Alberto, io e la Walker (GPM 010)
di Gian Piero Motti
dal Bollettino GEAT, luglio-ottobre 1969.
Fu senz’altro per caso che un pomeriggio di un certo giorno di luglio, Alberto Re ed io ci ritrovammo a risalire la Mer de Giace incalzati da un furioso temporale. Rannicchiati sotto un enorme macigno, attendendo che Giove Pluvio sfogasse la sua ira, gettavamo ancora qualche occhiata di rimpianto al vertiginoso Pilier del Dru tutto fasciato dalle nebbie.
Eh sì! Eravamo proprio diretti alla Bonatti al Dru, ma a Courmayeur un certo Gian Carlo Grassi, notoriamente informatissimo, ci soffiò una notizia di importanza determinante: lo sperone Walker sulla Nord delle Grandes Jorasses, la cassiniana “Walcher” per intenderci, era in ottime condizioni. Figurarsi che Gian Carlo con un potente binocolo, appostato in posizione strategica in Val Veny, negli ultimi giorni aveva visto uscire alpinisti dalla cornice sommitale come «orde di cavallette».
Lì per lì restammo un po’ titubanti, ma poi la forza del razionalismo ci convinse: la Walker è sempre la Walker e sono pochini gli anni in cui è veramente in condizioni ideali, mentre il Dru, data l’esposizione e la verticalità, è sempre, o quasi sempre, in condizioni buone. Quindi, sicuri di cogliere una pera matura senza alcuno sforzo, optammo per la Walker.
La parete nord delle Grandes Jorasses
Giunti alla Capanna Leschaux il temporale era finito, splendeva un bel sole e anche la parete apparve in tutta la sua imponenza. Devo dire che sul momento non mi impressionò molto, anche se subito si videro gli effetti del temporale pomeridiano, infatti tutte le placche erano macchiate di grandine. Poi nel mio
cervello cominciarono a girare vorticosamente strane considerazioni, frutto di lunghe ore passate a leggere e rileggere libri, riviste e articoli di montagna. Bene o male sulla Nord delle Grandes Jorasses avevano “trovato lungo” un po’ tutti i big dell’alpinismo: Gervasutti, Rébuffat, Buhl, Terray, Desmaison…
La forza di queste considerazioni mi fece apparire subito la parete più tetra e più cupa, ma il sole che ancora splendeva sui verdissimi ciuffi erbosi attorno alla capanna e una magnifica cenetta consumata nel solitario rifugio mi ridonarono ben presto la pace dello spirito.
Verso mezzanotte o su per giù, rumori all’esterno mi destano da un meraviglioso sonno in cui ero beatamente piombato: due francesi, fradici dalla testa ai piedi, di ritorno dallo sperone. Uno è ferito e concitatamente ci spiega che la parete è molto bagnata per il temporale. Con espressioni di vero disgusto ci mostra il pietoso stato dei suoi abiti; tra l’altro ha un ginocchio piuttosto malconcio, effetto, ci spiega, di una violenta scarica nelle fasce di ghiaccio inferiori.
Però, tutti mi avevano detto che la Walker era una via così sicura: senz’altro si tratta di un caso. I due francesi sfoderano una magnifica relazione tecnica corredata di ottimo schizzo, precisa identica alla mia, che però ho lasciato a casa, in quanto dovevamo andare al Dru.
Beh, certo non è tanto consigliabile partire per la Walker senza relazione tecnica. Alberto non sa che io conosco la via a memoria senza averla mai fatta, o per lo meno non si fida delle mie facoltà intellettuali: ricorrendo ad arti sopraffine, riesce a carpire lo schizzo ai due cugini d’oltralpe.
Sotto un magnifico cielo stellato seguiamo le tracce che conducono alla terminale, all’attacco della parete: rapidamente saliamo senza ramponi fino alle prime fasce rocciose, che attraversiamo verso sinistra.
Sempre senza ramponi saliamo per ripidi tratti di ghiaccio alternati a roccette instabili fin sotto un formidabile salto verticale di placche grigiastre.
Mentre studiamo il percorso migliore da seguire, un individuo ci compare davanti come un fantasma: è giunto al termine di una lunghissima corda doppia e vacilla paurosamente attendendo il compagno. Deve aver preso una bella botta, si direbbe guardando la larga ferita che gli attraversa la fronte.
