Baltoro 2004 – 6

Metadiario – 264 – Baltoro 2004 – 6 (AG 2004-009)
Juhla, 27 agosto, ore 19
Cinque ore e mezza ci sono sufficienti per trasferirci a Juhla, dopo i calorosi saluti con Beppe Tenti e il suo gruppo che oggi riposano a Payu. Prima di colazione attesa con Beppe, accanto ai bagni, che le nuvole sgombrassero la vista sulle Torri di Trango. Vana. Il discorso torna sul futuro trasporto da Concordia di tutto il materiale, mi raccomanda di fare il possibile per definire con il CAI senza aspettare l’ultimo momento. Poi la gradita sorpresa: Beppe si offre di portare da Islamabad le batterie usate che gli lasceremo al Regency Hotel. Questo per noi è un bel problema in meno, sia di costi che di dogana: cercheremo di lasciargliele in contenitori di plastica, in modo che siano presentabili al meglio.

Il ponte di Juhla e il Mango Gusar

Durante la marcia racconto a Silvia e Alberto qualche episodio relativo alla formazione culturale/educativa delle mie bambine. Durante una breve impennata del sentiero, Silvia si accascia dal ridere su un sasso, abbandonata dalle forze. Era l’episodio di Appenzell, Guya era stata da me obbligata a scendere con loro per un sentierino ripido, dalla cresta verso il fondovalle, mentre io avrei proseguito il mio giro fotografico finalmente solo e libero da gente che mi chiedeva “quanto manca?”. E questo dopo neppure 60 minuti scarsi di marcia in falsopiano con una fantastica vista a picco sulla valle del Reno. La poverina (per lei era la prima volta a contatto continuato con le mie figlie) si affannava a spiegare quanto in fondo io fossi un buon papà che non voleva affaticarle troppo, ma dentro di sé imprecava per la responsabilità che le avevo dato.

– Insomma, avete visto in che posto ci ha portate? Qui è meraviglioso…

E intanto Elena faceva fatica a scendere gradini del sentiero quasi più alti di lei. E a quel punto Petra era sbottata dicendo a Guya “È facile dirlo per te, che è la prima volta… noi, invece…”.

A Bardumal ci fermiamo a prendere il tè, i vegetables dell’orto ricavato nella sabbia sono rigogliosi e l’incaricato ce li mostra fiero. In effetti è un bel lavoro, il campo è tenuto decisamente bene. Il perché è ovvio: tutti i rifiuti erano stati interrati…

Circa una mezz’ora prima di Juhla ci fermiamo a scalare su un masso, tanto per sgranchirci le braccia, anche Alì. Poi, giunti al campo, abbiamo la sgradita sorpresa di non trovare né il cuoco né il kerosene per la cena. Ne trova un po’ Alì nel gabbiotto dell’MGPO.

Una telefonata a Mr. Salim garantisce la jeep per Silvia da Askole: Alì ci spiega che è Mr. Zaman che dovrebbe rilevarci le lattine per conto dell’MGPO. È il vice di Mr. Jaffer.

Il problema rimane la strada interrotta. I commercianti di Skardu non arriveranno mai in queste condizioni. Temo che dovremo accontentarci della consegna all’MGPO, senza poter documentare la partenza dei rifiuti da Askole per Skardu.

La cena, preparata da Alì e Ibrahim, è davvero ottima: pasta con salsa al formaggio, dahl e sugo di tonno, pomodoro e aglio. Silvia e Alberto si scolano una coca-cola comprata a 300 rupie.

Dopo una telefonata a Mario Pinoli e vari messaggi a mogli, parenti e fidanzati non rimane che andare a dormire. È ancora chiaro, ma domattina ci alzeremo alle 5.

Mentre mi sistemo in tenda, godo alla bella sensazione della raggiunta pulizia corporale. Con l’ultimo sole, che qui va via presto, ci siamo lavati testa, piedi e ascelle nei lavabi esterni. L’unico lavabo libero dei quattro era occupato da un topo morto e un po’ putrefatto. Lo afferro con un doppio pezzo di carta igienica e lo deposito nei pressi. Poi faccio correre l’acqua in modo da detergere il più possibile. Accanto a me, Silvia. E accanto a lei due pakistani che si lavano la testa con generose quantità di shampoo.

Askole, agosto 2004. I collector su una parte dei rifiuti metallici raccolti

Infine, chiusi nelle cabine, abbiamo finalmente scrostato le parti intime, regalandoci una fetta di paradiso. Gli addetti al campo sono molto curiosi, Silvia è costretta a farsi forza e a esibire un lavaggio di capelli di fronte a una decina di giovani oziosi.

Finalmente è buio, nel chiuso della mia tenda. Domani ultima tappa di 17 km fino ad Askole. Siamo alla fine, ormai. C’è la sabbia, c’è il caldo. Ho tolto la maglia a maniche lunghe, la camicia, i calzettoni. L’acqua del Dumordo scorre impetuosa, come sempre. C’è stata la pulizia corporale, ci sono mosche da scacciare o schiacciare sulle pareti interne della tenda. Con la mente sono già avanti, alle comodità di Skardu, alla possibile settimana turistica, ad altre gite e camminate in ambiente diverso. Sono vicino al rientro da quest’avventura per la quale sono partito così pesante di dubbi. E ora che è quasi finita, cosa è cambiato?

Sono tentato di ammettere che nulla è successo, che non sono progredito di un cm sul cammino della conoscenza.

Spero solo che quando sarò a casa sia tutto più semplice, che ogni piccola cosa della nostra vita quotidiana sia arricchita di quel valore che le ho dato in questi mesi di assenza, di privazione di quella cosa stessa.

È un augurio che mi faccio, ma non c’è garanzia. Vedo qui la gente, tutti, dal cuoco all’aiutante, dalle guide locali ai portatori che vanno su e giù per il Baltoro anche quindici volte in un’estate. Anche loro sono distanti da casa, vivono nel disagio e nella fatica. Eppure non c’è nessuno che non sorrida, che non sia pronto a insegnarmi, già solo con la sua presenza serena, a vivere con semplicità.

E per questo, grazie Pakistan! Un giorno risponderò a Oriana Fallaci e al suo articolo tremendo del dopo Torri gemelle: nel mio scritto ci saranno questi due mesi di Pakistan. Ma sarà difficile che la mia debole voce arrivi fino a New York.

Questo contare i giorni, contare le ore (ora, per esempio, mancano 285 ore all’incontro con Guya, 287 ore con Petra ed Elena) è una novità nei miei viaggi e nelle mie assenze. Forse fino a oggi non ho mai sentito così prepotente la necessità di stare assieme ai miei affetti. Ci sono momenti in cui mi prenderei a sberle per questo ricorrere all’orologio e al datario, mi sembra di non saper accettare un destino liberamente scelto, mi sembra che l’imparare a vivere sia sempre lontano. Ma poi penso anche che l’avventura e la separazione appena vissute siano dei mezzi per farmi sentire quanto ho bisogno di quegli affetti.

Askole, 28 agosto, ore 20.30
Superato il ponte sul Dumordo, percorsa l’assai lavorata mulattiera che unisce la valle con la valle principale, continuiamo in piena comodità fino a Korophon. L’omino dello spaccio non c’è, in compenso la discarica è aumentata di volume. Sentiamo l’insopprimibile esigenza di dare fuoco a quel ciarpame, come sentissimo sempre più santa la nostra guerra, approfittando della generale siccità.

Ci facciamo dare i guanti dai collector e a testa bassa ci sforziamo di ridurre a un unico mucchio i rifiuti sparsi. I ragazzi ci aiutano con molta buona volontà e nel fervore donchisciottesco che ci anima sento che stiamo toccando il fondo, ormai trattiamo le feci d’asino e quelle umane allo stesso modo, per disseppellire ciò che è stato gettato e poi ricoperto. Solo il fuoco ha il potere di calmarci, di stravolgere l’abiezione. Lasciamo la pira ancora fumante.

Dopo un breve lunch al ponte sul torrente del Biaho Glacier (località Tesdé) proseguiamo per l’ormai vicina Askole, anticipata da canali d’irrigazione, fasce verdi coltivate, alberi a lato del sentiero in leggera salita. Nel caldo torrido dell’ora di punta, giunti al villaggio non vediamo la jeep per Silvia.

