Cannibali di ieri e di oggi

Cannibali di ieri e di oggi
di Carlo Crovella

Emanuele Cassarà è stato giornalista sportivo, ha curato una rubrica settimanale di alpinismo sul quotidiano torinese Tuttosport. Alpinista in prima persona, oltre che giornalista, ha anche partecipato ad alcune spedizioni extraeuropee, padroneggiando in prima persona tutte le tematiche della montagna.

Ha pubblicato diversi libri (La morte del chiodo, Tutta montagna, Un alpinismo irripetibile, ecc.). In occasione di una tavola rotonda, tenutasi a Torino ben 44 anni fa, Cassarà ha pubblicato il sottostante intervento nella rubrica “Opinioni” all’interno di Monti e Valli (notiziario del CAI Torino) del secondo trimestre 1980.

I redattori così giustificano la presenza di un socio del CAI UGET (l’altra sezione torinese): “Diamo volentieri ospitalità al suo scritto, con la speranza che possa aiutarci al raggiungimento dell’obiettivo comune: la conservazione e la salvaguardia del patrimonio montano”.

Disegno di Sante Canciàn (La montagna presa in giro, di Giuseppe Mazzotti, L’Eroica, 1936)

Non so cosa accada in altre realtà, ma a Torino non si è mai stati tanto teneri verso quelli che noi chiamiamo i “cannibali”. Il termine è citato nello scritto di Cassarà e ciò prova che, già 44 anni fa, era di uso abituale nel discorrere subalpino, ma lo si trova anche in scritti ben precedenti (anche di 90-100 anni fa).

Fra le vie perpendicolari della squadrata Torino, il problema delle conseguenze sulle montagne di un affollamento, quantitativamente e qualitativamente non consono, non è quindi emerso pochi giorni fa. Lo si avverte da decenni. Però, rispetto al 1980, il problema si è notevolmente aggravato: l’ulteriore esplosione consumistica dell’andar in montagna, innescatasi dal 2000 in poi (circa), ha esasperato i numeri umani e inabissato ancor di più la qualità dei rispettivi frequentatori.

Ai nostri tempi abbiamo di fronte un modello estremamente consumistico, alimentato al suo interno dal notevole afflusso di “cannibali del giorno d’oggi”. Come ho avuto occasione di precisare più di recente, quelli che io definisco i “cannibali del giorno d’oggi” sono ancora più nefasti dei cannibali di 50 o 100 anni fa. Per un motivo molto preciso. Nel passato i cannibali erano, oltre che scarsamente animati dal vero spirito della montagna, piuttosto imbranati, sia tecnicamente che atleticamente. Si bloccavano già su sentieri e questo li teneva complessivamente confinati nella parte bassa delle terre alte. Salvo rare eccezioni, le vette e le testate dei valloni solitari ne erano sostanzialmente immuni.

Oggi invece, grazie ad una società complessivamente “sportiva” (ma in un significato molto diverso rispetto a quello utilizzato da Cassarà), i cannibali delle ultime generazioni sono atleticamente e tecnicamente pimpanti: magari realizzano 2000 o 3000 metri di dislivello in giornata oppure sono in grado di arrampicare su difficoltà impegnative. Per cui riescono a salire anche dove i loro predecessori non arrivavano. Ma sempre cannibali restano, di mentalità e di spirito. E quindi il problema non solo non è rientrato, ma si è addirittura aggravato.

La spinta consumistica che tutta ‘sta marea di “cannibali del giorno d’oggi” alimenta dall’interno del modello, costruisce un impianto turistico estremamente consumistico. Altro che rifugi d’antan, strade bloccate in fondo valle, pareti nude e crude! I cannibali sono in genere figli viziati di una società edonistica e quindi richiedono servizi consumistici e molto “comodi”: tanti (troppi!) rifugi, spesso con ogni comfort, stile hotel stellati; impianti e strade che li depositano alla base del tratto “sportivo” (che questo sia una via di roccia o un percorso scialpinistico, poco rileva); segnaletica a go-go come in un centro cittadino.

Che fare? Una proposta resta quella già elaborata in questo scritto di Cassarà (cioè: un CAI più selezionato ed elitario, che freni con dirittura morale i trend in essere), ma l’esperienza degli ultimi decenni ci ha dimostrato che le associazioni di massa propendono per grandi numeri, sacrificando la qualità alla quantità.


Disegno di Sante Canciàn (La montagna presa in giro, di Giuseppe Mazzotti, L’Eroica, 1936)

Io sono convinto che rimanga da giocarci la possibilità di rendere la montagna più scomoda. I cannibali, a maggior ragione quelli del terzo millennio (viziati ancorché scattanti) non amano le scomodità. Quindi chiudiamo le strade in fondo valle; chiudiamo, attraverso una politica ragionata, gli impianti e i rifugi (di questi ultimi, come per i bivacchi, dovrebbero restare solo quelli con un “senso” storico-alpinistico); contrastiamo ogni manifestazione consumistica.

È un obiettivo perseguibile? Io credo di sì. Sto portando avanti una sensibilizzazione in tal senso da circa una dozzina di anni, forse quasi 15, e i responsi non sono sempre negativi. Anzi.

Certo, è necessario che fra i cosiddetti “appassionati di montagna” sia chiaro un punto cardine: se si è convinti di agire in tale direzione, non ci si può mettere a fare distinguo sul piano della filosofia del diritto (stile montagna regno della libertà, per cui viva anche la libertà dei cannibali). O si crede che il fine giustifichi i mezzi, oppure si è inevitabilmente schierati al fianco del modello consumistico.