Sassi naturalmente, via molto sicura, naturalmente…
Le placche sotto il diedro Rébuffat sono bagnate e sporche di grandine: qualche passaggio si rivela per niente stupido, almeno in queste condizioni. Mentre mi accingo ad attaccare il diedro Rébuffat, forse il più bel passaggio della via, qualcosa mi passa a mezzo metro dalla testa frullando nell’aria. Non ho nemmeno il tempo di avvertire Alberto, e un gemito mi indica che il proiettile è andato a segno. Alberto con le lacrime agli occhi per il dolore mi mostra la mano destra ferita e tumefatta per la botta; riesce tuttavia a muovere le dita e con grande coraggio decide di continuare.
La Walker? Ah, una via molto sicura…
Attacco e supero il diedro Rébuffat, abbondantemente innaffiato; ormai sono rassegnato e penso con un certo disappunto come dovrebbero essere belle questa arrampicata e queste ruvide placche se la roccia fosse asciutta, calda e pulita. Invece i chicchi di grandine accumulati nelle fessure e sugli appoggi e una sottile pellicola d’acqua che scorre sulla roccia riducono l’aderenza praticamente a zero e, soprattutto, ci fanno perdere tempo.
Essendo l’uscita dal diedro molto fotogenica, il buon Alberto estrae la sua nuovissima e praticissima Rollei 24×36 di cui va giustamente fiero, allo scopo di immortalarmi ai posteri. Ma ahimè!, il sasso maligno, dopo aver colpito crudelmente la mano, era rimbalzato sulla pettorina della giacca a vento, frantumando letteralmente la magnifica Rollei 24×36 che ivi aveva sede.
La reazione di Alberto è violenta e pittoresca: per nulla intimorito dal severissimo ambiente che ci circonda, dà libero sfogo alla sua rabbia con una serie di imprecazioni uniche nel loro genere. Lì per lì non posso fare a meno di ridere, poi assumo un contegno dispiaciuto per l’incidente.
La famosa traversata delle Bandes de glace si rivela più facile del previsto e non ci dà troppo fastidio. Per rocce articolate e con arrampicata piacevole ci portiamo così verso il diedro di 75 metri. Tutto sembra filare liscio, anche il tempo per ora si mantiene; solo le condizioni della parete ci privano un po’ del piacere dell’arrampicata e ci ritardano notevolmente.
Gian Piero Motti, Rocca Nera di Caprie. Foto: Ugo Manera
Malgrado l’incidente ci alterniamo sempre al comando della cordata, e Alberto, anche con la mano menomata, riesce ad assolvere nel migliore dei modi il suo compito di capocordata.
Però (c’è sempre un però) attraversiamo troppo basso e invece di trovarci ai piedi del diedro di 75 metri, sbuchiamo alla base di un orribile canalino verticale percorso in tutta la sua lunghezza da una graziosa cascata di ghiaccio trasparente; di tornare indietro non se ne parla nemmeno e così attacco deciso la perfida canaletta. Demolendo, spaccando, chiodando e scalinando vengo a capo anche di questo problema, ma così un’altra ora se ne è andata. Cominciamo a capire che la nostra ferma intenzione di uscire in giornata sta andando a farsi benedire.
Veramente superbo questo diedro di 75 metri, perfetto. Peccato che una cascatella d’acqua lo percorra da cima a fondo; fosse asciutto l’arrampicata sarebbe sicuramente splendida, in spaccata sulle placche esterne, invece così si deve ricorrere sovente alle staffe, in quanto le suole non hanno alcuna tenuta sulla roccia grassa e umida. A parte poi i soliti inconvenienti del rivoletto d’acqua che ti entra per la manica, scorre leggiadramente per il torace e dà infine refrigerio ai glutei affaticati, ma è cosa cui ormai siamo abituati.
Su ora per tratti di misto e per camini ghiacciati verso il famoso passaggio del pendolo; in verità non mi aspettavo molto da questo passaggio, notevolmente smitizzato da Allain e dagli svizzeri. Eccolo infatti, reso addirittura elementare da una corda fissa lasciata in sito, forse per facilitare un eventuale ritorno. Capisco la buona intenzione, ma la cosa mi sembra esagerata, in quanto con una lunga corda doppia un po’ delicata penso che si potrebbe ugualmente scendere senza una messa in scena di questo genere.