Trasporto da Askole a Skardu di una parte dei rifiuti metallici raccolti

Mr. Zaman arriva quasi subito, accompagnato da Mr. Muhammad Hussein, l’assistente di Mr. Jaffer. Zaman è munito di quadernetto, ma sorridendo gli faccio capire che prima devo lavarmi i piedi e calzare i sandali. Silvia è occupata a trascrivere gli indirizzi dei collector ed è attorniata da decine di curiosi. La sua bella e alta figura, unitamente alla gentilezza, ne fanno il mito della settimana. Solo il lunch la salva provvisoriamente: la jeep intanto arriva, e anche l’autista, una specie di Arafat, fa colazione con noi.

Segue una serie di foto ricordo, più uno straziante addio di tutti i pakistani presenti a quella che ormai chiamano, sia pur scherzosamente, rani (regina). Le scrivono indirizzi corredati da una sorta di dichiarazioni d’amore e di ammirazione, standole attorno fino a quando la jeep accende l’asmatico motore e parte. L’autista è il più invidiato al mondo.

La strada è stata riparata proprio oggi, dopo una dozzina di giorni di disagi: qui al campo mancano kerosene e viveri, infatti, anche se domani, inch’allah, pare arrivino i rifornimenti.

Alle 15 iniziamo le operazioni di controllo e di peso dei nostri carichi che sono stati ordinatamente disposti in ben due magazzini chiusi a lucchetto.

I collector si danno un gran daffare, Mr. Zaman è al dinamometro assieme ad Alberto, io scrivo il numero del sacco e del suo peso, Bashir scrive a pennarello i numeri sui sacchi che ne sono privi. Dopo due ore di lavoro, terminiamo con la sensazione d’essere stati assai precisi.

Mr. Zaman aveva già segnato i carichi sul suo quaderno, quindi possiamo fare un controllo incrociato. Quando tutti i sacchi sono disposti a catasta all’aperto (siamo in uno spiazzo accanto ad alcune case), salgo su un tetto di terra e scatto una serie di fotografie.

Alba sul gruppo del Nanga Parbat da sud-est (Tarshing)

Poi ci ritiriamo nella tenda-mensa a fare i conti con la calcolatrice. Il risultato è di 3.011 kg + 20 kg di batterie. Poco dopo arrivano Zaman e Muhammad Hussein: per loro il risultato totale è di 3.029, solo due kg di differenza!!

Siamo soddisfatti di questa sostanziale parità, ma rimane ancora aperto il discorso Mehfuz: tra i suoi conteggi e le verifiche di oggi c’è una bella differenza. Dove sono finiti i carichi “missing”? Impossibile che i portatori li abbiano abbandonati per strada visto che dovevano arrivare col carico per essere pagati; che li abbiano imboscati Zaman e soci è anche impossibile per la medesima ragione: se dovevano pagare un portatore, doveva anche esserci un carico… Un errore di Mehfuz? Può darsi, bisognerebbe controllare sul suo quaderno. Noi abbiamo visto carichi con il numero segnato (fino a 129, come aveva detto lui), a volte semicancellati per usura nel trasporto. I primi 10 non erano da Concordia, dunque si scende a 119. Per fare 2.630 kg ogni sacco avrebbe dovuto pesare una media di 22 kg, per farne 1.500 (che sembra la quantità più probabile ricevuta da Zaman), ogni sacco avrebbe dovuto pesare 12,5 kg, assai più probabile. Insomma, un rebus, ma il problema è suo. Noi abbiamo certificato, d’amore e d’accordo con Muhammad Alì, con Muhammad Hussein e Zaman, il numero di 3.011 + 20 kg. Perciò pagheremo per quello e non per altro.

Stabilito il quanto, passiamo al come: dopo un po’ di tergiversare, salta fuori la vera ragione per la quale non vogliono fare il trasporto domani. Semplicemente non vogliono ordinare delle jeep apposta (sarebbero sette od otto), vogliono servirsi di quelle già presenti ad Askole, quelle utilizzate per portare gruppi di persone o derrate alimentari che tornerebbero vuote.

Perciò rimandiamo a domani e al censimento di jeep che si farà al mattino. C’è anche l’aleatoria probabilità che partiamo domani pomeriggio, ma più realisticamente sarà il 30, lunedì. In ogni caso non oltre il 30. Domani ci firmeranno il documento di consegna merce, Alberto e io saremmo davvero felici se riuscissimo a vedere la partenza delle lattine assieme a noi. Se le vedessimo consegnate a un rottamaio di Skardu sarebbe il massimo.

Il versante sud-est del gruppo del Nanga Parbat con in evidenza il Rakhiot Peak

Skardu, 30 agosto, ore 7.30
Non faccio a tempo a uscire completamente dalla tenda, ieri 29 ad Askole, che arrivano Muhammad Hussein e Zaman, con due giovani.

Dopo il rituale “good morning” mi dicono che questi due sono pronti a partire per Skardu con due jeep cariche di lattine.

Meglio due che niente, mi dico, vuole dire che almeno l’intenzione c’è. Il mio terrore era sempre che non ci si capisse, che le buttassero via, che non obbedissero agli ordini di Jaffer, che non volessero noleggiare alcuna jeep…

Alì dorme e lo svegliamo di brutto: sembra che la cosa sia seria, pertanto dò il mio assenso all’operazione e ci avviamo verso il mucchio di sacchi, lasciato sulla piazzetta per la notte e sorvegliato da due dei nostri collector.

Le jeep si avvicinano e inizia una lunga operazione di carico che durerà tre ore. Ogni sacco viene calpestato ripetutamente per diminuirne vieppiù il volume, la massa deborda in modo assurdo e viene legata con parecchi giri di corda comprata apposta: alla fine, è incredibile, solo pochi sacchi rimangono sul terreno: quelli, “tomorrow”. Ogni jeep è carica di almeno 1.400 kg di lattine, più due-tre persone stipate nell’abitacolo.

Nel frattempo, avendo capito che la situazione evolveva meglio del previsto, ci prepariamo il bagaglio per partire oggi, Alberto va al dispensario per lasciare un po’ di medicine e mi faccio rilasciare la dichiarazione di ricevuta da parte dell’MGPO di 3.011 kg di lattine, firmata da Muhammad Hussein, supervisor dell’MGPO.

Da Tarshing, l’avvicinamento al campo base del versante Rupal del Nanga Parbat

Ora siamo pronti, non rimane che partire, dopo aver noleggiato una jeep che stazionava nel cortile del campo.

Diamo una buona mancia ai quattro collector, dai quali mi riesce davvero difficile separarmi. Specialmente da Ibrahim, il cui essere speciale ricorderò per molto tempo. Mi riprometto di scrivergli qualcosa, di mandargli qualche foto. Mi dà il suo indirizzo. C’è anche Gulam Abbas, il figlio del collector più anziano, Gulam Hassan.

Durante il viaggio non tardiamo a raggiungere le due jeep stracariche, una delle quali ha dovuto fermarsi per rilegare più fermamente il malloppone. Tanta polvere. Giunti alla frana, quasi non ce ne accorgiamo: hanno fatto un ottimo lavoro. La sosta ad Ali Gaon è piacevole, lì ci viene servito il miglior lunch da parecchio tempo a questa parte.

E finalmente verso le 17.30 arriviamo a Skardu, prendiamo alloggio al solito Masherbrum Hotel. Silvia non c’è, sarà in giro per il bazar. Dopo una doccia colossale, l’acqua non defluisce dal pavimento e devo chiamare assistenza. Nel frattempo, puntuale come un falco con la sua preda, ecco arrivare Mehfuz, che è stato tutto il giorno con Silvia e l’ha lasciata per un momento al mercato perché ha sentito che siamo arrivati.

La cena è leggermente imbarazzante per la presenza di Alì e Mehfuz, ma non più di tanto. Altri mosconi girano attorno a Silvia, invitata a un party al Concordia Hotel, dove è anche un gruppo italiano appena arrivato da Islamabad.