Scelta legittima, quest’ultima, ma allora si tenga una coerenza fino in fondo. Per cui si eviti di strillare come aquile ad ogni notizia di nefandezze che il modello consumistico-cannibalesco realizza ai danni delle montagne. L’altro ieri hanno lastricato le sponde del Garda per ottenere delle piste ciclabili, ieri hanno costruito una inutile funivia che porta, fin sul Piccolo Cervino, i turisti in ciabatte, oggi stanno cercando di sbancare il Vallone delle Cime Bianche, domani (chissà) ipotizzeranno qualche altra “skyway” sui quattromila, e dopo domani vorranno chiudere tutte le montagne sotto cupole di plexiglass, con la scusa di garantire (360 giorni all’anno) le condizioni ottimali per praticare al meglio ogni disciplina sportiva…

Di fronte a questi rischi, il totem della libertà in montagna sfila nelle retrovie.

È una scelta di campo: chi non antepone a ogni altra cosa l’obiettivo di difendere le montagne, alla fin fine si allinea al modello consumistico.
Magari non se ne rende conto, ma è così.

Il CAI e la domanda di montagna che si estende
di Emanuele Cassarà
(pubblicato su Monti e valli, n. 2/1980)

Intorno a un tavolo si siedono alcuni uomini responsabili del Club Alpino, nella sede “storica” di via Barbaroux. Il CAI e la montagna; il CAI e le moltitudini che frequentano la montagna; il CAI e la “domanda” di montagna, che si estende.

Cosa possiamo fare, quali strumenti abbiamo, quali sono le nostre reali possibilità e forze di reazione a un certo caos?

Si fa l’elenco dei disastri: affollamento di rifugi e pareti; impossibilità di ritrovare l’antico silenzio delle valli; “gatti delle nevi” che salgono a 4000 metri (Sass Fee); elicotteri che si posano sulle vette e scaricano sciatori (stile Apocalypse now), autostrade della neve dove la sfilata degli sciatori è carnevalesca; fauna che fugge via; flora deturpata e avvilita, eccetera.

Roberto Bianco suggerisce e propone alcuni rimedi: ristabilire l’autorità morale del CAI; fare opera di educazione e di sensibilizzazione; elevare dure proteste attraverso i giornali; battersi contro l’installazione di nuove funivie; aumentare le tariffe dei rifugi per i non soci del CAI: insomma far sentire la nostra voce ed assumere una posizione chiara e netta.

Infine Bianco plaude alla recente legge francese che proibisce l’atterraggio e il sorvolo indiscriminati delle Alpi agli elicotteri fino al novembre ’80 (vengono tollerati in tutto il gruppo del M. Bianco tre eliporti in quota). L’impiego dell’elicottero per il soccorso e per le opere alpine è fuori dal problema.

Intervengono in seguito Umberto Pocchiola, il presidente Guido Quartara, Corradino Rabbi, Ugo Manera, Roberto Aruga, Pierlorenzo Alvigini, Claudio Riccardi. Si discute. Affiora l’impotenza di risolvere problemi che sono troppo più grandi del CAI.

Rabbi è scettico, Manera pratico: occupiamoci delle Alpi dal punto in cui cominciano i sentieri (vecchia tesi di Renato Chabod); sfoltiamo i compiti delle nostre sezioni, Pro-Natura, ecologia, insetti, flora e fauna, cori, fotografie, ecc. Occupiamoci di alpinismo, cioè di arrampicata sulle pareti e sulle vette. Problema rifugi: sono ancora rifugi quelli raggiungibili in automobile? E lo sono quelli raggiungibili in poco più di un’ora dall’auto? C’è chi propone un congresso straordinario del CAI per stabilire quali sono – o possono essere, in base alla disponibilità (di soldi e di uomini) – i compiti moderni del sodalizio.

La domanda ci pare d’obbligo: se facciamo i nostalgici, il vero CAI oggi sarebbe il Club Accademico. In fondo, quand’è nato il CAI, i suoi soci erano tutti capi-cordata… Diciamo che il vero CAI sono, oltre all’Accademico, le Scuole di alpinismo; al massimo, ci mettiamo dentro le Commissioni gite, accompagnatori e soci abituali che si iscrivono al CAI per avere la gita domenicale assicurata e gratuita…

Però l’idea non è cattiva. Rinchiudiamoci nel “nostro” club; perchè mai dovremmo aprirci alle masse dei cannibali e aiutarle a invadere le “nostre” montagne? Ci si può pensare.

Emanuele Cassarà

Ma quale è stata la “politica” seguita dal sodalizio specie nell’ultimo dopoguerra? L’esatto contrario: per generosità, per spirito missionario, gusto del “kolossal” che può rendere…

Sono riflessioni che emergevano mano a mano dalla discussione per cercare la verità e la luce. Lo scetticismo peraltro era generale. Quando si è di fronte a un ostacolo ci può aiutare soltanto il realismo, il resto lo si può mettere nel cestino, tradizioni comprese, se non ci possono ispirare soluzioni concrete.

Dunque la politica è stata di assumersi compiti e arrogarsi doveri che dopo – che è oggi – sono divenuti insostenibili, almeno in relazione alle ambizioni e alle possibilità di molte Sezioni. E ci hanno messo in crisi. Non sarà dappertutto così. Ma certo è così per una Sezione come quella antica di via Barbaroux che ha un numero di rifugi incredibile da foraggiare, sostenere, far vivere.

Quartara (il Presidente in carica del CAI Torino, NdR) mi raccomanda di fare cronaca. Io ero un “invitato” (come socio CAI UGET), però resto giornalista. La cronaca, caro Presidente, sarebbe già finita. Con un allargamento impotente di braccia.

Invece dobbiamo fare commento, trarre conclusioni, cercare di indicare a chi ci vuol bene e anche a chi non ce ne vuole troppo, cosa siamo in grado di fare.

