Metadiario – 140 – Belin statique (AG 1986-006)
La montagna è assai esigente e nella seconda metà del 1986 cominciavo veramente a capire cosa significasse lavorare duro e nello stesso tempo covare progetti alpinistici. Un paragone valido può essere quello del lavoratore-studente, binomio che in effetti non mi era riuscito.
Lavorando in modo totale, quelle dodici ore al giorno senza sosta, quando arrivava il weekend non avevo altro pensiero che l’arrampicare senza problemi di alcun genere, seguendo l’andamento meteo solo per lo stretto necessario alle esigenze della falesia e non confezionando progetti che richiedevano studio, dedizione, concentrazione.
Il mio lavoro, anzi il nostro, consisteva nel seguire gli autori, fare la redazione dei testi e disegni con pignoleria, poi passare il tutto alla stampa. Fatto questo incominciava, per ciascuna nuova uscita, il faticoso compito della vendita. Aggiungete anche la ricerca di pagine pubblicitarie, mai facile, neppure con i clienti acquisiti.
Nella seconda metà del 1986 eravamo dietro alla riedizione di Sul granito della Val Masino, di Giuseppe Miotti e Ludovico Mottarella, e alla pubblicazione di Arrampicate in Valle dell’Orco, di Maurizio Oviglia e Roberto Mochino, del mio Sentieri in Val di Fassa e Attraverso le Alpi Apuane, di Riccardo Pagliai e Roberto Marotta (quest’ultimo era il futuro ideatore della libreria Stella Alpina, a Firenze). Nelle edizioni non tascabili, lavoravamo alla prima edizione della guida d’arrampicata Finale, di Andrea Gallo e Giovanni Massari e alla guida Alle porte della Valtellina, di Miotti e Mottarella, in collaborazione con la Comunità montana di Morbegno.
Tutti questi titoli infatti uscirono nel 1987: sono un totale di sette. Il quadro completo lo avete aggiungendo la da subito problematica vendita di Mezzo secolo di alpinismo di Tita Piaz e soprattutto l’edizione in italiano di Die Alpen. Naturbearbeitung und Umweltzerstörung: eine ökologisch-geographische Untersuchung. Questo libro del geografo berlinese Werner Bätzing ci era piaciuto alla Fiera di Francoforte e ne avevamo acquistato i diritti di traduzione. Eravamo agli albori dell’ambientalismo, perciò l’idea di portare in Italia un’opera di quel genere era veramente rivoluzionaria. Nelle 188 pagine, formato 20×20 cm, si scopriva che su entrambi i versanti delle Alpi, per motivi assai diversi, incombevano pericoli di graduale distruzione. Questo grande tema era trattato con geniale competenza dall’autore, che per tanto tempo aveva studiato, anche in loco, le nostre vallate e quelle transalpine: il suo era un atteggiamento costruttivo, senza eccessi ottimistici o catastrofici. Il titolo in italiano fu L’ambiente alpino. Trasformazione, distruzione, conservazione: una ricerca ecologico-geografica.
L’immane tragedia dell’estate 1986, con i suoi 12 morti, aveva ricoperto il K2 di un manto sinistro di disperazione, ma in poche ore questo si era esteso a tutte le montagne. Era diventato una cappa di piombo insopportabile. Come tutti volevo liberarmene, ma l’immagine di Renato Casarotto tornava sempre prepotente, non dava scampo, non concedeva alcuna scusa al mio maldestro tentativo di sfuggire al dolore.
Dal punto di vista arrampicatorio indubbiamente facevo progressi. I 6b+ in genere mi riuscivano, abbastanza spesso a vista. I 6c erano bestie più cattive, ma anche quelli cominciavano a cedere ai miei tentativi. Ricordo con particolare gioia la Stanza dei Bottoni a Monte Cucco (Finale), ma anche il Pescecane a Rocca di Corno (Finale).
Ma la lotta vera iniziava sul 6c+. Dopo ogni tentativo, in genere lasciavo passare alcune settimane prima di tornare a provare. Non volevo assolutamente memorizzare i passaggi, e quello era l’unico sistema valido. Certo, avessi dovuto riuscire, non potevo parlare di salita a vista, questo è ovvio. Ma almeno tentavo di allenare il mio intuito, di volta in volta.
A Ovest di Paperino e Giochi d’Ombre, entrambe a Rian Cornei (Finale), mi vennero flash, cioè al primo tentativo ma dopo aver visto qualcuno farle. Fora et labora, a Rocca di Corno mi venne al secondo tentativo.