Prima ci prega di accompagnarla, poi ci fa capire che forse non siamo così ben accetti: sospetto sia una sua iniziativa. Vuole andare da sola? Che vada, è adulta e vaccinata. Non sono così pericolosi.

Verso le 21.30 mi ritiro in stanza ed è un gran bel momento, potersi sdraiare su un letto e sapere che i doveri sono finiti…

Villaggio di Rupal (avvicinamento al campo base del versante Rupal del Nanga Parbat)

Skardu, 30 agosto, ore 16.30
Silvia è partita verso le 10, in auto verso Besham e quindi Islamabad. Il cielo cupo di questa mattina non poteva far sperare in un volo aereo. Era andata a dormire a mezzanotte, dopo la festa alcolica e le molte attenzioni ricevute, ma si era svegliata ben presto, nell’eccitazione della partenza.

A salutarla ci sono Alì, Mehfuz e perfino Salim e Irfan Beg. L’autista è sulla cinquantina, così fioccano le battute sull’ipotesi che a cinquant’anni non si dovrebbe più essere pericolosi per una donna sola…

Poi la Toyota parte scorreggiando i suoi fumi diesel: noi rimaniamo a discutere i programmi della giornata. Con Alì ci vedremo a pranzo, con Irfan Beg a cena. Mehfuz ci accompagnerà in giro per Skardu alla ricerca di guide e mappe del Nanga Parbat.

C’incamminiamo, dunque, con Alberto e Mehfuz, ma la ricerca è quasi infruttuosa: troviamo solo una guida del trekking in Pakistan, meglio che niente. Compro anche un granito con quarzo e una tormalina nera per le bambine; per Guya un braccialetto di lapislazzuli. Anche Alberto ne compra uno quasi uguale per Ginevra, ma poi si spinge ad acquistare anche una collanina di corallo. Il tutto dallo stesso che ci vende la guida del trekking…

Campo base Rupal del Nanga Parbat

Altre tappe sono il Post Office per l’acquisto di francobolli e un sarto che confeziona berretti baltì (Alberto ne compra quattro). Poi viene l’ora di rientrare in albergo per il lunch.

Riusciamo ad avere Alì in stanza, lui ci regala due commoventi giubbottoni di lana, noi gli diamo la mancia per i suoi servizi e ci facciamo ancora i rispettivi complimenti per la reciproca simpatia.

Poi andiamo a mangiare. Mehfuz e Alì non sono diventati amici, ma quanto meno si parlano e si rispettano. Meno male, una tensione in meno.

Nessun accenno al discorso dei kg mancanti. Tendo sempre più a pensare che l’equivoco sia dipeso da una sbruffonata di Mehfuz che perciò sa benissimo che i kg erano 1.500. Comunque vedremo in sede di pagamento.

Alì si congeda, Mehfuz anche, dice per comprare una coperta e altre cose che gli possono servire. Ci vedremo questa sera, anche per metterci d’accordo sul suo compenso.

Alberto e io ci ritiriamo in stanza, voglio sfogliare la guida appena comprata: se ci sarà un bel tramonto andremo eventualmente al forte che incombe sulla città.

Il villaggio di Rupal, alla base sud-orientale del Nanga Parbat

Tarshing, 31 agosto, ore 16
La sera non ha prodotto un bel tramonto. Piuttosto che una grigia veduta da un forte diruto senza grandi attrattive, abbiamo preferito un giro al bazar per comprare scialli di pashmina.

In seguito, in albergo, troviamo i nostri amici al gran completo. Chiedo a Mr. Beg di seguirmi in camera, così posso pagarlo senza troppi testimoni. Chiariamo anche che nei 314 euro è compreso anche vitto e alloggio dell’autista, ma che a Raikhot Bridge lui ci lascerà lì e ci verrà a riprendere quando vorremo: questo perché la strada per Tatto è privata e solo le jeep della comunità di Fairy Meadows possono transitare. L’autista, nel frattempo, se ne starà a Gilgit.

Seguono, privatamente, gli accordi con Mehfuz, che accetta un compenso di 1.000 rupie al giorno, per sette giorni, vitto e alloggio compresi. Per arrivare a una proposta sono stato costretto a chiedergli quanto lo pagano al giorno quelli di Walji’s. Anche Muhammad Alì non è ancora partito per casa sua a Kapalu, quindi ci tiene compagnia per cena, un po’ deludente peraltro, visto che ci propongono le stesse cose del pranzo.

Per il dopo cena Alì mi riserva una grande e gradita sorpresa, quella di portarmi a tavola Rosalì, il cuoco della spedizione Messner del 1979. Questi è un personaggio, ormai con una propria agenzia di trekking. L’avevo incontrato anche nel 1985 a Brunico, a casa di Friedl Mutschlechner. Era venuto in Europa invitato da Reinhold, ora mi racconta di quando era atterrato a Monaco e a prenderlo c’era Ornella, la mia prima moglie… – Tu non mi conosci, ma io conosco te… sono la moglie di Alessandro. A Brunico avevamo scattato delle fotografie, mi dice che l’ha in cornice a casa sua.

– Sai, Rosalì, due mesi fa mi sono ritrovato in mano la stessa diapositiva per scansirla… mi veniva da piangere… Friedl non c’è più e dall’anno scorso anche Ornella!
– Really…? Oh, my God!
– Yes… she was sick for a long time!
– I am really sorry for that, Alessandro!
– Yes, that was terrible.
– E, a proposito, la moglie di Friedl come sta?
– L’ho persa di vista – rispondo con un po’ d’imbarazzo.

Nanga Parbat (Pakistan), alba sul versante nord

Quando il velo di tristezza scende così profondo in una conversazione è perché gli interlocutori si vogliono bene.
Sono affezionato a Rosalì e sono sicuro che anche lui prova lo stesso.

Segue una conversazione per forza di cose non brillante ma piacevole, perché è davvero bello rivedere un amico dopo aver cercato di lui a Skardu, poi ad Askole, a Concordia e non averlo mai incontrato. Lui aveva saputo di me a Hushe, parlando con Annalisa, poi a Skardu parlando con Goretta. Ed è venuto in albergo a colpo sicuro, per cercare Alì e me. Sono così lieto di vedere due uomini così belli dentro assieme che a un certo punto esplodo, ridendo: – Ma perché non vi mettete assieme, fate una società, io sarei davvero felice se faceste assieme una società di trekking…

Si vede che scherzo, ma si avverte anche che lo dico con il cuore.

Rosalì estrae un biglietto da visita della Gondogoro Travel, e anche Alì sa che Rosalì ha almeno due soci.

L’uomo che ho davanti ha 48 anni, è quasi uguale a quando ne aveva 23, si direbbe che il tempo non sia passato e invece ha due femmine da una prima moglie e due maschietti da una seconda. Deve avere divorziato perché “she is not dead”. Ha continuato a lavorare con Reinhold, anche l’ultima volta al Nanga Parbat (credo per la ricerca del fratello Günther). Alla fine ci abbracciamo fraternamente, dopo la promessa di rivederci ancora, inch’allah. Magari dalle parti del Masherbrum che lui mi descrive con gli occhi gli brillano, poi il K6, il Saltoro Kangri, il Siachen.

Mi racconta di quando nel 1979 Reinhold lo aveva mandato al mercato di Skardu a comprare le sigarette per i portatori, quando gli ha chiesto di comprare due polli, di quando insomma lo metteva alla prova per capire se fargli fare il sirdar, il cuoco o il portatore… E cuoco era diventato, io gli avevo anche insegnato a fare la polenta. Poi di notte si era svegliato, a Dassu, perché aveva sentito dei rumori: era un carico che si stava allontanando sulle spalle di un portatore…

Dopo l’abbraccio, è il congedo definitivo: non per Alì, che dormirà ancora qui e rivedremo domattina presto a colazione (31 agosto). Mehfuz torna dal mercato serale con un po’ di frutta e biscotti per domani.

La fronte del Rakhiot Glacier, nei pressi di Fairy Meadows

Tarshing, 31 agosto, ore 17.15
La partenza si è svolta regolare, nel grigio mattino di un freddo abitacolo di jeep mal chiuso da teli di plastica. L’autista, Yangir, sa abbastanza bene l’inglese ed è assai gentile. Il mezzo non è un portento di velocità ed efficienza, ma ci accontentiamo.