Dunque il CAI ha soltanto due strade: o restringere drasticamente le proprie ambizioni di “sodalizio di massa”, tagliando il numero dei soci, respingendoli, dando in affitto o in appalto o in vendita i propri rifugi; incaricando altri di “insegnare montagna” e limitandosi invece ad “insegnare alpinismo”, che è ben altra cosa (“specialistica”); limitandosi cioè a essere un club di élite riservato all’élite o a chi élite vuol davvero diventare.

In fondo la mia vecchia idea di una Federazione sportiva della montagna — dove “sportiva” sarebbe l’attività, come lo era quella di Quintino Sella e di Giusto Gervasutti tanto per intenderci — e mica, dunque, per allestire… competizioni e classifiche! — risolverebbe e porterebbe chiarezza.

Oppure il “dopolavoro”, la società del tempo libero sulla montagna, con strutture, funzionari, eccetera, “sopportando” gli alpinisti e i loro problemi, ristretti e chiari.

Fermo restando sempre il compito primario della conservazione e dello sviluppo del patrimonio culturale (pubblicazioni, biblioteche, guide, ecc.) che è insostituibile dovere del CAI.

Nel primo caso (per me accettabile) il CAI potrebbe riavere l’autorità morale auspicata da Bianco. Perchè sarebbe un centro di studiosi e di tecnici i quali metterebbero a disposizione dell’intera comunità il proprio bagaglio di cognizioni e di esperienza alpina.

Il CAI diverrebbe (come dovrebbe già essere) consulente “obbligatorio” dell’Ente pubblico: nessuna funivia, nessuna strada, nessun agglomerato urbano; nessuna ricerca e devastazione geologica dovrebbe, per legge, essere possibile senza l’avallo e l’approvazione nostra.

L’altra strada è quella del grande club del tempo libero (in montagna) dove dentro ci sono tutti, i cosiddetti sestogradisti e gli escursionisti, i campioni e gli amici delle betulle. Ma allora “dobbiamo integrarci” con l’Ente pubblico – lasciate stare se di colore rosso, rosa o bianco, oppure tricolore!

Ciò non significherebbe d’altra parte venderci alla politica, ma inserirci in un discorso di massa come sono oggi tutti i discorsi: cittadini, nazionali e mondiali.

Oggi sono le masse che chiedono e vogliono fare, tutte assieme, nello stesso momento, le stesse cose. Dunque anche andare in montagna, in qualsiasi modo… Inserirsi in un discorso di massa significa appoggiarci ad altri organismi; dare consigli, uomini, e ricevere… denaro e altri rinforzi (ad esempio per la gestione dei rifugi) e pagare funzionari, professionisti della montagna, ancorché creati da noi e non da altri, per dare una risposta manageriale alla domanda crescente. E aprendoci a una maggiore partecipazione democratica dei soci alla vita e ai compiti del sodalizio.

Se invece ciò ci ripugna (legittimo sentimento) isoliamoci, andiamo in montagna addentrandoci nelle valli più sperdute (ce ne sono ancora) ma per far ciò non solo non avremmo bisogno del CAI com’è oggi, ma nemmeno di romperci il capo in queste discussioni.

Ciascuno per proprio conto, un buon amico e si va ad arrampicare o a sciare.

E gli altri? S’arrangino…

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Cannibali di ieri e di oggi ultima modifica: 2024-03-19T05:04:00+01:00 da GognaBlog

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40 pensieri su “Cannibali di ieri e di oggi”

  1. 31-Riccardo. Sono stato per due agosti consecutivi nell’agordino (a Canale, per la precisione). Io la vera folla l’ho vista solo al Col dei Baldi sul sentiero per il Coldai, alla partenza del sentiero (da Costabella) per il Rifugio Passo Selle, al Nuvolau (ma venivano in gran parte da Cortina/rifugio Scoiattoli), a Fuciade da Passo San Pellegrino e ovviamente al Falzarego e al Giau. Però, persino sul Lagazuoi, nonostante la funivia, c’era meno gente che sulle Bocchette in Brenta… Alla Malga ai Lach c’erano quattro gatti e sei al Carestiato… 😀

  2. Crovella:
    da noi è in uso da almeno cento anni, pensavo ingenuamente che il suo significato fosse di dominio comune anche in altre zone d’Italia.
    Sarà mica perché in Piemonte ci sono 4.5 milioni di abitanti che si credono Dio e nel resto d’Italia 60 milioni che invece non si credono la creme del Paese?

  3. 0
    È vero, c’è qualcosa di predatorio nell’approccio contemporaneo alla montagna.

    Solo oggi? 
    Nel passato no?
    Quando c’è stata la corsa alla conquista del Cervino, la corsa agli 8000, la corsa alle prime invernali delle 3  pareti nord, quando Cassin sgattaiolava nella nebbia sotto la nord della Cima Ovest. Quando neanche un mese dopo alla tragedia del Pilone si è di nuovo in corsa per la prima.
    Ect. ect. ……

  4. È vero, c’è qualcosa di predatorio nell’approccio contemporaneo alla montagna.
    Si potrebbe parlare di geist der zeit: i desideri elevati a diritti.
    Vogliamo privare qualcuno del diritto a salire su una montagna?
    La battaglia è persa. Rassegnatevi.

  5. Altra cosa: ravviso una certa sorpresa per l’uso della definizione “Terre Alte”.  Come se io fossi appena sceso da Marte e usassi un termine inconsueto, addirittura inventato. Non sapete che è ormai assodato l’uso di tale definizione? C’è addirittura un gruppo di studio del CAI che, da TRENT’ANNI (dal 1991 per la precisione), si occupa delle Terre Alte…
     
    La definizione molto precisa è la seguente. Le Terre Alte, al limite della fascia rocciosa o glaciale, sono luoghi dove è possibile registrare l’azione plasmatrice dei fattori culturali sull’ambiente. Nella definizione precisa le Terre Alte sono quindi la parte delle montagne abitata dall’uomo.
     