Comunque a caval donato non si guarda in bocca, e usufruendo del cordino, a dire il vero un po’ vecchiotto, ci tiriamo fuori anche da questo passaggio. Superato uno strapiombo ostico (la valutazione quinto inferiore che leggo sullo schizzo mi sembra davvero tiratina) giungiamo a un magnifico terrazzino ai piedi delle placche nere. Il posto è fantastico, forse il più bello dello sperone; sopra, una sparata di placche lisce e verticali degne di una parete dolomitica; sotto, una parete impressionante che muore tra ripidissimi canalini di ghiaccio nero; di fianco l’orrido canalone tra lo sperone Whymper e il nostro. Io non so se sfortunatamente abbiamo pescato una giornata particolare, forse troppo calda, ma in tutti i miei anni di esperienza alpinistica non ho mai visto precipitare tante pietre come quel giorno dallo sperone della Whymper: una cosa impressionante, blocchi enormi e lastre complete si staccavano continuamente a ogni punto dello sperone, rimbalzando, squassando e devastando ogni cosa accompagnati da boati veramente paurosi. Alcuni blocchi partivano altissimi da una macchia chiara, segno di una frana recente, precipitavano con apparente incredibile lentezza e si schiantavano sulla parte alta dello sperone, causando anche su di esso notevoli scariche di sassi. A causa di una di queste scariche (vedi secondo giorno) per un puro caso non ci si lasciava la pelle.
Attacco le placche nere, magnifiche e finalmente asciutte, ma forse con troppa decisione, poiché, invece di attraversare a sinistra, ingannato da un chiodo, salgo direttamente per venti metri con difficoltà quasi estreme. Supero un ultimo passo degno di un’esercitazione sui sassi delle Courbassere (palestra di allenamento in Val d’Ala di Lanzo, NdR) e capisco che più in su non c’è nulla da fare. Lascio un bel moschettone su un chiodo e ritorno indietro; subito trovo il passaggio molto a sinistra.
Gian Piero Motti a Pera Pluc (Almese). Foto: Vincenzo Pasquali
Così, sempre alternandoci al comando della cordata, veniamo a capo anche delle placche nere, senz’altro il pezzo più bello e più difficile di tutta l’ascensione. Anche se qua e là si vede qualche chiodo di troppo, resta sicuramente un tratto di tutto rispetto, con alcuni passaggi di difficoltà quasi estrema.
Ci rimangono ancora un paio di ore di luce quando sbuchiamo su un ottimo terrazzo al termine delle placche nere; di qui con un tiro di corda dovremmo raggiungere la sommità della torre grigia e il filo dello sperone. Non credo però che in alto si presentino posti da bivacco migliori e quindi decidiamo di sistemarci qui: con tutta calma potremo piazzare la tendina, consumare una cenetta succulenta e osservare il tempo che purtroppo non promette nulla di buono.
Dalla parte bassa dello sperone ci giungono voci; oggi pomeriggio almeno quattro cordate hanno attaccato la parete e ora staranno preparandosi al bivacco. Per il momento tutto sembra tranquillo e normale.
«Alberto, piove, porca miseria!».
Sono passate poche ore e il temporale non si è certo fatto attendere. Ma fosse solo pioggia! In breve la montagna ci scarica addosso una tale quantità di grandine che ogni mezz’ora dobbiamo scuotere la tendina semisepolta dai chicchi. I fulmini si susseguono con una rapidità impressionante, accompagnati da tremende scariche di sassi nel canalone della Whymper.
Rannicchiato nella tendina, comincio a pensare a tante cose: rivivo a una a una le avventure di tanti alpinisti bloccati sulla Walker dal maltempo, mi tenta il pensiero di una ritirata, poi si stampano nella mia mente le poche righe lette sulla Vallot: in caso di cattivo tempo, oltre le placche nere, uscire a ogni costo, le tout par tout.
Anche la tendina ormai comincia a cedere, con il risultato che ben presto ci ritroviamo fradici dalla testa ai piedi. Uno strano fatalismo è subentrato in me, quasi non mi importa più nulla delle scariche, dei fulmini, della grandine che ci seppellisce la tendina. Imbacuccato nella cagoule, traggo interessanti considerazioni sulla natura umana, sull’assurdità e sull’inutilità di certe azioni. All’alba un grigio cielo autunnale lascia scorgere qualche striscia di azzurro; anche il temporale è finito. Decidiamo senz’altro di continuare e di uscire al più presto. In queste condizioni sarà dura, ma non impossibile.