Convinti da un sole che sembra bucare le nuvole, ci fermiamo a togliere i teli laterali per vedere qualcosa di questa Sadpara Gorge. Ma giunti all’inizio del Deosai Plateau, a quasi 4000 metri, dobbiamo fermarci per coprirci con le giacche imbottite, berretti e guanti.

L’altopiano è verde, ma s’indovina dovesse essere più verde ancora qualche settimana fa, ricco di tappeti colorati di fiori. L’orizzonte è chiuso, per ogni dove, da nubi insistenti, ma continuiamo a sperare in una schiarita.

Che avviene puntuale, ma incompleta e provvisoria, solo allorché ci accostiamo al Sheosar Lake, molto azzurro e circondato da praterie e distese di fiori gialli. Poi scavalchiamo il punto più alto, il Chakor Pass, a 4266 m sulla carta per infilarci nella ben più stretta valle del Khizim che scende a un villaggio, l’assai movimentato Chilam 3393 m, dove ci fermiamo a sorbire un green tea.

Intorno fervono i lavori di asfalto della strada, qua e là è qualche postazione militare.

Fenomeno delle «piramidi di terra» nei pressi di Fairy Meadows. Sullo sfondo è il gruppo del Rakaposhi-Haramosh.

Siamo all’inizio della strada che porta al Burzil Pass 4280 m, il vecchio valico di passaggio tra Kashmir e Baltistan/bacino dell’Indo, oggi chiuso per le questioni bellico-politiche di India e Pakistan. Prima dell’apertura della Karakorum Highway c’era solo il Babusar Pass a mettere in comunicazione, tra il 1947 e il 1978, le due parti del Paese, Punjab e Northern Areas, se si esclude l’aereo.

È con sguardo pieno di curiosità che mi congedo dalla vista del poco lontano Burzil Pass per riprendere la discesa nella valle del Khizim, molto abitata e molto verde.

Il sonno mi vince per qualche minuto, poi mi risveglio in tempo per vedere l’inserimento della valle, a Gurikot, nella più importante vallata del fiume Astor. Siamo praticamente ai piedi del Nanga Parbat, ma della montagna non abbiamo ancora visto nulla. E non ci consolano certo le desolate affermazioni di Yangir che ci conferma che da lì, con il bel tempo, la vista sulla Montagna Nuda è bellissima.

Risaliamo ora su strada non asfaltata, e via via sempre peggiore, la valle dell’Astor, che gradualmente piega a ovest, superiamo due o tre punti particolarmente malconci e finalmente arriviamo al villaggio di Tarshing 2911 m, in posizione splendida e dominata dall’ora quasi invisibile Rakhiot Peak.

In paese ci sono due alberghi, il Rupal e il Nanga Parbat. Ci dirigiamo decisi a quest’ultimo, prendiamo possesso della nostra stanza di legno con vetrata sul Rakhiot Peak e sui picchi innevati del Chongra, ora ben visibili al sole.

Dopo un’ispezione al bagno (in comune, ma meno peggio del previsto) e dopo un welcome tea, ci aspetta il lunch.

Poi ci ritroviamo nella nostra stanza a spiaccicare centinaia di mosche, dormicchiare, scrivere e soprattutto spiare l’evoluzione del tempo, che non ci sembra dare grandi speranze per domani. In più a entrambi brontola la pancia, questa sera sarà bene non dimenticare le gocce di timo. Fuori, gli abitanti del villaggio chiacchierano a gruppetti, siamo infatti sulla piazzetta principale del paese: ogni quarto d’ora si sentono rumori di jeep in partenza o in arrivo, non avrei detto potesse esserci tanto traffico. Le voci si alternano a colpi di tosse e alla prolungata raschiatura di gola che anticipa uno scracco potente.

Si sente anche qualche bambino, e perfino una o due voci femminili. Mehfuz ci aveva chiesto il permesso di andare a dormire nella sua stanza.

Alessandro Gogna a Fairy Meadows, verso il versante nord del Nanga Parbat

Rama, PTDC Hotel, 1 settembre, ore 17.45
Dopo cena ci avventuriamo nelle viuzze deserte e buie di Tarshing. Dopo una decina di minuti di silenzio spettrale rientriamo per infilarci nei nostri sacchi piuma (una difesa, anche se minima, contro le pulci). Sul domani, poche speranze.

Leggiamo la relazione del prof. Riccardo Beltramo sul Sistema di Gestione Ambientale applicato alla spedizione K2-2004, sulle procedure teoriche approvate da una società accreditata per la certificazione documentale secondo gli standard ISO 14001. A noi risulta che l’equipe tecnica che avrebbe dovuto fare il report finale se ne sia andata dal campo base del K2 verso la metà di luglio, quindi non vediamo come sia possibile fare un report serio. Certo, leggeremo su internet gli sviluppi di questa vicenda, sapendo perfettamente, tanto per parlare chiaro, che tutti gli alpinisti sono tornati in elicottero. Se questa è eco-gestione… allora certifichiamola!

Alle 5 ci svegliamo, sembra che abbiamo resistito all’assedio delle pulci. Poco dopo la colazione è pronta, nel vago chiarore dell’alba. C’è la lieta sorpresa di vedere il Nanga Parbat, la vetta del Rakhiot Peak e le cime secondarie fino al Chongra Peak. Poco dopo è un tripudio di sole su quella cresta e noi siamo già pronti con il cavalletto.

Finiamo la colazione, poi partiamo alle 6. Saliamo subito la morena che sovrasta il paese, poi traversiamo per una buona traccia il Tarshing Glacier fino ad approdare sulle terrazze coltivate del villaggio di Rupal inferiore.

Saliamo gradualmente un lungo viottolo cosparso di sassi caduti dai muretti laterali, tra coltivazioni di patate e di cereali. Poi, dopo un avvallamento, entriamo in Rupal superiore, caratteristico per le case molto vicine le une alle altre.

Ci avviciniamo alla morena sinistra idrografica del Bahzin Glacier che risaliamo costeggiandola fino ad aggirare una dorsale: ci appare d’improvviso la grande parete Rupal, nascosta però nella metà superiore dalle nubi, come già da due ore temevo.

Il campo base è bellissimo, una valletta allargata a destra della morena, un bel prato verde con blocchi di gneiss. Un torrentello scorre nel mezzo: è un posto davvero idilliaco e tenuto molto bene. Nulla sappiamo dell’avventura di Steve House e Bruce Miller di pochi giorni prima, il tentativo di una via diretta in stile alpino e l’odissea del ritorno.

Da Fairy Meadows verso l’ultimo villaggio prima del campo base nord del Nanga Parbat

Sono stanco, ho problemi intestinali da ieri e, con queste scarpe che sto usando, ho pure male ai piedi. Queste Scarpa, non so se modello Montserrat o Cinque Terre, sono vecchie e piegate all’esterno. Mi costringono a una marcia totalmente innaturale e dolorosa. Le darò a qualcuno a Islamabad, se non prima.

La delusione per l’invisibilità della parete più alta del mondo (4.500 metri) è grossa, ma ci consoliamo nella piacevole sensazione di aver visto un campo base di un Ottomila così strano, frequentato normalmente dai pastori, profumato di ginepro.

Mehfuz si ostina a indossare la mia giacca rossa Columbia con lo stemma di guida alpina, quella che gli ho prestato ieri, anche se gli ho già detto che non posso regalargliela. È svaccato, si siede appena può, poi però cammina veloce, secondo me non vede l’ora di essere a Fairy Meadows, anche se questo non avverrà prima di domani sera. Gli offriamo una banana. Di sua iniziativa prende il sacchetto di plastica, che abbiamo usato per le bucce di banana e mela, e va a nasconderlo sotto a qualche sasso, a nostra insaputa.

Preparazione del chapati a Tato, sulla via d’accesso a Fairy Meadows.

Prima di ripartire Alberto e io cerchiamo il sacchetto per riportarlo in basso. Quando Mehfuz capisce cosa vogliamo dice:
– Ho dato le bucce alle marmotte!