    Spesso però il termine si utilizza in senso esteso e quindi impreciso, ben al di là della definizione in senso stretto. Nel linguaggio colloquiale, spesso si dice “terre alte” per indicar le zone di montagna, anche oltre il limite della presenza costante dell’uomo. Io lo uso abitualmente per indicar quelle zone dove si pratica l’ “andar in montagna”. E’ un uso impreciso, ma mi pare una definizione elegante per non ripetere sempre “montagne”. Tanto ormai, con l’antropizzazione riminizzante che arriva anche fino in vetta la Bianco, è davvero infinitesimale la differenza fra la parte di montagne strutturalmente abitata dall’uomo e quella che sta oltre tale limite.

  6. Riccardo, il problema non risiede mai in ciò che una giunta qualsivoglia voglia ordinare, ma in chi esegue.
    A Milo, comune etneo di circa 1000 abitanti (sulla carta, visto che sono in molti i residenti per le seconde case), stamattina ho trovato che ben 4 posti sui 9 di una piazzetta adiacente al centro sono stati adibiti alla ricarica delle auto elettriche.
    Sta a noi boicottare, come insegna Peruffo.
    A Catania diversi individui hanno scelto di rivendere l’auto elettrica che avevano acquistato perché è difficile trovare liberi gli spiazzi per la ricarica.

  7. 31
    Riccardo,  guarda io sono un istruttore CAI dal 1984 quindi sfondi una porta aperta. Ma non concepisco questo iscriversi di continuo ai corsi cai, le scuole trasformate in agenzie di viaggio e gli istruttori cai in accompagnatori per coloro che non se la sentono di proseguire da soli per la propria strada.
    Il corso dovrebbe dare un insegnamento, i primi rudimenti, uno stimolo. Poi se si ha una vera passione, si dovrebbe andare da soli, come si è fatto tutti,  perchè l’esperienza non si compra.

  8. @Alberto Benassi: ha senso quando si vogliono accrescere e aggiornare le proprie competenze, conoscenze,  proprio per essere sempre più autonomi in sicurezza. Ad esempio solo per il corso AR1 sono cambiate negli anni le metodologie di far sicura, sia ventrale che in sosta. Così come ogni anno faccio le esercitazioni di ricerca ARTVA in valanga perchè se arrivi al sepolto con comodo è inutile avere addosso 500€ di attrezzatura di ricerca e soccorso in valanga. Ma poi ci sono un sacco di corsi interessanti, dalle erbe e piante di montagna all’autosoccorso ad esempio. Poi ognuno se la vive come vuole, la montagna è libera cosi come la volontà di crescere o meno. 
    @Carlo Crovella: grazie della risposta. in effetti nell’intervento precedente alla risposta al mio commento avevo nettamente intuito la condizione di cannibale (qui da me – nel Veneto, sic – non si usa, l’ho imparato qui). 
    @Fabio Bertoncelli: assolutamente d’accordo sui concetti di Riminizzazione e fighetti che ostentano+danni collaterali.  Riminizzazione  poi è un termine nuovo che userò più che posso. mi hai fatto venire in mente un tema molto sentito nell’Agordino, Luxottica. Questa grande industria dà lavoro a oltre 4000 persone (4600 solo ad Agordo), ma tanti valligiani ritengono che sia un problema, sia per l’espansione turistica (più comodo fare i dipendenti ben pagati che lavorare in malga o rifugio) che per l’eccessiva influenza che esercita nel quotidiano in Valle. Di contro, l’Agordino, grazie al cielo, non ha ancora avuto uno sviluppo turistico di massa e io mi auguro che rimanga così, perchè da Alleghe in su è letteralmente un Circo Barnum a mio avviso. Riminizzazione all’estremo. Senza contare quello che la giunta Zaia ha in progetto per Riminizzare ancora di più le Dolomiti. Speriamo perdano il patrimonio Unesco. 

  9. C’è un altro tema traversale che si intreccia ed è stato strumentalizzato pretestuosamente. Meglio chiarire. Ho scritto che nel CAI c’è un solco generale che determina la crescita individuale di ogni singolo. Ovviamente c’è, così come c’è anche la complementare parte di gente CAI che non ne fa parte. Io ne faccio parte e anzi concepisco la funzione educativa (sul tema comportamentale) come la vera spina dorsale del ruolo didattico. Insegnando le singole tecniche (es: come si assicura, come si fa ricerca ARTVA, come  si sceglie una gita o una via ecc ecc ecc), si educano gli allievi sul come si approccia la montagna e sul come ci si comporta in montagna. Con l’omogeneizzazione del modello didattico e il suo accentramento nella relativa commissione (la CNSASA), tale impostazione, salvo piccoli range di fisiologica soggettività, coinvolge tutte le scuole CAI, di ogni località geografica e di ogni disciplina tecnica (alpinismo scialpinismo, arrampicata ecc ecc ecc): ecco perché parlo di un solco “marcato CAI” dove ogni allievo possa concretizzare la sua crescita personale, nell’ambito di un modello omogeneo. Significa che ricevi lo stesso insegnamento sia che ti iscrivi a una scuola di roccia di Vipiteno sia che ti iscrivi a una scuola di scialpinismo di Trieste, sia che ti iscrivi a una scuola di escursionismo di Roma… (sempre del CAI, ovviamente).
     
