisca e l’anima resti robusta?
Anima e corpo entrambi son vanità;
Sogno e veglia entrambi sono irreali.
Di giorno i mìei piedi paralizzati vacillano
Di notte i miei passi scavalcano le montagne
E poiché il giorno e la notte hanno uguale durata
Fra i due riprendo tutto quello che perdo.
Po Chu I (772-846 d.C.) (da Liriche Cinesi, Einaudi 1974)
Introduzione di Andrea Gobetti
Ho tradotto con grandissimo piacere «Une memoire interieure» (da noi intitolato «Pietra di nuvola») pagina per pagina, avvinto dal racconto, del suo snodarsi fra le colline del Sahara, ritmato dal monotono battito del motore d’automobile, sino al volo sull’Alagoune nella nuova, splendida interpretazione d’uno dei più antichi sogni riposti nello spirito dell’uomo. Un riferimento al Monte Analogo di Daumal (ed. Adelphi) è doveroso, ma come il volume di Daumal è un diamante fra i retorici o ingenui scritti alpinistici dell’anteguerra, così la storia di Bernard Amy stronca ogni credibilità dei miti di realizzazione di se stessi nella meta, nel risultato e nell’emulazione dei suoi, presto frusti, protagonisti; discorsi come la competizione a questo punto restano molto indietro, alle spalle, seppelliti da cumuli di polvere nel Museo degli Errori umani, quando la stessa «Ricerca», accettata come insegna totemica dalle sedicenti avanguardie, è derisa come la corsa dell’uomo con la testa nel sacco alla ricerca della luce per monti e per valli. Ciascuno in questo racconto si sentirà toccato nel proprio io da riferimenti al «nostro» modo di vivere assai precisi e taglienti. A lui d’entusiasmarci, offenderci o far finta di niente. Comunque l’immaginazione resta al potere e, come forse non tutti sanno, l’alpinismo non lo inventarono né i mercanti, né i tecnocrati, né i conquistatori, né i preti, né gli sportivi: lo immaginarono i poeti.
Alagoune, una memoria interiore
I suoi occhi erano i suoi laghi, talvolta specchi d’un cielo sterminato, talvolta abissi d’acqua tanto oscura da non poterne intravvedere il fondo. Li avevo spesso guardati. Ma oggi non saprei dire quale sia stata l’ombra d’infanzia o il paese libero che vi avevo scoperto dentro, perché non so più cosa lei fosse per me. Forse era lei quella meno alta delle altezze dove l’avrei voluta, quella di cui dicevano m’appartenesse, quella di cui però io non possedevo nulla e che mi disse un giorno, per farmi rinunciare – o forse me l’ha fatto dire da qualcun altro, di quel giorno non ricordo anche questo – che stavo vivendo un sogno.
E io credevo invece che potessero stare insieme, il sogno e il possibile, e andai a vivere un altro progetto, un vecchio sogno quasi dimenticato, e diventato frammento irreale d’una parte di vita costruita a forza d’immaginare. Sono partito, sono andato lontano dai suoi laghi, dai suoi occhi d’acqua immobile e fredda, lontano dalle sue vertigini e i suoi vuoti.
Giorno dopo giorno, oltre le coste e i mari, presi la via del Sud. Passava del tempo, molto, la sera prima che io mi addormentassi. Guardavo la notte profonda invasa dalle stelle come il riflesso d’un cielo sull’invisibile specchio d’una distesa d’acqua lontana. Di giorno viaggiavamo. Ci lasciavamo prendere dal deserto senza mai cessare di vedercelo venire incontro, luogo immenso, immutevole quanto imprevedibile. Anche i miei due compagni, da cui d’altra parte non mi aspettavo alcuna emozione, restavano in silenzio, perduti nei loro pensieri, mentre le ore scorrevano, lasciandomi guardare, non facendo null’altro che guardare quel che ci era dato di vedere. Per approfittare del fuggevole frescore dell’alba partivamo assai presto. Guidavo sino a sera. L’aiuto degli altri mi avrebbe permesso un po’ di riposo. Ma dal momento della partenza avevo capito che avrei fatto bene ad arrangiarmi a guidare da solo per giorni e giorni. Per A. la conquista della nostra vetta e la rapidità di quella conquista lo trascinavano su preoccupazioni completamente aliene per tutta la prima parte del viaggio. Visto che era il rocciatore più dotato di quella che lui chiamava la nostra spedizione, doveva economizzare le proprie energie ed in particolare lasciare a noi di condurre la squadra a buona destinazione. Quanto a B., lui si era immediatamente viste confermate le sue certezze su tutti quelli che abitavano le terre che attraversavamo: mai essi avrebbero saputo costruire una strada e bisognava venire in questo sporco paese per trovarvi quello che loro chiamavano piste ma altro non sono che territori abbandonati buoni al massimo per farci crepare i loro asini affamati, dove loro camminavano, perché erano soltanto dei fannulloni, per ore e ore come solo loro sapevano fare.
«Mi riprenderanno proprio a tornarci», rincarava, in tono ragliante.