In effetti qui è pieno di marmotte, belle grosse. Crediamo che scherzi, ma purtroppo non è così. Alberto s’incazza, io pure. Alla fine Mehfuz è costretto ad andare a riprenderlo.
– Sei stato un mese con Alessandro e Mario, ma non hai capito nulla! – non si trattiene Alberto.

Ripartiamo alle 10, rifacciamo lo stesso percorso, una marcia senza storia, però per me faticosa e dolorosa. Penso che quarant’anni fa, il primo settembre, ero sul Latemàr e stavo salendo la parete nord da solo. La salita del ripido canalone finale di melafiro invaso dal ghiaccio era potenzialmente molto pericolosa. Avrei potuto cadere per 6-700 metri. Oggi sono qui al Nanga Parbat, nel sancta sanctorum dell’alpinismo. Chi l’avrebbe mai detto?

Durante la discesa Mehfuz raccoglie una batteria da terra e la porge ad Alberto, che se la mette in tasca senza dire niente. Mehfuz avrebbe potuto raccoglierla, poi metterla nel nostro saccone da 20 kg che ci stiamo portando dietro da Concordia e che ora è nella nostra camera di Tarshing. Avrebbe fatto bella figura. Invece così è come dire: – Vedi, brutto coglione, che la spazzatura io la raccolgo?
Ma tant’è…

Piuttosto stancucci (i piedi fanno male anche al mio compagno) arriviamo a Tarshing, dove quasi subito ci viene servito il lunch. Il conto è salato, 2.860 rupie, pari a 40 euro per questa lurida stamberga pulciosa. Subito sospettiamo che Mehfuz ci abbia fatto fare un conto assai gonfiato dalla sua “cresta”. Solo la stanza, 1.600 rupie! D’ora in poi chiederemo sempre il prezzo prima di sistemarci, così da non avere sorprese. Anche sul cibo staremo più attenti, ordinando solo ciò che ci serve.

Cucina in un piccolo locale salendo a Fairy Meadows

Appena salito in jeep mi addormento, svegliandomi solo a Gurikot, quando inizia la strada asfaltata per Astor. Ormai è assodato che saliremo all’hotel governativo di Rama. Ad Astor, Yangir ripara la gomma di scorta. Davvero abbiamo fatto tutto questo giro con una gomma di scorta sgonfia e da riparare? Non voglio neppure pensarci. Abbiamo affrontato dei guadi dove per poco l’acqua non entrava nella jeep, fango e sassi a volontà in altri passaggi esposti… ma questo è il Pakistan.

L’hotel Rama, a 3191 m, è stupendo, in pietre con strutture interne in legno. Molto bello e molto pulito. Prezzo della stanza, 1.320 rupie! Ed è più bella di quelle del Masherbrum Hotel a Skardu.

Fa solo un po’ freddo e manca la luce (dovrebbero accendere il generatore alle 19), ce la caviamo con due candele. Veniamo anche a sapere che la strada per il Rama Lake è aperta, quindi domani, se sarà bel tempo, ci risparmieremo di camminare ancora con queste scarpe: già dovremo farlo alla sera per raggiungere Fairy Meadows.

Anziano pastore di Fairy Meadows

Rama, PTDC Hotel, 1 settembre, ore 20.30
Cena al risparmio e salutistica, compiamo l’errore di ordinare riso, chapati, patate bollite e basta. Le porzioni sono risicate, a metà cena dobbiamo ordinare del pollo, altrimenti ci sembra di essere in ospedale dopo una brutta operazione. Il chicken arriva, dopo 15 minuti, cotto nel pomodoro, molto buono e per nulla piccante, come purtroppo ha chiesto Alberto.

Mehfuz e Yangir sono davanti alla televisione, c’è un film in urdu. Li salutiamo e guadagniamo la nostra stanza. Fuori piove a dirotto.

Fairy Meadows, 2 settembre, ore 21.30
Alle 5 piove, mi volto dall’altra parte del cuscino. Alle 6, senza bussare (come sempre) arriva Mehfuz che ci chiede cosa vogliamo fare. Piove ancora.

Potremmo stare qui qualche ora per vedere l’evoluzione meteo, ma non possiamo tirare troppo la corda sugli orari, per via dei possibili imprevisti.

Così alle 7.30 scendiamo ad Astor in un panorama piovigginoso e chiuso. Mehfuz ha il coraggio di dire che lui l’aveva detto che era meglio andare al lago subito ieri sera… peccato che ieri sera fosse anche peggio di adesso!

La gola del fiume Astor è ripida e franosa, come la consorella maggiore dell’Indo. Non ha le stesse dimensioni, ma la pericolosità è uguale. La strada è, se possibile, ancora più tormentata, con lavori in corso almeno per metà sviluppo.

Recuperata la Karakorum Highway (KKH), è un attimo arrivare al Raikhot Bridge. Il tempo è bello, ma le montagne sono nascoste.

Qui c’è il previsto cambio di jeep, Yangir se ne andrà a Gilgit e tornerà a prenderci la mattina del 5 settembre.

Il villaggio di Bejal, versante nord del Nanga Parbat

La gola che sale a Tattoo è incredibilmente ripida, la strada è stata ricavata senza uso di cemento, tanto meno quello armato. Le massicciate sono un capolavoro di ardimento, anche se sembra tutto soltanto appiccicato. Davvero spaventoso quanto ammirevole.

Mi immaginavo Tattoo più grande, saranno una dozzina di case, un’altra dozzina buttate giù da un recente terremoto. Mehfuz saluta tutti, poi raccoglie frettolosamente la sua roba, supera un ponticello e corre a casa sua.

Noi lo seguiamo, ci viene offerto il tè in una tenda.

La Guest House è semidistrutta e così altre case. Solo il legno e il fango sono stati risparmiati dal terremoto. Ci sono presentati zii e cugini a decine, ma non la madre (il padre dev’essere morto) e neppure la moglie. Speravo almeno nel figlio appena nato, ma se quello è con la mamma non c’è niente da fare. Mehfuz magari lo farebbe, ma sarebbe di certo uno strappo alla regola.

Dopo un lunch, atteso a lungo e consumato a lato della strada, iniziamo a camminare alle 14.15, sotto la pioggia. Mehfuz e tre portatori ci seguono. Ci ripariamo sotto un pino sporgente, poi proseguiamo. Dopo due ore, con un bel sole al tramonto, Alberto e io arriviamo ai bungalow di Fairy Meadows, accolti con molta gentilezza da altri zii e cugini di Mehfuz. Ci viene offerto il welcome tea, poi, con l’arrivo dei portatori, ci viene assegnato il cottage. Il Nanga Parbat è lì a portata di mano, ma ben nascosto dietro una fitta cortina di nuvole. Ci mettiamo vestiti asciutti.

Alle 18 un giretto per la radura, attorniata dalle casette in legno dei pastori, mi fa individuare il posto migliore per le foto di domattina. Un bambino mi ordina però di andarmene, non capisco il perché. Domani mi farò accompagnare da Mehfuz, così saprò.

Questi, a cena, ci racconta le storie dei suoi cugini e zii, di come tre di loro si siano sposati con una francese, una tedesca e una ceca.

Gruppo di bambini a Bejal

Fairy Meadows (End of road), 4 settembre, ore 17
L’alba è gloriosa, mi scateno in una serie di fotografie, prima alla montagna, che è molto più di uno sfondo, è una presenza possente; poi al famoso prato delle fate, con il villaggio, il bosco e il Nanga Parbat che occupa sempre almeno mezzo fotogramma. È un’orgia di colori, il fumo che esce dalle casupole, qualche animale che pascola nel verde. Del bambino nessuna traccia.

Dopo colazione c’incamminiamo, seguendo la gigantesca morena ricoperta di pini, abeti e ginepri. Talvolta a picco sul ghiacciaio, talvolta all’interno di stupende vallette adagiate. Fino a un grande prato in leggera discesa, racchiuso tra il crinale boschivo della morena e una valletta che sale ripidissima allo Jalopur Pass.

Siamo a Beyal (che in lingua shina significa “riparo”), a 3561 m.

Un’altra serie di piccoli bungalow, se possibile più spartani, una cucina fumosa e un villaggio di pastori poco distante.