    Questo riguarda il sotto insieme delle Scuole del CAI e dei suoi frequentatori. Certo che esistono anche dei soci CAI che non frequentano tale insieme e la cui crescita personale (in montagna, ovviamente) è frutto di altre variabili, non gestite e non gestibili dal mondo CAI.
     
    A maggior ragione, tale variabilità si accentua fra quelli che vanno in montagna in modo del tutto indipendente dal CAI. Fra questi vi possono essere frequentatori “perfetti” della montagna, perché hanno ricevuto un insegnamento molto preciso ed educato, magari dai genitori o da un fratello o da un amico… Ma purtroppo l’esplosione dei numeri umani assoluti (dal 2000 in poi) ha avvicinato alla montagna molti individui che non hanno avuto la fortuna di ricevere un insegnamento adeguato. Se poi facciamo mente locale ai modelli comportamentali (molto negativi) offerti da social, si comprende facilmente come sia possibile che l’insieme di coloro che si danno alla montagna senza una preparazione educazionale (sul tema comportamento) sia così consistente.

  10. Chi sale e scende le Terre Alte (Sic!) alla velocità dell’acqua che scorre nelle condotte forzate, se gli va bene vede un tubo.

  11. Mi sento in sintonia con quello che fa Riccardo , anzi e’ piu’ bravo lui di me.
    Io con la mtb faccio anche i sentieri , ma anche io mi pongo dei dubbi sul fatto di rovinarli o meno.

  12. Riccardo says:
    20 Marzo 2024 alle 9:25
    Mi pongo una domanda a me stesso, con delle premesse da fare. Sono iscritto al CAI e ne frequento con piacere i corsi che mi interessano.
     

    Ma che senso ha fare ” i corsi che mi interessano”.
    E quanti corsi fai?
    Va bene, è utile, è prudente,  fare un corso CAI per imparare qualcosa, ma poi si dovrebbe camminare con le proprie gambe.  Altrimenti tanto varrebbe prendersi una guida alpina per farsi accompagnare nelle uscite in montagna.

  13. @23 Bertoncelli. Guarda che stiamo dicendo esattamente le stesse cose. Che c’entra la “mia” sicumera? Anche tu se caduto nell’equivoco che ho descritto nel mio 22. Cannibale è un concetto comportamentale, non tecnico. La tecnica c’entra solo perché, diffondendosi negli ultimi 20 anni fra chi va in montagna, ha permesso (purtroppo) ai cannibali di spostarsi in alto, dove decenni fa non arrivavano. Ciao!

  14. @ Riccardo. Credo che la risposta alla tua domanda sia compresa nella parte finale del mio precedente intervento, ma – dato il tono garbato del tuo intervento – ci tengo a risponderti personalmente. Se ti comporti come descrivi NON sei un cannibale, anzi. Il fatto che tu macini dislivelli non incide nulla sull’essere o meno cannibale. E’ una questione etico-comportamentale e non tecnica. La descrizione che fai del tuo modo di comportarti è l’esatto opposto del cannibale. La mia riflessione generale sull’intrecci fra “esser cannibali” e “performace tecnico-atletica” è altra, l’ho descritte nella parte finale dell’intervento precedente, evito quindi di ripetermi. Buone gite!
     
    PS: attenzione (a tutti) a non confondere due mie riflessioni di cui una qui non è stata neppure accennata, cioè quella dell’approccio consumistico alla montagna. Molte delle nuove attività in montagna sono consumistiche, o quanto meno io le considero tali. Ma anche qui le due variabili si intrecciano e generano una tabella a doppia entrata: ci sono cannibali consumisti e non consumisti e ci sono consumisti cannibali e NON cannibali. Lo spartiacque fra cannibali e non cannibali è nel modo di comportarsi.

  15. Riccardo, il concetto di “cannibalismo” per Crovella è molto semplice: tutto quanto fa lui non lo è, tutto quanto non fa lui lo è. 
    Ciò che indispone sono la sua intolleranza verso chiunque la pensi in modo differente e la sua maniera dogmatica di esprimersi su tutti i temi: non sente ragioni. In qualche caso ha ragione, ma è la sua sicumera che non si sopporta.
     
    Consideriamo la montagna intesa solamente in senso sportivo (per esempio, le corse a piedi). Io non sono assolutamente d’accordo con questa concezione, ma se a qualcuno piace che devo fare? Insultarlo? Sparargli? No, eh! Sono persone che vanno sui monti coi loro muscoli, non in funivia.
     
    Per me i cannibali in montagna sono i fighetti che ostentano, si esibiscono, schiamazzano, si ammucchiano, gettano rifiuti, camminano per i sentieri con i sandali, sciano con elicottero al seguito, pretendono doccia e menú alla carta nei rifugi, allertano il soccorso alpino non appena si sentono un po’ stanchini.
     
    E, se mi consentite, cannibali (o, meglio, vandali) siamo pure noi tutte le volte che ci serviamo di un impianto di risalita. In particolare, lo sci di pista è un verminaio inesauribile di vandali che devastano le montagne. Si chiama riminizzazione della montagna. È questo che io detesto.
    Riminizzazione: “modello chiassoso e deturpante, nel quale frotte di turisti si affollano in luoghi di villeggiatura” (cfr. Treccani).
     
    Vogliamo ridurre il Monte Bianco e le Dolomiti al livello di Rimini a Ferragosto? Siamo a buon punto: non manca molto.
     

  16. C’è molta confusione sul concetto di “cannibali”. E’ comprensibile perché non è un concetto codificato ufficialmente. Ciò se andate sul dizionario o sull’enciclopedia non lo trovate (ovvio che trovate la definizione di “antropofagi”, ma qui non c’entra nulla!). A Torino il termine cannibale si usa da sempre, ma è concetto del linguaggio colloquiale. Ciò nonostante, per noi è “chiaro” cosa si intenda per cannibali, forse perché lo sentiamo ripetere da che siamo in culla. Tra l’altro è concetto di NON esclusiva applicazione alla montagna, ma generale a ogni risvolto dell’esistenza. Non mi dilungo a spiegarlo perché chi non lo mastica da che è nato non riesce a coglierne il vero significato.
     