«Avessimo almeno preso l’aereo», diceva A. strappandosi dalla contemplazione della pista.
«L’aereo? In questo paese è un suicidio sicuro!».
«Forse. Ma avremmo potuto arrivare più in fretta ed essere in forma migliore. Ma ti rendi conto dello stato di fatica in cui saremo?».
Da molto non ascoltavo più queste discussioni che si rincorrevano eternamente attorno alle stesse affermazioni. Le difficoltà della pista, l’importanza della scalata che si è progettata, la noia di un viaggio che faceva solo diminuire le nostre speranze di successo. Mi lasciavo scivolare invece sul fondo delle notti, tra le stelle e la loro freschezza, dove dimenticavo i domani, le piste da percorrere ancora, la scalata ancora così lontana cui non serviva niente pensare.
Viaggiavo e basta senz’altra preoccupazione di quella essenziale di godermi al massimo ciascun istante. Lo spirito dei miei compagni e la decisione di separarmi da loro al ritorno mi aveva facilmente fatto accettare quel modo di viaggiare.
Viaggiare fermandosi il meno possibile, tenendosi alla larga dalle bianche città, senza voler scoprire nulla sotto le innumerevoli cupole e nell’ombra dei suoi stretti vicoli, seguire il filo regolare della pista come se non dovesse finire mai, seguirlo ancora più lontano, sempre più lontano verso sud, questo in fondo non m’annoiava certo e ci scoprivo un tipo di viaggio da poter vivere per una volta, non mi spiaceva affatto. A cosa sarebbe servita una sosta in una città o in un villaggio? Sarebbe stata una cosa di pochi istanti, il tempo di sfiorare una piazza, una strada, d’intravvedere un viso e subito dimenticarlo. Quelle città le preferivo popolate d’immaginarie folle che si mescolavano, di tutto un popolo che al ritorno avrei scoperto davvero, lentamente, dietro le lunghe teorie di muri calcinati.
«Non voglio, io, che andiamo a vedere quel villaggio – brontolava B. – Ma hai visto come ci guardano quando passiamo? Certo che fermarci non sarebbe salutare».
«Comunque non ne abbiamo il tempo – tagliava corto A. – dobbiamo essere ai piedi dell’Alagoune tra cinque giorni, ci restano 2000 chilometri e visto lo stato delle piste…».
Un’altra duna dalla cresta affilata appariva e tutti e due giravano la testa, smettevano di parlare. La lunga contemplazione ricominciava. A. e B. riuscivano a dimenticare la vetta e a vedere il paese in un’altra dimensione che come soltanto un ostacolo sulla via verso la loro montagna? Non ne parlavamo e non l’ho mai saputo.
Alla sera del quinto giorno arrivammo a un incrocio fra piste che avrebbe potuto essere quello da cui bisognava cominciare a prendere all’Est verso l’Alagoune. Ma nulla ci permetteva di esserne certi.
Da giorni eravamo soli sulla pista e in quel momento invece vi era un’inattesa eccezionale circolazione. Passavano grandi camion carichi di minerali, si levavano al loro passaggio grandi nuvole di polvere e il deserto rimbombava del rombo dei motori. Ne fermammo alcuni. Nessun autista sapeva darci l’informazione che ci serviva.
«Non ci perderete niente a prendere la pista dell’Est – disse alla fine un camionista – ci troverete un villaggio dopo dodici chilometri. Forse qualcuno laggiù saprà indicarvi la strada».
Il ruggito del motore coprì B. che a mezza voce imprecava: «Meticci incapaci di sbattere un cartello agli incroci!».
«C’est embêtant – rilevò A. – se ci sbagliamo bisognerà tornare indietro, e non abbiamo certo tempo da perdere. Questi camion verranno bene da qualche parte. Ci sarà qualche miniera. Andiamoci e domandiamo. Ci spiegheranno meglio».
A me pareva invece che, vista l’ora, bisognava soprattutto trovare un buon posto per la notte, e il terreno ideale di ricerca non erano certo i bordi di quella pista in cui sarebbero passati camion magari sino a tardi. Era meglio allontanarci, quindi dirigersi verso il villaggio. Quando gli altri due finirono per esserne convinti ci infilammo nella via laterale a incontrare la notte e le sue prime stelle. A. stava zitto. Si era lanciato in nuovi calcoli per valutare le distanze percorse negli ultimi giorni. Mi guardavo bene dall’intervenire. Per me era chiaro che il giorno dopo avremmo trovato il villaggio e là qualcuno che ci avrebbe aiutati. Viaggiavamo così da circa un quarto d’ora quando A. fu scosso da un sussulto.
«Ma proprio per niente! – gridò – non abbiamo calcolato la sosta dell’altro ieri dopo mezzogiorno! Siamo almeno a 500 km dal bivio. Certo! 500 km in ritardo! Non val la pena continuare di qui».