Alberto attacca una parete giallastra e strapiombante, tutta incrostata di grandine: il divertimento, il piacere della salita, tutto è finito. Qui ci si arrampica solo più per tornare a casa.
La parete nord delle Grandes Jorasses. Lo sperone della Walker è quello di sinistra
A ogni passo gli indumenti fradici si spremono e lasciano uscire una gelida e disgustosa acquerugiola che cola per tutto il corpo. Dieci metri sopra di noi il filo dello sperone, su cui le difficoltà dovrebbero diminuire. Alberto mi passa le corde ma, Dio mio!, duecento metri sopra di noi, dalla parete della Whymper è partito un blocco enorme, spropositato. Lentamente ingigantisce, si abbassa con dolcezza verso di noi.
Ci schiacciamo, ci rannicchiamo, cerchiamo di aderire e di penetrare nella roccia; il blocco picchia trenta metri sopra le nostre teste, va in mille pezzi. Scheggioni, blocchi, scaglie ci sfiorano e colpiscono gli zaini: questa volta è proprio finita.
Invece no, non è successo niente.
Le gambe mi tremano, ma devo calmarmi, devo togliermi da questo posto schifoso. Il filo di cresta, essendo più inclinato, è tutto impiastrato; lentamente, ma con decisione, guadagniamo quota.
Frattanto sotto di noi succedono cose strane: gente che va, gente che viene, urla, richiami. Lì per lì penso subito a un grave incidente, poi Alberto, più ottimista, conclude che senz’altro le cordate si staranno ritirando. Adesso è arrivato anche un elicottero, compie numerosi giri attorno allo sperone, si abbassa, improvvisamente si alza fino alla nostra altezza.
Il pilota con audacia straordinaria si avvicina fin quasi a rasentare lo sperone, è vicinissimo a noi, ci saluta. Mi prende una strana commozione, fragilità dei sentimenti umani…
Poi scende fino al ghiacciaio, si ferma, non comprendiamo bene cosa stia succedendo, molte persone sono ammassate intorno all’elicottero: di scatto si alza e velocissimo punta su Chamonix.
Alberto calza i ramponi per risalire il nevaio triangolare, che ci condurrà alla Cheminée rouge, vero mauvais pas della salita. Su questo camino ne ho già sentite un po’ di tutti i colori: marcio, ghiacciato, pericoloso, disgustoso, come lo definì l’amico Gogna al ritorno dalla sua fantastica solitaria.
Neri nuvoloni si addensano attorno allo sperone. Una traversata dovrebbe condurmi all’inizio del camino, è evidente. Ma la placca su cui dovrei attraversare a destra non esiste più: al suo posto un’unica lastra di ghiaccio colato. Comunico a tutti gli dei del cielo la mia rabbia, e con vero furore mi accanisco a demolire quel carapace di ghiaccio. Non so come ma vado avanti, trovo un cuneo, vecchio, marcio, non importa: va bene così, vado avanti, raggiungo l’inizio del camino.
Un colpo secco, un bagliore, un boato fragoroso. La grandine comincia a picchiettare sempre più violentemente sulla roccia. Miseria, proprio qui doveva prenderci il temporale!
Salgo una lunghezza di corda con la grandine che mi entra dappertutto, nel collo, nelle maniche, mi incrosta gli occhiali. Ma salgo.
Alberto passa in testa, tutta la grandine accumulata nell’anfiteatro superiore viene raccolta dal colatoio che la scarica su di noi sotto forma di fragorosa cascata. I passaggi sono estremi, non si vedono i chiodi e i pochi che si riescono a trovare sotto i chicchi rimangono in mano. Non capisco come Alberto riesca a salire, ma lentamente, con una grinta meravigliosa, raggiunge il punto di sosta. Io qui sotto non capisco più niente, la cascata mi ributta indietro, mi toglie il respiro. Una fiammata, un boato: Alberto, porca miseria, il fulmine mi ha beccato!
Gridiamo, non riusciamo a capirci, ecco sì, ha colpito anche Alberto, mi prende una paura terribile, il terrore, la paura di morire, di lasciare questa vita cui sono terribilmente attaccato. Ordino ad Alberto di fissare al più presto una corda, salgo, mi arrabatto, ogni tanto mi partono i piedi, i chiodi si sfilano e penzolano sulla corda, ma salgo.
La violenza del temporale è inaudita, in questa situazione non contiamo più niente, non siamo più niente, tutto è assurdo, irreale, ridicolo.