    E’ il concetto di cannibale, nella nostra tradizione, viene applicato anche alla montagna da tempo immemore. Questo articolo, datata 1980, dimostra che quarant’anni fa lo si usava già abitualmente, dandolo per scontato a tutti. Ma si ritrova la citazione di cannibali anche in testi di alpinisti torinesi degli anni Venti e Trenta del Novecento. qyuindi per noi è assodato e per questo non comprendo come mai sia così inusuale per gli alpinisti di altre zone. Sinceramente, essendo un termine che, in montagna, da noi è in uso da almeno cento anni, pensavo ingenuamente che il suo significato fosse di dominio comune anche in altre zone d’Italia.
     
    Il CAI non c’entra in modo specifico con il cannibali. Nel senso che anche il CAI “produce” cannibali, da sempre. Ma dal 2000 in poi assistiamo al trend di disintermediazione del CAI (cioè sempre più gente va in montagna al di fuori del CAI) e, in parallelo, assistiamo all’enorme crescita numerica dei cannibali. Di questo secondo fenomeno sarà in parte responsabile anche il CAI (per la quota di cannibali che, anche senza volerlo, produce lui stesso), ma è innegabile che ci sia un flusso crescente di cannibali totalmente estraneo al CAI, fenomeno che è una novità strutturale (rispetto al Novecento) e che, da osservatore dei fenomeni socio-culturali quale sono, mi ha colpito e quindi l’ho riferito. Mi pare strano che non interessi rifletter su cosa sta accandendo nel mondo della montagna. Negare l’esistenza dei suddetti trend è già di per sè un atteggiamento da cannibale…
     
    Altro punto. Il concetto di cannibale NON è assolutamente un concetto di natura tecnica, ma di mentalità comportamentale. Sbaglia quindi chi interpreta le mie osservazioni sulla base di confronti tecnici (come e io fossi mosso da invidia). Il confronto è sui comportamenti, non sulle performance. Anche qui, osservando la realtà di chi va in montagna, dal 2000 in poi ho registrato una notevole differenza rispetto ai decenni passati (io vado in montagna sistematicamente dagli anni sessanta, quindi ho percezione diretta di cosa sta accadendo, decennio dopo decennio…): mentre i cannibali del passato restavano nella parte bassa delle terre alte (in quanto erano complessivamente imbranati e atleticamente scarsi), ora, con l’innalzamento delle performance tecniche e atletiche dell’intero parco di chi va in montagna, sempre più cannibali arrivano anche alle parti alte delle terre alte. Non è questione tecnica: non tutti i forti sono cannibali, anzi. Ecco l’errore di interpretazione di alcuni lettori.
     
    Ma capita, oggi, che alcuni cannibali di mentalità siano anche forti e te li ritrovi in alto, anche dove 40-50 anni fa gli allora cannibali non arrivavano. Inoltre, in questo risvolto non faccio riferimento ai topclimber e quindi famosa, ma resto nel segmento statistico dei frequentatori amatoriali della montagna, gente che fa gite la domenica per intenderci. Citare nomi di topclimber (o top-skialper) è quindi improprio, significa mescolare il campione di F1 con gli automobilisti della domenica. Ovvio che i top climber non sono cannibali, ma fin lì mi pare che non sia necessario sottolinearlo…

  17. Mi pongo una domanda a me stesso, con delle premesse da fare. Sono iscritto al CAI e ne frequento con piacere i corsi che mi interessano. Il mio modo di concepire la montagna è di non lasciare nulla oltre la mia orma, evitando poi rifugi stellati e tutto quello che a mio giudizio storpia la montagna come l’intrattenimento per turisti paganti. E qui sono tanto d’accordo con Crovella. Arrampico, corro in montagna, faccio scialpinismo, anche MTB. E alcune di queste attività provo anche a farle da agonista (ma solo piccoli eventi locali), quindi mi alleno forte in montagna, ma sempre seguendo la mia etica di minimo impatto (in MTB prevalentemente solo strade forestali in discesa..i sentieri si segnano troppo). A questo punto io mi chiedo se rientro o meno nei cannibali, perchè macino km e dislivello, anche se cercando di mantenere un’approccio il più etico possibile, incluso il cercare di frequentare le montagne di casa per evitare troppi spostamenti inquinanti con l’auto e godermi luoghi il più possibile selvaggi pur magari essendo in allenamento. A che mondo appartengo? 

  18. Poi taccio Perin altro anno….ma perché continuate a dargli spago?

  19. Confido nel menù di domani, quando ho letto che oggi c’era la solita minestra riscaldata più volte, e dal solito che si crede un cuoco, ho preferito cambiare trattoria.

  20. E comunque, volendo cambiare un po’ l’aria rispetto all’ennesima discussione sui cannibali, potremmo affrontantare quella sugli Acciaiati. Così, tanto per cambiare un po’….