Non lo stavo ascoltando più, però. Avevo appena distinto alla nostra destra, nella luce che si era addolcita nel tramonto, quel che poteva essere un albero piantato in pieno deserto. Sotto questo si poteva distinguere una forma bassa, accucciata, che poteva essere un uomo. E vicino a quella l’aria tremolava un poco. Era l’aria calda del giorno che ristagnava, oppure un fuoco il cui fumo si confondeva con le grigie e azzurrine ombre del deserto sul far della notte? Infischiandomene delle domande di A. e di B. lasciai la pista e andai diritto verso quel che avevo creduto di vedere. Come mai non l’avevamo visto prima? Il deserto nasconde male le altezze e l’aria calda porta lontano il miraggio del minimo ciuffo d’erba. Era come se la nostra immaginazione avesse tutt’a un tratto piantato lì quell’albero impossibile… Ed è un albero davvero. E sotto le sue fronde sparute un uomo era seduto ad accudire un fuoco di sterpi. Avevo fermato la macchina, eravamo scesi e richiuso sbattendo le portiere e guardavamo la scena inaspettata.
L’uomo aveva sistemato sulle braci l’onnipresente cuccuma dove udivamo l’acqua bollire piano. Accudiva il fuoco con gesti lenti e misurati come se fosse stato là da secoli sognando fuochi senza fine, a continuare i gesti millenari di tutto un popolo del deserto; invisibile, da lui solo personificato. Non si era mosso, non aveva ancora fatto un gesto a dimostrazione di essersi accorto di noi. B. mormorò «Un altro pazzo! Son tutti pazzi qui». Sento A. tirarmi per la manica: «Vieni – diceva a voce bassa – attendere non ci porterà a nulla». L’altro dovette udirlo perché, sempre con gli occhi sul fuoco e la cuccuma, si mise a parlare: «Où allez-vous? Da quanti giorni state viaggiando? Fate un attimo di sosta. Preparo l’erba dolce e ci metterò la menta che mi resta».
I due si erano zittiti, io non osavo più fare un passo. Quest’uomo ci proponeva una tazza di erba dolce, qualunque abitante del deserto avrebbe fatto lo stesso, ma ci era stata offerta anche la menta e questo accade qui ai vecchi amici o per uomini da troppo tempo nemici cui infine si parla di pace. Si è girato verso di noi. Era cieco.
Il suo sorriso sornione però lasciava credere che malgrado questo ci vedeva e che lo divertivamo con la nostra sorpresa.
«Sedetevi! La faccia al sole: non resterò più per molto, ma il mio fuoco è assai più debole. Dovrete attendere un po’».
Le sue mani continuavano a indaffararsi, rimettevano nuovi sterpi nella brace, trovavano da una parte un vecchio sacchetto polveroso, ne estraevano la menta che rapidamente veniva passata tra le fiamme. Queste vacillarono e furono piene di fumo trasparente e all’improvviso ci fu profumo e di fuoco e di menta che s’inceneriva tra il legno, che spariva dolcemente e ti lasciava dentro solo una sottilissima voglia di erba dolce con la menta.
Eravamo seduti e l’uomo ci faceva dei grandi sorrisi. «Sono Acem Ar Bdéli», ci disse con un leggero inclinarsi del busto. Conoscevo un po’ la lingua del paese e presi pretesto dal suo nome per poter parlare: «Acem: è colui che mostra, credo. Bdéli è il cammino. Ma Ar?».
«Non è facile». Rideva forte ora e girandosi verso di me mi mostrò le mani vuote in segno di impotenza.
«Potrei tradurlo con «nuovo». Ma è anche qualcosa di più al tempo stesso. Vuol dire quel che si ha dentro, quel che ci si nascondeva e che si mostra finalmente a se stessi».
Poi Acem si fuse nella cerimonia. Con l’accenno di un sorriso che sembrava rivolto a se stesso, ora era assorto nella preparazione dell’acqua dolce e del suo servirla. Dal sacco tirò fuori un piccolo tappeto che stese sulla sabbia e quattro bicchieri che dispose sul tappeto. Versò nella teiera la polvere scura di erba dolce tritata. Passò lentamente il recipiente sulla fiamma. L’acqua nella cuccuma ora bolliva con forza e sollevò il coperchio. Lui senza esitare prese il manico rovente e posò la cuccuma sulla sabbia.
Non più un alito di vento muoveva i grandi spazi al di là dei quali s’oscurava l’immenso disco solare. Nella cuccuma il rumore dell’acqua in ebollizione si quietò. L’uomo attese sinché un brusìo appena percettibile usciva ancora dal recipiente. Un fremito percorre ancora la sua pelle, dopo che il cavallo che viene da Ponente e che ha attraversato tutto il deserto s’è fermato – dicono qui per la preparazione dell’acqua nella cerimonia dell’erba dolce. La nostra strada era stata la stessa, il sole cadeva sotto l’orizzonte e nell’attimo in cui tutta la fatica della giornata su di noi, per farci meglio godere della pace di quell’istante, non v’era altro che il fremito dell’acqua per dire che qualcosa quaggiù viveva ancora. Acem lasciò a lungo riposare l’acqua sette volte riversata nella teiera dove erano in infusione l’erba dolce e la menta. Alla fine versò dello zucchero sul fondo di quattro bicchieri, li riempì e con un gesto ci invitò a bere.