Anche Passami l’Ascensore, a Monte Cucco, mi riuscì al secondo tentativo. Sublimazione e Aspitta e spera (entrambe a Rocca di Perti, Finale), al terzo tentativo; Viaggio a Bombay (Monte Sordo, Finale), al secondo tentativo.
Alchimie d’Estate (a Rocca di Corno) è l’eccezione che conferma la regola: mi riuscì al terzo tentativo, ma tutti fatti nella stessa giornata.
Ai primi di dicembre del 1986, tramite amici comuni, feci la conoscenza di Marco Oreste Bianchi Milella (più semplicemente Marco Milella) che in seguito seppi essere il figlio di primo letto di Maria Girani: questa, in seconde nozze, aveva poi sposato il senatore Renato Angiolillo, storico editore e fondatore del quotidiano Il Tempo. Marco, che allora aveva 39 anni (uno meno di me), era molto diverso dai miei abituali compagni, uomo di abitudini assai particolari che avrò modo di descrivere meglio in seguito.
Nell’ultima dozzina d’anni Marco è stato (e credo sia tuttora) al centro di una complicata vicenda giudiziaria, in una bufera che lo ha visto imputato di evasione fiscale e di appropriazione indebita di un famoso “diamante rosa”.
Il 13 dicembre 1986, complice proprio Milella, iniziò il lungo corteggiamento a Belin statique, je suis content, un tiro su parete verticale a Rocca di Perti particolarmente bello che però aveva il difetto di essere gradato 7a. E, per non negarci nulla, con Marco ci fu un pressante corteggiamento anche a Icaro, altra parete verticale (ma a Monte Cucco), data di 7a+.
Era divertente, con i compagni, provare a turno. Ci si incitava a vicenda, si esplodeva nel giubilo ogni volta che c’era un successo, quello che oggi si dice “chiudere una via”. La sera però ci leccavamo le ferite, le nostre povere dita erano sottoposte a un lavoro durissimo che lasciava il segno.
Quando si faceva un tentativo a qualcosa che ci stava a cuore cominciavamo a badare sempre più spesso a chi ci faceva sicura: c’erano delle precise preferenze, a volte sconfinanti nella scaramanzia.
Quando si raccontano le proprie imprese alpinistiche si corre il rischio di annoiare il lettore, lo so bene: ma quando si vuole affabulare con le proprie gesta sportive, il rischio è duplicato! Che non ci sia nulla che valga la pena di raccontare sui monotiri lo dimostra anche il fatto che a distanza di tanti anni la mia memoria non segnali nulla di particolare, tranne rare eccezioni. Ciò dipende anche dal soggetto: di certo mi sento responsabile della mia non certo totale adesione alla mentalità e allo spirito di sacrificio che esige lo sport. Cioè, non è un problema della disciplina, bensì del protagonista.
Come di consueto, ecco l’elenco del periodo 24 ottobre 1986-9 gennaio 1987.
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Guido 10, arrampicare è un ottimo allenamento per l’alpinismo e se arrampicare ti piace è anche divertente. Se ti diverti sei felice e anche questo aiuta a salire le montagne. E ci metterei anche lo scialpinismo, tutto complementa tutto.
Questo volevo dire.
E’ evidente che se in falesia arrampica su gradi alti, forzando sempre i tuoi limiti, perchè ti puoi permettere di farlo, grazie a spit, fix e resinati, poi in montagna te lo ritrovi.
@10
Mi sembra piuttosto evidente che scalare in falesia su vie di difficoltà elevata aiuti anche in montagna, soprattutto quando ti trovi su difficoltà inferiori (lasciando perdere per un attimo la differenze fra calcare e granito ecc.). Che poi l’assuefazione allo spit faccia male quando devi proteggerti con protezioni mobili è altrettanto vero ma quando in montagna ogni presa, anche più piccola, ti sembra una “sbarra” eccome se la falesia ha aiutato…..
Da alpinista (parolone) appassionato a 360° quale sono, la differenza c’è eccome!!
Non nego che riuscire a scalare bene un tiro in falesia dia soddisfazione, ma per indole ho sempre praticato l’arrampicata sportiva per ripiego o in funzione dell’alpinismo, come allenamento.
Se dovessi scegliere tra l’attività in falesia e quella in montagna, scelgo la seconda.
@ Marcello al 9. Come può l’arrampicata sportiva, fatta di fittoni resinati, fix, spit e catene, giovare all’alpinismo? Forse il contrario.