  21. Grandissima confusione sul tema Cannibali. Quelli che usano funivie elicotteri e aperitivi ai rifugi sono cannibali e vanno estromessi ma nulla hanno a che vedere con quelli che sono “scattanti” e fanno 3000 metri di dislivello o scalano vie dure e che non possono essere definiti cannibali da chi ha un centesimo delle loro capacità’ semplicemente perché ‘ questi ultimi non sanno di cosa parlano. Uno dei più grandi cannibali attuali potrebbe essere Kilian Jornet, un vero cannibale anni 80 Christoph Profit che si spostava in elicottero. Ma vi pare?
    Ma di cosa stiamo parlando. Almeno in montagna in parete una legge non mente: quella di chi si fa il mezzo e sale vie più dire. Punto. Tutto il resto sono chiacchiere, discursci. Ci sono oceani di corsi Cai che guarderanno sempre dal basso verso l’alto molti dei cannibali. L’invidia è’ una brutta bestia. Come se poi fosse possibile valutare la bontà’ delle intenzioni di qualcuno solo perché corricchia in salita anziché’ intruppato in un corso domenicale. Non si può’. So a mala pena valutare quello che passa nella mia testa e forse di chi vive con me, figuriamoci se posso fare il processo alle intenzioni di chi vedo passare su un sentiero. Cosa ne so? Soprattutto cosa ne so da dove parte. Magari è’ uno che ha lottato per anni contro un cancro e ora si è’ dato alla corsa in montagna perché gli hanno detto che migliora l’ematocrito. Per esempio. Io di fronte a chi si fa il mazzo cerco di fermarmi sempre un attimo prima di dare valutazioni. I percorsi sono individuali. Il Cai può’ dare un indirizzo, non una garanzia. Per il resto quando vedo mio nipote che ci mette venti minuti in meno di me a fare 1000 metri di dislivello non penso sia un cannibale ma un grande appassionato che ama la montagna e vuole migliorarsi. Il resto sono chiacchiere. 

  22. ERRATA  CORRIGE
    “Come se il Cai non portasse in montagna masse di 40 individui su un unico sentiero! Si stanno diffondendo stupefacenti anche tra gli utenti del blog…”
     
    Sbagliato! Le masse del corso di scialpinismo del CAI Torino arrivano a duecento individui (dicesi duecento).
    Dove passano loro non cresce piú l’erba.

  23. Grazie Antonio Migheli, Crovella non ha più la qualifica di interprete unico e autentico della torinesità. Questo ci predispone meglio verso l’Augusta Taurinorum, dandocene un quadro più ampio e bilanciato

  24. @ 11
    Caro Antonio, Krovellik è cosí: granitico sentenziatore.
    Se non fosse cosí, non sarebbe Krovellik.
     
    Rassegniamoci.
     
    P.S. Una pernacchia alla Totò può bastare, di tanto in tanto, però senza avvelenarsi il sangue.

  25. Ma come si può generalizzare a tal punto da dire che quelli del Cai sono così, mentre tutti gli altri sono cosà? A che titolo, poi?

    Come se il Cai non portasse in montagna masse di 40 individui su un unico sentiero! Si stanno diffondendo stupefacenti anche tra gli utenti del blog…

  26. Expo, non si tratta di convincere ma di mostrare modelli diversi.

    E’ quel che cerco di fare con le mie escursioni, pur rimanendo in una piccola nicchia di mercato.

  27. #8  “Invece fuori dal CAI non ci sono canali che convogliano la crescita individuale e anzi i modelli di riferimento comportamentale sono quelli dei social, in genere molto “cannibaleschi”. ”
    Crovella, adesso lei mi ha fatto veramente incazzare. Non sono socio Cai e non frequento i social, vado in montagna per divertirmi e lo faccio con gente iscritta o meno al Cai, non ce ne può fregare di meno e quelli iscritti lo sono solo per pagare meno i rifugi.  Non le permetto di mettere in dubbio la mia crescita individuale, sulla base di una tessera o di una patacca, come nel suo caso.  La invito a darsi una calmata e a smettere di attribuire a destra e a manca  patenti di liceità o meno su ciò che sia giusto o sbagliato nell’arco dello scibile umano. Oggi è addirittura riuscito ad ammorbarci due volte, commentando l’articolo di Cassarà e pure dicendoci la sua in un post dedicato ai bastoncini da trekking. I suoi commenti li salto sempre a piè pari, ma la invito a smetterla di giudicare chiunque non la pensi come lei. Grazie dell’attenzione.

  28. Quella dei cannibali è una realtà da sempre e che sempre ci sarà. Come Dio al catechismo.
    È inutile teorizzare rimedi perché non c’è da rimediare un bel niente.
     
    Ho trovato l’articolo di Cassarà molto confuso e troppo generalista, forse perché trattava di un un’argomento inesistente. 
    Chi vive il disagio di certi, evidentemente non ha occhi per guardarsi attorno giornalmente. 
    E smettetela una buona volta di trattare la montagna come un luogo extraterrestre perché non lo è. 
    Suggerisco a chi parla di “terre alte” di andare gentilmente a farsi fottere. Grazie.

  29. Questa la trovo aberrante :
    ” Infatti nel mondo CAI c’è un modello che incanala la crescita individuale.”
    Incanala la crescita individuale? Siamo all’alpinismo sovietico anni 60/70/80?
    Si chiama crescita INDIVIDUALE!

  30. Non credo che, ai giorni nostri, il CAI sia l’unica fucina che produce cannibali. Questo perché dal 2000 in poi si registra una fenomeno di progressiva disintermediazione del CAI nell’accesso alla montagna. Intendo: nei decenni fino a tutti gli ’80 compresi, vi era quasi totale coincidenza fra “andare in montagna” e “far parte del CAI”. Primi segnali di cambiamento nel corso dei ’90. Dal 2000 in poi lo scenario è strutturalmente cambiato: nell’ambito di numeri pur crescenti di soci CAI, è emerso – e da allora si irrobustisce progressivamente – un flusso alternativo/estraneo al CAI, ovvero un flusso di chi approccia e frequenta la montagna senza passare attraverso il CAI e/o senza associarsi al CAI medesimo.
     