Bevevo a piccoli sorsi bollenti. Il tutto cercando di non smuovere troppo il bicchiere. Dopo la prima bruciatura, il gusto dolciastro dell’infusione penetrò la mia bocca e, appena accennato in lontananza, si sentiva ora il gusto dello zucchero che stava fondendo. Il tutto era durato un’eternità. Eppure il disco rossastro non aveva ancora finito di scomparire sotto l’orizzonte. La cerimonia era avvenuta a quell’ora della sera in cui il sole pare si immobilizzi, le ombre si liquefanno e come le acque chiare di uno stagno guadagnano trasparenza e profondità. Una grande calma si era fatta in me e l’erba dolce le dava gusto e calore.
Dalla partenza del viaggio tutti i nostri tramonti erano stati pieni d’occupazioni, di riparazioni, di rumori e di parole. Bisognava far da mangiare, sistemarci per la notte, verificare il buon funzionamento dell’auto sempre di fretta per finire prima del buio.
«Andiamo a dormire presto la sera – aveva detto A. – dobbiamo riposare ogni volta il più possibile, il viaggio affatica e sarebbe bene riuscire ad arrivare in vetta».
E noi così vivevamo i tramonti solo come immagini fuggitive, come se la nostra vita, questa vita che precipitiamo sempre verso una meta interamente costruita dalla nostra mente, fosse scivolata fuori dai grandi ritmi che lentamente, giorno dopo giorno, muovono il deserto, il cielo e il loro sole. Ci era voluto quest’uomo accanto al suo fuoco, questo impossibile albero tra territori secchi, per farci arrestare e dimenticare di continuare a correre senza posa, il caso soltanto ci aveva fatto prendere questa strada laterale e trovare Acem. Ma questo era soltanto opera del caso? A. doveva chiederselo pure lui, perché si piegò verso di me dicendo in tono canzonatorio: «Bene! Arrivati che siamo all’appuntamento, Acem e te potreste dirci quel che avete da dirci».
Questo movimento attirò l’attenzione del nostro ospite che si girò verso di noi: «Verso dove state viaggiando?».
«All’Alagoune», rispose A. in tono quasi aggressivo.
«Hai risposto troppo in fretta per non perderti lungo la strada. Vedi? Già non sei più sulla tua strada».
«Cosa vorrebbe dire? Questa non è la pista giusta?».
Ma Acem si accontentò di domandare: «Che pista pensate di star seguendo?». Parlava così con una calma tale che credetti stesse provando a stuzzicare A. e preferii intervenire: «Contavamo di seguire la pista del Sud, sino all’altezza dell’Alagoune, poi deviare verso est sino ad An Ralah. Ci hanno parlato di un villaggio a qualche chilometro da qui. Ne siamo ancora lontani?».
«Non ci sono villaggi».
«Ma ci hanno detto…».
«La gente parla di un villaggio, ma nessuno vi è mai stato».
Dietro di me B. cominciava ad agitarsi, quasi ad alta voce proclamò che tutto ciò non lo sconcertava affatto dal momento che tutta la gente del luogo valeva lo stesso e che decisamente non ci si poteva fidare di nessuno in questo paese di inganni e menzogne. A. fu più chiaro: «Non val la pena di continuare. Ritorniamo ai nostri calcoli approssimati senza chiedere niente a nessuno. Propongo di rientrare sulla pista principale e là…».
Acem gli tolse la parola con aria divertita: «Qui, noi diciamo che quando l’albero ti ha mostrato la via, non sta bene girarsi indietro».
«Noi dobbiamo essere al più presto possibile ai piedi dell’Alagoune», fece osservare A. in tono molto duro.
«Prendete la via più breve!».
«No, la via più sicura».
«Non bisogna seguire sempre le proprie certezze».
«Se esse possono condurmi all’Alagoune…».
«Esse non vi porteranno sulla vostra via. Sapete che significa Alagoune?»
A. si prese la briga di rispondere ancora, ma parlava a ogni momento con più nervosismo: «Goune significa la montagna, il monte. Ala non lo so. Ma cosa volete che me ne importi: saperlo non mi può certo aiutare».
«Ala significa: simile, nella vostra lingua – continuò Acem sempre con la stessa calma – e io non vedo a quale montagna dentro di voi l’Alagoune potrebbe assomigliare. Ma, visto che volete andarci, sappiate che la pista del Sud vi prenderà almeno due o tre giorni. Due o tre giorni perduti!».
«… Come, perduti?».
«Sappiate, per cominciare, quello che cercate. Poi saprete che la vostra strada va all’Est».
«Lei lo sa, noi cerchiamo l’Alagoune».
«Quel che dovete cercare è a un giorno di viaggio da qui lungo questa pista».
Forse Acem non parlava dell’Alagoune. Ma sembrava formale: due o tre giorni per la via del Sud, e quindi due o tre giorni di pista con i miei passeggeri sovraeccitati dall’incontro in un parossismo d’impazienza di finirla.