Nel pomeriggio il cielo si rannuvola, ne approfittiamo per dormire due ore. Quando ci alziamo, saliamo fino al crinale della morena per vedere il ghiacciaio dall’alto, ma il Nanga Parbat è coperto dalle nubi pomeridiane.

Una coppia di olandesi, con la loro guida, ha avuto la stessa idea, ma questa sera scenderanno a Fairy Meadows.

Prima di cena Mehfuz fa accendere un bel falò: la legna qui è davvero in abbondanza, tutto il sottobosco ne è pieno e brucia lentissima. Ce lo godiamo anche dopo cena, prima di rintanarci nella nostra bicocca.

Alba sul versante nord del Nanga Parbat

Sveglia alle 4.55, per uscire a svegliare il gestore del campo che ci farà la colazione. Alle 6.05 partiamo, decisi a raggiungere il bel balcone sulla morena che sembra essere il miglior punto di osservazione sulla montagna. Mehfuz ci avverte che in effetti dal campo base la vista sul Nanga Parbat non è così soddisfacente, perché si è troppo sotto e la cosiddetta Gran Morena del campo 1 copre un po’ la visuale.

La temperatura fresca e la gioia per il bel tempo ci fanno spediti e, dopo essere saliti per un magnifico bosco di betulle, in breve siamo sulla cresta della morena, a circa 3800 m. Attendiamo qualche minuto l’arrivo della luce e del calore. La parete è splendente, e subito vediamo precipitare una valanga gigantesca a mo’ di buongiorno.

Dopo due serie di foto consecutive (bellissimo un masso con ometto situato un po’ sopra a un ginepro gigantesco) scendiamo nel Ganalo Glacier, lo attraversiamo facilmente per risalire sulla morena opposta, verde di erba e alti pascoli. Dopo un’ultima conca erbosa arriviamo allo storico campo base delle spedizioni al Nanga Parbat. Cavalli e bovini stanno pascolando tranquilli in questo paesaggio incredibile, sospeso tra una parete glaciale di 4000 metri, gigantesca e minacciosa, e un ghiacciaio tipo Baltoro (Rakhiot Glacier), con tanto di vele e seracchi. Se non fosse per la poderosa valanga di un’ora fa, nulla ricorderebbe che questo è il luogo di una delle massime epopee della storia dell’alpinismo.

Alla fine giungiamo al Drexel Monument, un cippo di qualche sasso con una croce di ferro mezza pencolante e una lapide che ricorda i caduti. Qualcuno ha aggiunto, il 3 luglio 2003, una lapide a memoria dell’impresa di Hermann Buhl di cinquant’anni prima.

Qui Buhl è un mito. A Fairy Meadows vi sono almeno tre o quattro sue fotografie, tutti i portatori lo conoscono di nome e sanno cosa ha fatto. In particolare Abdul Chukur, che ci ha accolti a Fairy Meadows, ci ha mostrato il libro dei giapponesi (spedizione del 1995): lui era il cuoco ed è salito fino al C3 della via nuova giapponese a destra di quella storica di Welzenbach (poi salita da Buhl con la spedizione Herrligkoffer). In quel libro c’è perfino Mehfuz molto giovane, ripreso di profilo.

Un pensiero a tutti i morti del Nanga Parbat (due memorial nella stessa stagione!), poi c’incamminiamo per il ritorno, segnato da altre foto e dall’incontro con quattro italiani e una ragazza slovena.

Le mie scarpe deformate cominciano a farmi male ma tengo duro e, con un bel sole caldo, ci ritroviamo per il lunch a Beyal. Questa volta ci sono novità, un bel piatto di una specie di polenta, “vunciata” con molto latte e burro, burro fresco da mangiare con i chapati, altro piatto interessante di vegetables un po’ filamentosi ma buoni e, infine, due bei bicchieroni di yogurt.

Alberto e io ci guardiamo in faccia, consci del pericolo, poi ce ne freghiamo e mangiamo e beviamo in allegria. Burro, latte e yogurt: se sopravviviamo, vuole dire che ormai siamo del tutto acclimatati al locale regime alimentare.

Sul versante settentrionale del Nanga Parbat sta precipitando una gigantesca valanga.

Altra bella passeggiata fino a Fairy Meadows e da lì veloce discesa per il sentiero vecchio (quindi per altri villaggi sempre con la Montagna Nuda sullo sfondo) fino al cosiddetto “End of the road”.

E qui ci fermiamo, c’è la troupe di Malik che, dopo essere stata qualche giorno a Gilgit, è venuta qui per fare l’ultimo dei campi base. E naturalmente ci sono richieste due parole di commiato finale davanti alla telecamera, prima che inizino a salire verso Fairy Meadows.

La stamberga che ci ospiterà è davvero puzzolente di piedi e altro, ma ci dobbiamo accontentare in mancanza di tenda. Paghiamo i portatori. In particolare, regalo il mio bastoncino e le mie scarpe a Rosi Khan, il simpatico porter che ci ha seguiti fino a Beyal. Mehfuz ci consegna a suo fratello minore, Esan; e lui scenderà a Tattoo, in famiglia.

Noi aspetteremo l’alba di domani e la jeep che ci porterà giù a Rakhiot Bridge. Stendiamo delle specie di trapunte per terra, su tappeti lisi e polverosi. Le trapunte sono state scelte da un mucchio disordinato e alto due metri, situato in un angolo della stamberga. Se non altro qui dentro non ci sono mosche, speriamo altrettanto per le pulci. Siamo in un posto senza qualità, al fondo di una valle. Ma è la fine della nostra camminata, da domani solo jeep (sia pure per nuovi luoghi e nuove avventure).

Panorama dal campo base nord del Nanga Parbat verso il Rakaposhi

Fairy Meadows (End of the road), 4 settembre, ore 21.30
Dopo una dormita di mezz’ora, ed essere stati disturbati almeno tre volte (la prima perché volevano prendere non so più cosa, la seconda per una cartella, la terza per le lampade a petrolio appese alla parete), ci dicono che la cena è pronta. Credevamo fosse apparecchiato in cucina, ma ci sbagliavamo. Ci stanno servendo la minestra su un tavolo all’aperto, al buio e con una brezzolina spiacevole. Io che odio i cibi che si raffreddano, chiedo il trasferimento in cucina. L’alternativa è la nostra camera, quindi obbediscono. Ci stendono sul tappeto una tovaglia di plastica più lercia (se possibile) del tappeto stesso, noi ci accoccoliamo a ginocchia conserte, e così mangiamo pollo con riso, patate bollite e chapati. Poi ci servono dolce e tè verde. C’è sempre uno di loro che sta lì in piedi a guardarti mentre mangi, ma ci abbiamo fatto l’abitudine. Quando sparecchiano, vengono in tre a prendersi trapunte e coperte per dormire in cucina.

Chiedo al fratello se Mehfuz ha figli. La risposta è no, Mehfuz è sposato da solo un anno. Quindi a suo tempo mi ha raccontato una bella bugia, quando mi ha detto di aver avuto un figlio mentre eravamo a Concordia. Chissà perché…

Qualche sospetto lo avevo, per come si era comportato a Tattoo, e avevo ragione.

Cinque minuti dopo il reciproco “good night”, mi viene in mente che non abbiamo preso il timo. Non ci sono più biscotti. Allora usciamo per chiedere un pezzo di chapati (ne avevamo avanzato). Sono con la lanterna in mano, puzzolente di petrolio.
– We have some candles… chapati finish.

Gli faccio vedere la medicina che dobbiamo assumere.
– We can make chapati in two minutes.

Drexel Monument, campo base nord del Nanga Parbat

Dopo due minuti mantengono la promessa e si ripresentano con due chapati caldissimi: due gocce di timo, azzanniamo il chapati e deglutiamo. Poi corriamo in stanza a bere sorsate di Amar Cola, una specie di gazzosa che avevamo già assaggiato come aperitivo e comprata a Skardu da Mehfuz. Solo così possiamo limitare il bruciore del timo in bocca. Concludiamo uscendo con lo spazzolino per lavarci i denti alla fontana.

Prima di dormire guardo le foto digitali che Alberto ha fatto durante il viaggio. Ha terminato lo spazio sulla card, d’ora in poi solo io fotograferò anche per lui e gli farò fare delle scansioni.