Riparto, non si vede più un appiglio, non c’è più un chiodo, le scariche elettriche si susseguono, la cascata non accenna a diminuire. Un chiodo alla mia destra, due, tre chiodi! Mi separano due metri dal chiodo, mi lascio andare, ma no, non volo, aggancio una staffa, l’altra staffa mi sfugge dalle mani, non importa, proseguo, mi afferro a blocchi incastrati instabili, raggiungo un terrazzino fuori dal camino.
Presto Alberto, presto, se no qui ci lasciamo la pelle. Ci buttiamo nella tendina così come siamo, e subito subentra una calma meravigliosa. Passano una, due, tre ore. Non grandina più, nevica, sì nevica dolcemente. Io penso a tante cose, penso a quand’ero bambino e con il naso appiccicato ai vetri della cucina guardavo la neve cadere leggera leggera, penso alla mia valle, alle mille radure dei boschi dove è bello sdraiarsi con una donna accanto e guardare i giochi del cielo e delle nuvole tra i rami degli alberi; penso alla mia famiglia, ai miei amici, ai miei affetti… Tutto è così lontano, tutto è assurdo.
Ora non nevica più, ma attorno a noi il paesaggio è invernale. In queste condizioni dobbiamo uscire questa sera stessa, se no caro Alberto, questa volta si mette male. Ed è pur vero che ormai ci attendono solo più i “facili colatoi di uscita”; coraggio Alberto, domani siamo a spasso per Courmayeur! I facili colatoi ci richiedono un tiro di artificiale e due lunghezze in un camino ghiacciato disgustoso, ma ormai non ce ne frega più niente. Raggiungiamo lo sperone, torna la forza, torna il buonumore, sì, siamo anche felici. Dai Alberto, tocca a te, dai che è l’ultimo tiro.
L’ultimo tiro, ghiacciato, rischioso, marcio, ma è l’ultimo tiro. In vetta ventaccio boia, sono le nove di sera, cielo nero come l’inchiostro e fulmini lontano sul Gran Paradiso.
Veloce la macchina risale la strada familiare della mia bella valle, tra poco sarò a casa, in famiglia, tra i miei amici. Il tempo non è bello, il cielo è scuro, cupo, cade qualche goccia di pioggia; rapide folate passano nella mia mente. Tutto ormai appartiene ai ricordi. Però, come è bella la vita, come è bello ritrovare, riscoprire a una a una le cose più care, come è meraviglioso accorgersi di quanto siano importanti anche le cose minime, le più insignificanti, le cose comuni di tutti i giorni.
Giunto a casa, per curiosità apro il giornale. Tragedia sulla Nord delle Grandes Jorasses: il famoso alpinista tedesco Joerg Lehne è morto, colpito da una scarica di sassi, il suo compagno gravemente ferito, cordate in difficoltà. Un brivido mi passa per la schiena, per un lungo attimo ripiombo nell’inferno: ecco il significato delle grida, dell’elicottero. Mi sembra di essere sfuggito a una trappola insidiosa, a un appuntamento prestabilito. A lungo resteranno nella mia mente gli istanti vissuti sulla Nord delle Grandes Jorasses, sperone Walker; difficilmente potrò cancellare il ricordo dell’attimo in cui uscimmo in vetta. Forse come René Desmaison di ritorno dalla sua terribile esperienza invernale potrei solamente dire: «Pauvre homme, où est ta victoire? ll ya quelque istant seulement, tu étais simplement heureux d’ètre encore vivant».
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La cosa notevole è il tono mai retorico (siamo nel 1969!) e i passaggi “quasi estremi” ma mai estremi.
Un aggettivo che oggi si usa spesso a sproposito.
Stile alpinistico e narrativo impeccabile!
E poi Alberto Re. Quest’anno ne ha 80 di anni. Non ho conosciuto Motti ma Re si e l’ho anche avuto come presidente delle Guide Alpine italiane. Un uomo come pochi, una guida i-n-e-g-u-a-g-l-i-a-b-i-l-e, un maestro di vita e di montagna, e sicuramente un alpinista di gran classe, di quelli modesti però, come si conviene ai grandi che lo sono davvero.
Alpinismo da battaglia!
Però, a parte la disgrazia, Gian Piero Motti piú volte espresse il suo giudizio negativo sulla nord delle Jorasses.
Il buon Gogna ci potrebbe illuminare: la Walker è bella (e difficile) oppure è brutta e pericolosa (e difficile)?