Preferivo la pista orientale che forse non ci avrebbe condotto alla nostra vetta, ma l’avrebbe fatto in un giorno soltanto. Per la prima volta dalla partenza l’imprevisto si manifestava.
A me era evidente che bisognava seguire le indicazioni di Acem. Ma già A. e B. si stavano alzando e mi facevano segno di seguirli. A loro pareva evidente che non c’era più nulla da fare lì. lo invece volevo essere sicuro di aver capito bene le parole di Acem: «Lei dice che da quella parte potremmo raggiungere l’Alagoune in un giorno soltanto».
«Un giorno».
«Ne è sicuro?».
«Sono Acem Ar Bdéli», mi rispose con voce altezzosa.
Mi voltai verso A. «E tu che ne dici?».
«Non mi pare che sia abbastanza sicuro».
«Un giorno solo, però! Pensa a quanta fatica in meno, quanti chilometri in meno, la parete così vicina. La pista sarà meno buona, ma l’auto pare tenere bene, io penso che dovremmo provare».
A. esitava, B. attendeva. Ma già sentivo che li avrei convinti, avevano troppa voglia di arrivare per non cedere. Proposi di dormire lì, era già abbastanza tardi e avremmo così potuto decidere all’ultimo momento. La notte era scesa senza che ce ne accorgessimo. Mi alzai e partii con gli altri due verso la macchina. Ma Acem mi richiamò: «Domani non avrete, per mostrarvi la via, né l’albero né me, non dimenticare i punti di riferimento».
E si mise a descrivere la pista tanto precisamente da farmi pensare che l’aveva vista con gli occhi e a lungo, come un viaggiatore che l’avesse seguita per molti dei giorni della sua vita.
O forse avevano tante di quelle volte descritto a lui quel che ora raccontava a sua volta, che poteva realmente credere di aver visto questa pista.
Al mattino riprendemmo la strada. A. già farneticava di poter cominciare la scalata il giorno dopo. Non pensavo ciò fosse possibile. E man mano che ci spingevamo ad est, dei mutamenti quasi impercettibili avvenivano nel panorama. Poco a poco il deserto divenne sempre più deserto. I già rari pascoli dei cammelli erano scomparsi. Davanti a noi si stendevano senza fine ciottoli grigi, spianate incolori e basse colline ben differenti da quelle che avevamo trovato più a nord, colline che a una certa distanza si confondevano nella luce tremante del giorno torrido. Avrei dovuto sprofondarmi completamente nella guida, lasciare che il vuoto mentale suggerito da questo nuovo tipo di deserto mi invadesse.
Bernard Amy in vetta al Grand Im Bodenam, Niger
Ma i sogni a occhi aperti dei giorni precedenti avevano fatto posto a un’indefinita inquietudine provocata dalle difficoltà inabituali della pista, dall’aridità un po’ spaventosa dei territori che ora ci circondavano. All’orizzonte non appariva nessuna catena di montagne. L’Alagoune poteva veramente essere solo a una giornata di viaggio? Non c’era nulla davanti se non altre colline nere e il nastro quasi invisibile d’una pista che ci veniva da domandarci se non fosse stata ormai dimenticata. Ma i punti di riferimento indicati da Acem saltavano fuori con una regolarità sorprendente. La descrizione che lui mi aveva fatto della pista era così esatta che mi pareva di riconoscere un cammino già ben conosciuto e dove ciononostante la presenza della nostra montagna sembrava sempre più improbabile e l’impressione di stare per perderci sempre più forte. Come un’eco dei miei pensieri giunsero improvvise le domande di A.: «Credi davvero che siamo sulla strada giusta? Questa è una di quelle piste in cui ci si perde, questa».
«Non so, ma tutto fin qui corrisponde alla descrizione di Acem».
«Comunque e ciononostante non sappiamo più dove siamo».
«Finiremo bene per ritrovarci da qualche parte».
A. rise di scherno: «Perché ritrovarci e non solo trovarci? Si può andare lontano con questi ragionamenti».
Non risposi, bisognava guidare e non pensare più a nulla.
Acem non aveva mentito, ci arrivammo sul finire del pomeriggio. Oltre una collina grigia esattamente identica alle altre l’orizzonte era sbarrato da una linea più chiara di montagne e contrafforti. Poi, molto in fretta, una vetta si staccò dalla catena. Non corrispondeva affatto all’idea che ci eravamo fatti dell’Alagoune, ma ci stavamo avvicinando da una direzione insolita. E poi per me questo non aveva più nessuna importanza. Cercavamo una vetta e la vetta era là. La pista ora piegava a Sud per contornare le montagne. All’Ovest la luce si addolciva. Sopraggiungeva il crepuscolo e, all’ultimo momento, un villaggio apparì, nell’ombra delle alte pareti.
All’entrata del villaggio un uomo ci guardava arrivare. Ci fermammo alla sua altezza e gli chiedemmo se eravamo arrivati al villaggio di Rergoune. Invece di rispondere lui ci chiese dove stavamo andando.