Alberto esce per telefonare a Ginevra e io rimango a scorreggiare da solo (prima eravamo in due) i danni collaterali del cibo pakistano ingurgitato oggi (ci siamo ripromessi che domattina faremo una colazione sana e leggera, solo corn flakes, latte e tè verde.

Qui sono molto gentili, fanno quello che possono, ma lo standard è la sporcizia generalizzata e soprattutto l’imprevidenza: per esempio, oltre al cartello “hotel open”, occorrerebbe avere lì qualcosa, della marmellata, del miele, dei biscotti, cose che durano. Credo ci vorrebbe molto poco, forse basterebbe solo la presenza di una donna per fare quella pulizia e quell’ordine sicuramente possibili anche in catapecchie come queste.

Oltre alla nostra roba sparsa per la stanza, al famigerato mucchio di coperte e alla congerie di tappeti e trapunte che invadono il pavimento, alla luce di due candele che abbiamo piazzato sul coperchio di plastica del mio bidone, vedo due schioppi e un coltello appesi alla parete di sinistra. Faticosamente siamo riusciti a chiudere le tre finestre di legno alle nostre spalle (con zanzariera), Alberto legge Cime di guerra con qualche difficoltà. Più o meno sopra alla mia testa sono appesi un poster in urdu, semicoperto da un cencio, un sacco ripieno di non so cosa e uno zaino rigonfio. Un ragno passeggia sul mio quaderno, lo scaccio con un soffio. Non fa freddo, fuori c’è solo il rumore del torrente e le due candele segnalano le occasionali folate di brezza notturna che riescono a penetrare facilmente le innumerevoli fessure delle pareti.

Campo base nord del Nanga Parbat, targa a Hermann Buhl

Nel frattempo il livello di fetore delle scorregge è tale che decido di uscire al buio pesto (non c’è ancora luna ed è parecchio nuvoloso). La location della cagata mi viene spontanea: a neppure cento metri è il ponte sul torrente. Da lì è tutto molto semplice e veloce, protetto dall’oscurità sbrigo anche le pratiche della carta igienica e del fresh&clean.

Ci voleva proprio, perché a questo livello basic di esperienza, sono queste le cose che contano.

Parlando con Mehfuz, lui più volte mi ha invitato per l’anno prossimo, con “bambine e moglie”, a tornare a Fairy Meadows. Le mie risposte “may be, may be” sono l’esatta traduzione del mio non sapere cosa sarà mai l’anno prossimo. Da una parte sono convinto che un’esperienza del genere con Elena, Petra e Guya sarebbe davvero esaltante e positiva, dall’altro mi domando perché mai solo il Pakistan, con la sua monocorde cultura maschile. Mettere nel viaggio un po’ di India potrebbe equilibrare le cose… ma magari i costi sarebbero eccessivi, non so se potremo affrontare le spese di un viaggio così complesso. Vedremo.

In ogni caso è un pensiero che ho spesso, che mi fa fare fantasie di vita felice e spensierata con i miei affetti più cari in mezzo a queste montagne e a queste genti così diverse.

Fairy Meadows e Nanga Parbat

Naran, 5 settembre, ore 21
Forse siamo più stanchi e sensibili che all’andata, ma di sicuro la valle del Raikhot River fatta in discesa è proprio terrorizzante. È la stessa jeep che ci ha portati su, ma nel frattempo le sono intervenuti problemi di salute, rumori secchi e violenti sotto all’abitacolo. Anche l’autista è lo stesso, inalterata la fragranza delle sue ascelle. Deve scendere a terra tre o quattro volte e armeggiare con una funicella. L’abisso alla nostra destra raggiunge massimi di 800 metri, franose pareti quasi verticali che si conficcano in un fiume di un rumoroso marrone.

A dividerci da morte sicura è una massicciata di pietre, senza alcun uso di cemento, appoggiate sulla frana verticale o quasi. La strada sta su, si stenta a crederlo, il pensiero che qui l’anno scorso ci sia stato il terremoto non aumenta la fiducia in una struttura che sembra crollare solo per il suo peso.

Insomma, è con tanta paura che affrontiamo questa ventina di km sospesi; poi, a una curva, la valle si butta in quella dell’Indo e noi vediamo la salvezza. A Raikhot ci aspetta il puntuale Yangir con la sua jeep, che a questo punto ci sembra un gioiello.

A Chilas, all’Hotel Panorama, abbiamo la sgradita sorpresa di un cambio assai sfavorevole, ci tocca contrattare, ho l’impressione che Mehfuz sia d’accordo con questa gente. E quando lui propone di farci preparare da loro un packed lunch, rispondo seriamente che possiamo andare al bazar di Chilas a comprare biscotti e frutta. Di certo autisti e guide hanno qui il vitto gratis, perché loro si fermano a mangiare. Noi aspettiamo pazienti. Nel centro del villaggio, il bazar è incasinato ma riusciamo a cavarcela in poco tempo.

Partiamo alle 10.45 alla volta del Babusar Pass. Per un’ora o due cerco di stare attento a ciò che si vede, poi mi accorgo che il tempo mi sta passando senza più legami con la realtà che mi circonda. Ricordo un continuo sobbalzare per via di un fondo di strada in via di rifacimento, uno sballottamento che alla seconda o terza ora ti prende il cervello e se ne impadronisce. Un passo che si avvicina, continue processioni di nomadi guyar con mucche, vitelli, capre, pecore, asini, mogli e bambini. Sembrano spostamenti biblici più che transumanze.

L’incrocio di due jeep è un incubo, ma almeno non ci sono precipizi come quelli di questa mattina. Al passo fa un freddo cane, anche perché io sono in pile e il duvet se lo è messo Mehfuz. Grigio vicino, grigio in lontananza verso il Nanga Parbat. Speravamo che in discesa il cantiere finisse, ma non è così e io continuo ad avere freddo, dai 4323 m si scende dapprima ripidi, poi lentissimi. Dopo aver costeggiato il bellissimo Lulusar Lake, è solo alle 17 che incontriamo il primo vero villaggio da fine del mondo e la strada asfaltata.

Dopo una sosta per il tè, continuiamo: l’asfalto finisce quasi subito, il cantiere è in piena attività, troviamo anche la fabbrica della ghiaia e del catrame. Sicuramente non avrei trovato una valle così martoriata se fossi riuscito ad arrivare fin qui con Ornella d’inverno.

Ormai quasi al buio, dopo 12 ore di viaggio, approdiamo ai villini del PTDC Hotel di Naran. Ci sparano 2.600 rupie per una camera con bagno (sporchetta), così preferiamo una da 1.150 senza bagno. La cena è invece dignitosa, con un ottimo chicken ginger.

Salendo al campo base nord del Nanga Parbat

Islamabad, 7 settembre, ore 14.45
La bellissima luce del mattino ci invita a fare una deviazione e a salire al Saif-ul-Muluk, un lago al fondo di una conca chiusa dal Malika Parbat, la “montagna regina”. Ancora una volta la strada è una jeepabile, percorsa però da un discreto numero di turisti pakistani.

La riva settentrionale del lago è ingombra di quattro o cinque baracchini, per i souvenir e la ristorazione, c’è chi si cava le scarpe e cammina sulla sabbia fine. Ad aspettare clienti ci sono delle piccole barche ma anche dei cavallini per fare il periplo. Un venditore di fiori ha costruito uno splendido trespolo, adorno della sua mercanzia, un bel contrasto con l’azzurro calmo del lago.

Allorché incominciamo a scendere a Naran, vediamo jeep salire a frotte, ed è solo un lunedì di settembre…

In breve siamo ancora a Naran e da qui il lungo nastro di strada asfaltata ci conduce a Kaghan, dove faccio fatica a riconoscere qualcosa dopo quasi trent’anni. Ricordo la stradina, stretta e innevata, ora raddoppiata in larghezza, ricordo molto bene la disposizione geografica a “esse” del nostro cammino. E quindi riconosco da dove siamo partiti a piedi, dopo aver lasciato in custodia il pullmino. Ma è diverso: non riconosco, nel nostro fugace passaggio, alcunché di familiare. Ciò che invece è vivo dentro di me è il ricordo di Ornella.