Per l’appassionato non esiste differenza tra arrampicata sportiva e alpinismo se pratica entrambi convinto che un’attività giovi all’altra.
Una bella giornata in falesia, magari cogliendo uno o più risultati sportivi, vale una bella cima raggiunta per la via che ci tenevamo a fare, e viceversa.
“[…] l’autore fu in grado di apprezzare le vie più difficili in montagna così come ‘Vacca treno’ a Rocca di Perti. Certo le sensazioni non saranno state le stesse del Naso di Zmutt ma questo dimostra quanto la passione per la scalata possa coinvolgere ovunque essa sia.”
Può essere. Però, quando penso ad Alessandro sui monti, con gli occhi della mente lo immagino sul Naso di Zmutt. E mi sovvengono le parole di Dino Buzzati: “E io lo vedo là, che manovra con la picca. […] Un bambino, nella immensità misteriosa del santuario”.
Aveva ventitré anni.
Effettivamente si, in quei tempi, per me gli anni 90, ci si inorgogliva al Bar Centrale di aver fatto un movimento statico quando la maggior parte passava lanciando. Penso che questo atteggiamento abbia fatto la fortuna del Bar Centrale visto che non pochi amavano descrivere le loro ( a volte presunte) imprese a fine giornata consumando un buon gelato. La lista di vie di Alessandro mi smuove una grande nostalgia per tempi e luoghi ormai passati, non fosse altro perché’ sono passati molti anni. La zona di Belin Statique e’ molto bella anche se, rispetto a questa via, Alba di Giada e’ molto più famosa, direi a ragione. Anche i nomi delle vie di allora molto spesso erano il frutto di aneddoti, personaggi. La via di copertina a Finale mostrata in questo articolo ne è’ un esempio.
Forse sarebbe il caso che qualcuno, non so bene chi per il momento, provasse a scrivere la Storia di Finale, una sorta di cronaca fatta di personaggi più o meno forti, anedotti, leggende, diatribe e litigi….. credo ne uscirebbe un libercolo davvero grazioso. Tra l’altro voglio ricordare ai più alpinisti di questo blog che in quegli anni ( 80, 90) Finale non era solo il giardino dei climber, ma ci si ritrovava tutta la “comunità’” alpinistica ligure. Da raccontare ce ne sarebbe.
La cosa che apprezzo di questi racconti e’ pensare che l’autore fu in grado di apprezzare le vie più difficili in montagna così come “Vacca treno” a Rocca di Perti. Certo le sensazioni non saranno state le stesse del Naso di Zmutt ma questo dimostra quanto la passione per la scalata possa coinvolgere ovunque essa sia.
Bello.
Rileggo nomi di vie per me inavvicinabili
Queste sono le belle storie da gognablog!
Per chi scala in falesia in questi tempi, soprattutto su alte difficoltà, è normale superare passaggi con movimenti dinamici. Ma per chi scalava negli anni 80 prendere al volo una presa non era ben considerato .Anzi,i movimenti statici con delle belle chiusure erano Indice di manifesta bravura! Belin statique je suis content,la bella linea a sinistra di Alba di giada e chiodata da Flaviano Bessone, è dedicata ad un caro amico “finaleros”( del quale taccio il nome!)di quegli anni che ogni volta che portava a casa una nuova via impegnativa era solito rimarcare che i passaggi più duri erano stati superati elegantemente con movimenti statici e sicuri….Al bar Centrale di Finalborgo nel raduno post scalata era solito sentirlo dire con marcato accento genovese: ehi,raga l’ho fatto statico,belin,son contento! Magari tremolante…ma statico !Grande!Bei tempi!
A proposito del Fatonero, due anni fa c’e’ stata un’ ecatombe di faggi, un vero disastro, non per mano umana. Non rivedremo più il Fatonero com’era prima, e nessuno ne ha parlato.
La libreria Stella Alpina e le cave di Maiano sono luoghi del cuore per chi a quel tempo viveva all’ombra del cupolone.
“Attraverso le Alpi Apuane” bella la scelta della copertina con la foto del Sumbra dalle baite dei pastori nel bosco del Fatonero.
Si vede bene lo spigolo ovest salito dai fratelli Ceragioli negli anni 30, detto anche muso del Sumbra.
Ma belin, eri proprio statique. Ho rinunciato a contarli, vabbè che erano monotiri, ma ci hai ben dato dentro.