«All’Alagoune», buttò lì A. «Ma siamo qui a Rergoune?».
L’uomo cominciò a ridere: «lo sono del villaggio di Arazgoune, “la casa della montagna”. Cercate un villaggio, eccovi la vostra casa».
E quindi, sganasciandosi: «Cercate la montagna, eccone una!».
E ci mostrò il picco sovrastante il villaggio, le creste slanciate e le pareti che di qui nascondono tutto l’occidente.
Borbottando A. si girò verso di noi: «Non caveremo un ragno dal buco, qui. Sistemiamoci per la notte. Domani andremo a vederla da vicino, la montagna».
Senza dar da intendere d’aver ascoltato le parole di A., l’indigeno continuò: «Potete sistemarvi in questo cortile, vicino alla prima casa. E’ la mia e vi chiedo di accettare la mia ospitalità».
Con la testa e il busto leggermente inclinati attendeva una risposta.
«Mille grazie» dissi e manovrai per far entrare l’auto nel cortile. Gli altri velocemente tirarono giù dalla macchina il materiale da campo. L’uomo ci aveva seguito sin sull’entrata del cortile e osservava.
Guardai intorno e altro non c’era se non muri di terra secca, suolo polveroso e ombre ancora calde.
«Dove possiamo trovare acqua?», domandai.
«Vieni con me».
Con un bidone per mano lasciai A. e B. e seguii la mia guida.
Era al capo opposto del villaggio dove, oltre l’unica strada, una piccola oasi dava verdura e frescore. Quattro muri circondavano alcuni giardini dove crescevano palme e alberi da frutto. Al centro d’una piccola apertura era un pozzo con un secchio e una corda. La guida vi attinse un secchio d’acqua e mi disse: «Bevi a sazietà e prendine quanta te ne serve, ma solo quanta te ne serve, il villaggio non ha molta acqua e non sappiamo quando pioverà».
Inclinò il secchio verso le mie mani a coppa. Bevvi a lunghe sorsate quell’acqua fresca e dolce che potevo bere senza risparmio.
Quando mi fermai e sollevai di nuovo la testa vidi l’alta parete che incombeva su di noi. Essa era ancora in ombra nascondendo ogni particolare. La vetta era una cresta orlata di sole e dominata da una torre di roccia di cui una sfaccettatura brillava nell’ultima luce del giorno. Ai piedi della torre sembrava di poter distinguere un punto ancora più brillante. Dimenticandomi dell’uomo che ancora teneva il secchio in mano attendendo per me che bevessi di nuovo, cercai di guardare meglio. La chiazza chiara che brillava lassù, su un’altra montagna non avrebbe potuto essere altro che un nevaio. Ma qui? Tutto il deserto arido che avevamo attraversato, tutta la calura bruciante delle giornate che cuocevano questa terra rendevano impossibile l’esistenza di un nevaio sulla vetta.
Una zona di rocce più chiare, una vena di quarzo, forse? Ma la roccia sotto la chiazza sembrava luccicante d’acqua.
«Come ti chiami?», chiesi alla mia guida.
«Acem», rispose in un largo sorriso. E senza mostrare attenzione per il mio sbalordimento: «Che vuoi sapere della montagna?».
«Quella chiazza che brilla, lassù in cima, … è neve?».
«Non so che significhi questa parola nella tua lingua, ma qui, quel che brilla lassù ha un nome che significa: la pietra di nuvola da cui esce l’acqua.
«Ma tu… l’hai vista da vicino? L’hai toccata?».
«Il mondo di lassù non è fatto per noi, coloro che lo abitano sono i soli che sanno quale pietra può venire dalla nuvola».
Non riuscii a saperne di più. La notte si avvicinava svelta e lasciando Acem presso il pozzo riguadagnai l’accampamento. Sulla strada del villaggio mi fermai per rivedere quella chiazza. Nell’ombra che s’andava inspessendo essa era ancora più bianca, irreale.
Era pietra o neve? Acqua dai riflessi splendenti o un brillante cristallo di roccia? Le parole di Acem non aiutavano a decidere. Ma qualunque fosse la sua natura, era là come un regno impossibile da me separato da uno spazio invalicabile. Nel pieno di sterminate lande deserte essa non poteva esistere se non come un’orma d’un mondo inaccessibile, invisibile e per la gente del luogo inimmaginabile. Acem aveva detto che quel mondo non era fatto per noi. Ora avevo l’impressione che, soprattutto, non avesse bisogno di noi.
A. e B. avevano già installato il campo e ordinato il materiale per la scalata. Avevano avuto il tempo di studiare una via di salita e preferivano partire già l’indomani. Presi come pretesto la fatica del viaggio e soprattutto l’aver sempre guidato per dir loro che non li avrei accompagnati. Non avevo abbandonato l’idea di arrampicare con loro, ma preferivo per prima cosa abituarmi a questa montagna. La notte fu più calda del solito. I muri del cortile ci proteggevano dal vento e trattenevano il calore del giorno. A lungo attesi il sonno. M’ero sdraiato con il viso volto alla parete e cercavo nella notte di ritrovare la chiazza. Non avevo parlato ai miei compagni né di quella chiazza insolita, né dei giardini che circondavano il pozzo. Dirglielo non avrebbe avuto scopo. Nella loro testa c’era posto soltanto più per i progetti della scalata.