Lo sforzo di riconoscimento mi provoca sonnolenza e così arrivo a Balakhot senza accorgermene. A Manshera Mehfuz ci chiede se vogliamo mangiare, noi preferiamo Abbotabad. Qui giunti fanno per fermarsi ad un hotel, ma noi li preghiamo di sostare a un qualunque bettolino di strada. Cosa che fanno 20 km più in là, è un posto fumoso e affollato di camionisti.

Ci servono chapati caldo e vegetables affogati nel burro fuso e noi, per aggravare la dieta, ordiniamo anche una pepsi-cola ghiacciata.

Altra inevitabile sonnolenza fino a Taxila, e qui di loro iniziativa ci fermiamo al sito Jau Lian. Scalata una collinetta (si deve attraversare un canale d’irrigazione su un ponticello, alcuni bambini si buttano in acqua e noi li invidiamo) con tanti e ordinati gradini, il caldo è ancora più soffocante.

Salendo al campo base nord del Nanga Parbat

Seguo a fatica cosa dice la guida sull’arte gandhara e su ciò che non è qui bensì al museo. Il centro buddhista di preghiera è articolato in tre zone, meditazione, insegnamento e ristorazione. Era a due piani, ma gli scavi hanno fatto affiorare solo i tesori del pianterreno. Decine di stupa votivi con centinaia di sculture del Buddha, in preghiera, in insegnamento, in digiuno, attorniato dalle tentazioni femminili. Stiamo parlando di 2500 anni fa. La guida mi lascia docilmente prendere fotografie. Il sudore mi cola dalla fronte, Alberto non sta meglio: qualcosa ci è rimasto sullo stomaco.

È con sollievo che, dopo la discesa dalla collina, ci accasciamo nella jeep, rifiutando con decisione l’ipotesi di visitare anche il museo.

Gli ultimi km per Islamabad sono un fiume in piena nella GT Road, non mancano i soliti sorpassi e le manovre assassine, un inquinamento insensato, una bolgia infernale che finisce solo con l’entrata nel giardino del nostro hotel.

Quattro parole di commiato per Yangir, davvero simpatico e premuroso, più la mancia. Poi ci ritiriamo nelle stanze a fare la doccia. Mehfuz ci aspetta per cena e neppure qui riusciamo a scrollarcelo di dosso.

La cena è consumata in silenzio, abbiamo poco da dirci, e finalmente è la pace della mia stanza, che durerà fino al mattino alle 9.

Nei pressi di Fairy Meadows

Islamabad, 7 settembre, ore 22.30
La temuta trasferta all’Ufficio ministeriale del Turismo per il de-briefing si è rivelata inutile, rimane solo la questione del biglietto aereo di Alberto e delle riconferme per entrambi. Pratiche che Mehfuz espleta egregiamente, tornando dopo circa un’ora, verso le 11. Chissà dove e se ha dormito… Mi aveva raccontato di avere un piccolo appartamento a Islamabad, ma è poco credibile. Quanto lo preferirei se ci raccontasse solo verità!

Ad ogni modo dobbiamo fare i conti, perciò con la scusa di dover lavorare lo lasciamo solo nella hall. Ci duole, ma quando le persone esagerano nel voler essere servizievoli, trattando male però i camerieri e tutti coloro che ritengono inferiori, prima o poi diventano insopportabili. Perché ci sentiamo prigionieri, vorremmo uscire ma senza di lui.

Dopo il lunch, consumato in imbarazzante silenzio, decidiamo di “lavorare” ancora due orette. Mehfuz trova in Alberto un interlocutore più debole e riesce a farsi ospitare nella sua stanza e a dormire anche lui, russando, due orette.

Tutto ciò andrebbe benissimo se lui si fosse comportato diversamente. Forse siamo un po’ duri, ma francamente non ne possiamo più di una presenza che sarebbe già ora ossessiva se non sapessimo con certezza che è a termine.

Alle 16.30 usciamo con lui alla volta di Rawalpindi. Abbiamo pensato che, piuttosto di essere reclusi di fatto, è meglio averlo sulle croste.

Al bazar di Rawalpindi giriamo senza meta, provocando l’incomprensione e un filo d’ironia nel nostro accompagnatore. Compriamo un po’ di masala e del curry, poi Alberto acquista un pacchetto di sigarette K2.

Alla fine di un giro interessante, pieno di colore, di oggetti profumati e di sporcizia, all’ora di punta (le vie intasate, uno smog bestiale) riusciamo a trovare un taxi che ci riporta a Islamabad.

Qui, in albergo, era previsto l’incontro con Mr. Aziz, che però è già andato via, lasciando delle ricevute. Meglio, risolveremo tutto per e-mail. Mr. Aziz non è di quelle persone con cui vorrei fare amicizia…

Ordiniamo e consumiamo la cena, ancora in silenzio interrotto da qualche raro accenno di conversazione. In stanza, poco prima, Mehfuz mi aveva detto che non mi avrebbe scordato mai…

Siamo allo stremo della sopportazione, così ci ritiriamo ancora in stanza, dove ci attendono fedeli e immobili i bagagli fatti e finiti. È l’ora della fine e questa si avvicina lentamente: solo i bagagli sanno aspettare.

Sheosar Lake, Deosai Plateau

Islamabad, 8 settembre, ore 2.30
Lasciate le batterie per Beppe Tenti, alle 23.50 usciamo dalle stanze, carichiamo il van della Walji’s e, puntuali, alle 24 lasciamo l’albergo. La temperatura è piacevole, il transfer all’aeroporto è uguale a se stesso, da un non luogo a un non luogo, solite file di luci, un traffico più ordinato del solito, un’atmosfera di partenza e di qualcosa che si sta perdendo.

All’aeroporto Mehfuz mi suggerisce di dare qualcosa all’autista. La mia esasperazione è tale che non mi trattengo:

– Ok, if I have to do it, I’ll do it – Mi guarda come si guarda un pezzente, io sorrido e aggiungo – because I don’t agree that in this country to every man in every occasion we must give a tip. I don’t agree, but I’ll do. We are not used to this.
– It’s because they respect you.

Tralascio la discussione e mi dedico al cambio del biglietto da 1.000 rupie che ho in tasca, ulteriore complicazione. Nel casino chiedo a due negozi, ma non hanno pezzi da 100. Allora vado alla biglietteria e ottengo il cambio. Ottempero al “dovere” con l’autista e ci avviamo con i soliti carrelli pieni verso le partenze. Ovviamente Mehfuz, senza biglietto, a un certo punto deve arrestarsi. I saluti, i pagamenti e le mance devono avvenire qui.

Finalmente liberi entriamo a svolgere le formalità. Alle 2 abbiamo finito e guadagniamo il salone pre-gate.

Il Saif-ul-Muluk Lake: sullo sfondo il Malika Parbat

In volo per Dubai, 8 settembre
Per quattro volte ci chiedono se vogliamo tè, caffè o bibite. Sono impiegati del bar, in divisa, con percentuale sul cliente procacciato. Dev’essere dura, a quest’ora di notte, chiedere ai passeggeri se vogliono del tè, dando del sir.

Un’occhiata al duty free shop, negozio che non suscita le mie simpatie neppure nel più opulento dei paesi, è desolante. Profumi di cui rifiuto la conoscenza, assieme a dozzinali giocattoli di plastica, orologi di cui non conosco la fama o la percentuale d’imitazione.

L’unica fuga è cercare di dormire, come fa Alberto, ma occorre perizia in questo. Il boarding è liberatorio, dopo sette controlli ne abbiamo ancora uno che ci permette di salire sul bus e quindi, dopo un nono controllo, sull’aereo. Ora è davvero finita, mi sento un rifiuto dell’Asia in via di smaltimento.

Per l’emozione mi addormento, la hostess mi sveglia, dico sì al kebab, ma soprattutto al vino rosso.

Baltoro 2004 – 6 ultima modifica: 2025-03-17T05:14:00+01:00 da GognaBlog

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2 pensieri su “Baltoro 2004 – 6”

  1. Mi ha impressionato la foto dei bambini di Bejal: i loro volti esprimono una tristezza senza speranza, come fossero già rassegnati ad una vita dura e incerta.

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