    Per cui, oggi come oggi, ci sono certo dei cannibali prodotti dal CAI, ma ci sono tantissimi cannibali totalmente estranei al CAI. Basta leggere i post lasciati in certi siti (quelli delle relazioni gite) o in pagine Facebook. Oppure semplicemente osservarli sul terreno. Utilizzano frasi e ragionamenti che difficilmente si sentono fra gente CAI e, sul terreno, si comportano secondo canoni che è rarissimo (per non dire impossibile) vedere in gente CAI e durante uscite ufficiali CAI.
     
    Purtroppo i più deleteri fra i cannibali di oggi sono quelli extra CAI. In ambito CAI infatti se uno rimane cannibali, difficilmente è tipo “atletico” che te lo ritrovi anche sulle vette. Parallelamente chi, in ambito CAI, ha potenzialità tecniche e atletiche per crescere, cresce sì, ma normalmente nel “solco” del CAI: difficile che costui resti un cannibale di testa. Infatti nel mondo CAI c’è un modello che incanala la crescita individuale.
     
    Invece fuori dal CAI non ci sono canali che convogliano la crescita individuale e anzi i modelli di riferimento comportamentale sono quelli dei social, in genere molto “cannibaleschi”. Per cui la gente cresce sì tecnicamente e atleticamente (per questo te li ritrovi “in alto”, dove, decenni fa, gli allora cannibali “vecchio stile” non arrivavano), ma non evolvono di testa, che resta sempre la testa da cannibale.

  31. @ Grazia
    Sono perfettamente d’accordo con te.
    Che poi l’esperienza che ognuno vive non e’ misurata solo dal tragitto percorso , dalle cose viste e dalle difficolta’ superate , ma soprattutto dalla capacita’ di ognuno di noi di provare emozioni , anche senza acquistare e un prodotto confezionato che te le dovrebbe dare.
    Sull’alternativa normare/rieducare non so : ultimamente trovo difficile relazionarmi con tante persone , e convincerle addirittura mi sembra una missione impossibile , anche per cose banali , come raccogliere i rifiuti anziche’ buttarli per terra.
     
     

  32. D’accordo con Matteo e quindi CAIannibali è la nuova definizione per quelli forse di…domani!
    Giuste anche le note di EXPO,oggi l’abbuffata manca spesso di una ricetta di base e il pentolone cannibalesco è servito dal social market mountain …beati i tuoi ricordi, da tenere stretti!
     

  33. Expo,
    la questione è che sono in molti a non prendere in considerazione attività più impegnative perché sono convinti di non esserne in grado, e purtroppo l’offerta è pessima, tra jeep, giri in elicottero, salti con l’elastico, ponti tibetani e funivie varie.
    La gente si è dimenticata di far parte del mondo animale e d’avere le qualità necessarie a camminare per qualche ora.
     
    Io non penso, dunque, che la soluzione sia limitare come propone da anni Crovella, ma di offrire altre proposte rieducando il popolo.  
    Naturalmente non mi riferisco ai bagni in foresta o a quello che viene definito “turismo esperienziale” (come se la vita non comportasse esperienze continue!, ma di un ritorno verso natura in tutti i campi, non solo per la frequentazione delle montagne. 

  34. Non so se ho capito bene chi sono i “cannibali” , ma credo che definirli passi attraverso diversi distinguo in cui nemmeno noi siamo senza colpa.La racconto banalmente , ditemi se manco il punto : ho iniziato a frequentare le montagne con mio nonno che era un cacciatore di camosci e i giri erano su monti sotto i 2000 metri , ravanages giornalieri quasi mai su sentiero.Oltre che vivere l’esperienza nuova di un ambiente selvatico c’era una separazione che si intuiva in sottofondo fra “quelli buoni e veri” che amavano girovagare per monti , e quelli un po’ più finti che stavano altrove.Poi qualche gita più in alto con vari gruppi e oratori , qualche ferratina , e una certa ammirazione / invidia per chi sapeva andare oltre.Poi qualche corso , molte esperienze , e la maturazione di un alpinismo “medio”.Non sono un appassionato degli avvicinamenti spacca ginocchia , ma intuisco che fanno parte del gioco , che senza di loro il gioco non sarebbe lo stesso.Esattamente come il limitarsi a stare sui percorsi spittati se non si è in grado di andare oltre , anzichè pretendere che si spitti ogni roccia.Ecco , se dovessi descrivere un “cannibale” con parole mie , direi che è qualcuno che non accetta i disagi e le frustrazioni che la pratica alpinistica ti richiede.Si può combattere la cannibalizzazione della montagna ?Secondo me solo a livello normativo : se non si fissano dei paletti chiari è difficile venirne a capo.
     

  35. Anch’io concordo pienamente con Matteo. In altre parole, ci siamo tirati la zappa sui piedi da soli !!

  36. Beh, l’unico commento che mi viene è che il CAI è parte del problema e motore primigenio della “cannibalizzazione” della montagna.
    “Cannibalizzazione” che, ben avviata dal CAI, ormai è passata nelle mani dello sfruttamento “estrattivo” del turismo e del capitalismo, cui ormai è parte funzionale.
    Il CAI come promotore e influencer delle attività in montagna è ormai passato decisamente in secondo piano, così come è passato decisamente in secondo piano l’andare in montagna come Quintino Sella e Giusto Gervasutti.
    E infatti le vie e le pareti sono decisamente meno affollate che negli anni ’80 anche se la colonizzazione, che parte dal basso e innalza sempre di più il fondo valle, le ha rese ben più vicine e comode da raggiungere.
     
    In definitiva direi che i “cannibali” non sono una malattia, sono un sintomo e se non si cura la malattia non faranno che aumentare e diventare più pervasivi.

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