Quando mi risvegliai loro erano già partiti. Il sole si levava sul deserto ma il villaggio me lo nascondeva. L’aurora aveva portato aria fresca e, nell’ombra del cortile, attendevo che il sole mi raggiungesse.
Dalle case vicine arrivavano rumori e voci che rendevano quel mattino un istante completamente speciale dopo tanti giorni con la solitudine del deserto. Partiti i miei due compagni restavo solo, libero di vivere quel viaggio come l’avevo immaginato. Quando il sole mi toccò, il cortile fu invaso dalla calura e fui costretto ad alzarmi.
Acem arrivò e mi invitò a bere dell’erba dolce. Non potevo certo dir di no. Fui invitato in casa sua e si concentrò nella preparazione dell’infuso.
Più tardi, avevamo bevuto in silenzio, mi domandò: «Sono partiti, vero?».
«Sì».
«Alla montagna».
«Certo!».
«E tu che pensi di fare?».
«Esser qui».
Un gran sorriso gli scivolò sul volto e senza dir nulla di più si alzò e se ne andò. E’ così che la gente di queste parti ti dice che casa loro è casa tua.
Più tardi traversai il villaggio e tornai ai giardini. Conservavano ancora il fresco notturno. In certi punti il terreno era umido. L’erba risuonava dei brusii degli insetti. Il vento stormiva tra le palme come grilli in lontananza. Mi sedetti sulla terra, mi appoggiai al muretto del pozzo e ancora una volta guardai la parete.
C’era in quel momento una luce obliqua che ne rivelava ogni particolare. L’ombra serale ci aveva fatto pensare a una parete molto ripida senza una via evidente per salire. In quel mattino appariva invece un versante spazioso tagliato da cenge e canaloni su cui appoggiano, svettanti verso il cielo, splendide torri color ocra. A sinistra era delimitata da una cresta affilata. La seguii tutta con lo sguardo.
Su quella salire doveva essere relativamente facile, una cavalcata aerea, esposta in equilibrio fra i precipizi del versante nord-est pieno di sole e le ombre che regnano a sud-ovest. La cresta terminava sotto la torre sommitale, esattamente dove avevo visto la chiazza bianca. Non era ancora stata toccata dal sole. Guardando con attenzione mi parve di distinguere una zona d’ombra più chiara che poteva essere la chiazza. Di nuovo con gli occhi sulla parete principale cercai tutte le vie di salita possibili. Ma gli occhi continuavano a tornare sotto la torre, volevano vedere quella chiazza e forse finivano per inventarsene una. Poteva veramente esserci un nevaio lassù? Un relitto di neve indurito dalla fusione che solo gli spiriti delle altezze e del deserto conoscevano? Eppure ero quasi sicuro d’aver visto brillare delle placche umide. La maniera migliore di saperlo era quella di andarci. Studiai ancora la cresta, non sembrava che vi fossero difficoltà estreme. E doveva essere una scalata bellissima! Mi alzai, tornai all’accampamento. Mi levai i sandali e infilai le scarpette d’arrampicata. Misi nel sacco una corda, sperando di non dovermene servire, poco materiale e una borraccia d’acqua. Lasciai nell’auto un biglietto con l’ora probabile del mio ritorno e dove contavo di andare. Poi partii verso la cresta. In poco tempo ero ai suoi piedi. Una bella fessura di roccia compatta solcava il versante assolato e permetteva di raggiungere il filo della cresta che pareva continuare sempre arrampicabile. Posai le mani sulla roccia già calda. Era solida, sicura, fatta per portarmi in alto, ricca di appigli, ben visibili. Ho cominciato ad arrampicare e tutto è diventato facile.
La cresta mi dirigeva, salivo fra le impalpabili superfici dell’ombra e della luce. I gesti si succedevano regolari. Le forze necessarie mi salivano dentro e ogni sforzo si annullava. E non avevo peso. Ero l’aria tiepida che scivolava lungo la cresta, nell’aria fresca del mattino, e trovavo sulla roccia il tepore d’un giorno che si levava grande sugli sconfinati spazi del deserto. Ero il vento che scivolava nel centro del vuoto (Bolenath! NdT). Non toccavo più le rocce della cresta. E le rocce erano la stessa, unica pietra, che mi seguiva ora affinché il vuoto ed io potessimo appoggiarci su di lei e costruire la nostra dimensione, sempre più alta, sempre più aperta, vivendo come l’acqua limpida che ogni immagine trapassa senza perderci niente dentro. Non pensavo più alla vetta, al nevaio impossibile, all’orario che dovevo rispettare per ritornare in tempo. Ero in arrampicata e quello bastava. Non lo sapevo più, ma conservavo una coscienza diffusa che mi dava una gioia profonda. Il mio corpo arrampicava, arrampicava e la montagna era lì per quello.
Insieme al sole toccai i piedi della torre sommitale. Mi fermai, che il soffio si calmasse nei polmoni vuoti. E mi guardai intorno. Avevo lasciato i giardini, il fresco e l’acqua, ma l’acqua la ritrovavo lassù. Ero su un’immensa terrazza costellata di vasche profonde. Sulla parete incombente che mi nascondeva la vetta era aggrappato un enorme, lucente nevaio da cui scrosciava una cascata d’acqua chiara. Ruscelletti alimentavano le vasche da cui l’acqua debordava e scendeva sulle placche arroventate del versante soleggiato. Aggirai le vasche e salii al nevaio. Mi fermai sotto il suo bordo inferiore strapiombante. Nel cavo della mano raccolsi un pugno di neve fredda e pesante. Fondeva a stento e le strinsi le mie dita attorno. Dominavo la terrazza. Non mi ero neppure meravigliato vedendo che aveva la forma ovale d’un grande viso dove le due vasche più grandi erano gli occhi color del cielo che vi si rifletteva. L’acqua le dava vita e i riflessi espressione. Ero di nuovo sulla montagna, lei mi aveva atteso e ora mi accoglieva. I suoi laghi erano i suoi occhi, finalmente specchi d’un cielo vicino, pozze d’acqua trasparenti di cui vedevo il fondo di pietra pura. Avevo trovato il vasto paese aperto del deserto, sapevo quello che lei era per me e lei mi diceva che nel ritrovarla non c’era stato nulla di impossibile. Per portarmi alla sua vetta l’immaginario e la realtà avevano costruito insieme un luogo perfetto. La vetta, quella vera, dove tutte le linee delle creste si uniscono, non aveva ora più nessuna importanza. Seguii una cengia, raggiunsi la cascata e mi misi sotto il suo getto. Lasciai che l’acqua gelida fosse su di me, scorresse su di me, impregnasse i miei vestiti. Ma non chiusi gli occhi in tempo e un riflesso mi fece indietreggiare fuori dalla cascata stropicciandomi gli occhi. Per paura di perdere l’equilibrio mi sedetti sulla cengia, schiena contro la parete. Quando potei di nuovo aprire gli occhi, vidi sopra di me Acem che scoppiava di risa. Teneva un secchio d’acqua pieno a metà e sentendo la camicia inzuppata incollarsi alla pelle capii che il resto l’aveva versato su di me. «Sei pazzo Acem! Sprecare tutta quest’acqua soltanto per…».
«Sembravi molto felice nel tuo sonno. L’uomo felice che sogna la propria felicità, possiede la ricchezza vera. E a chi possiede già la vera ricchezza, si devono dare vere ricchezze».
Sono io ora che scoppio a ridere. Ma nello stesso tempo un vago senso di delusione cercava la via del mio cuore: e così tutta la così bella scalata…
«Arrampicavi, vero?» mi domanda bruscamente Acem.
«Sì, ma solo in sogno».
«Colui che si crede un uccello perché sta sognando di volare, lui è veramente un uccello nel momento in cui vola. Si deve dire che conosce l’ebbrezza del volo. Tu l’hai conosciuta la grande gioia dell’arrampicare, vero? ».
«Sì, certamente».
«E allora che importa se fu da sveglio o nel sonno? E poi dì a te stesso che se l’hai conosciuta è perché già nella realtà hai arrampicato bene».
Avrei dovuto ammettere che Acem aveva ragione. Ma, uscito dal sogno, senza avere lo stesso ritrovato il grande sogno del nostro viaggio, volli discutere.
«Ho già sognato di essere un uccello eppure non ho mai volato realmente».
«Se ti sei davvero sentito un uccello allora una parte di te, un giorno molto lontano, ha già volato. O forse hai volato in sogno per immaginare una felicità diversa che tu non sai tradurre altrimenti. Vieni! Hai arrampicato meglio tu dei tuoi amici. Il mio pranzo ti sta attendendo».
«Sono tornati i miei amici?».
«No, per quel poco che io conosco la montagna credo che oggi non troveranno la loro felicità».
Andammo verso il villaggio. Faceva così caldo che il suolo scottava le piante dei piedi attraverso i sandali. Doveva essere insostenibile lassù, sulle creste o sulla parete. Sentivo contro la pelle la freschezza dell’acqua che evaporava, e nello stesso momento immaginavo A. e B. che stavano forse ancora arrampicando.
«Acem, pensi che torneranno per sera?».
«I tuoi amici? Certo. Ma vedi, essi cercano troppo quello che desiderano per poterlo trovare».
E poi ridendo di nuovo mi chiese: «E tu, l’hai trovata la pietra di nuvola?».
E mi mostrò il mio pugno serrato.
Sorpreso, aprii la mano. Avevo dentro un bel sasso quasi freddo, straordinariamente bianco e che non ricordavo d’aver raccolto.
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Bellissimo racconto!