Fresco di stampa è il nuovo libro Contro i Pirañas di Salvatore Bragantini, Baldini&Castoldi, 2018, Milano. Per la grande attualità del tema, Totem&Tabù ha deciso di presentare quest’opera servendosi dell’introduzione dell’autore, intitolata Gli azionisti sono davvero i padroni dell’impresa?
Bragantini presenterà al pubblico questo suo saggio mercoledì 27 febbraio 2019 alle 18,30 presso la libreria Feltrinelli in Piazza Duomo, Milano.
Contro i Pirañas
(Come difendere le imprese da soci e manager troppo voraci)
di Salvatore Bragantini
Spessore 4, Impegno 2, Disimpegno 3
Questo libro vorrebbe contribuire a combattere la dominante teoria secondo cui gli azionisti sono i padroni di un’impresa e possono farne quel che vogliono; l’impresa, in questa prospettiva, esisterebbe solo per «creare valore per l’azionista». La tesi di fondo del libro è tutt’altra: gli azionisti non sono i «padroni» dell’impresa. Al verificarsi di determinate circostanze essa non ne ha proprio, di padroni, ma è, invece, un soggetto autonomo, sul quale gli azionisti, come in verità molti altri soggetti, vantano certi precisi diritti.
L’impresa retta in forma di società di capitali è il motore del sistema economico del mondo odierno. I modi della sua conduzione hanno subito nel tempo una serie di importanti variazioni, che nell’ultimo trentennio si sono dimostrate particolarmente radicali. In tale periodo, da elemento chiave dello sviluppo economico e sociale, e come tale soggetto dotato di interessi autonomi, l’impresa è divenuta strumento essenzialmente destinato a soddisfare le aspettative di guadagno dei suoi azionisti.
Oggi è convinzione generale che l’impresa debba «creare valore per gli azionisti». Dal presupposto che questo sia realmente il fine dell’impresa discende la necessità per gli azionisti di assicurarsi, forse più che le migliori performance, la connivenza di chi la gestisce. Da questa tendenza è derivata un’escalation che ha portato a livelli scandalosi di retribuzioni del top management e ad ogni tipo di appropriazione indebita di entrambi, manager ed azionisti, ai danni dell’impresa, teoricamente affidata alle loro cure.
Tali evoluzioni, prodottesi nel «Paese Guida» del capitalismo mondiale (come l’Urss lo fu del comunismo), in precedenza portatore di una visione ampia del ruolo dell’economia di mercato nello sviluppo sociale, hanno prodotto la nascita di una «nuova classe» di ricchissimi, ormai catafratta nella sua altezzosa estraneità e quasi del tutto avulsa dalla vita delle persone «normali». Questa nutrita élite ha prima fortuitamente agganciato la spinta individualistica legata ai sommovimenti della fine degli anni Sessanta. In seguito, ha instancabilmente promosso mutamenti politici e sociali che in circa 30 anni hanno portato alla sparizione della progressività delle imposte; la struttura dell’imposizione fiscale è divenuta, al contrario, fortemente regressiva. Ciò ha comportato la costante erosione di quello Stato sociale che ha lungamente sorretto il tenore di vita dei cittadini, soprattutto delle classi medie, sul cui consenso si reggono, come è noto, le democrazie liberali. Questa «nuova classe», questa Aristocrazia del denaro, ha influenzato il dibattito pubblico e politico in funzione dei propri interessi. Non stupisce allora che la teoria per cui scopo dell’impresa è la «creazione di valore per l’azionista» sia da tempo dominante, negli Usa come in molti altri Paesi.
Anche in Italia l’azionista è visto come padrone di quel creatore di patrimonio che sarebbe l’impresa. Da noi questa visione subisce un’ulteriore torsione: gli azionisti non sono tutti uguali. Alcuni, quelli che la controllano, sono, come i maiali di Orwell, «più uguali degli altri». I quali altri sono azionisti di seconda categoria, quasi degli obbligazionisti, chiamati a subire perdite se le cose van male, e ad essere al più rimborsati, se invece vanno bene.
Sia la public company degli Usa, sia l’impresa familiare quotata nostrana, dovrebbero solo arricchire i soci, loro padroni. Nel seguito del libro segnalerò le storture della teoria del valore per l’azionista, sia sotto il cielo americano, sia sotto il nostro. Ambedue sono eccessive, ambedue fortemente nocive allo sviluppo civile ed economico. Ricordare che l’organizzazione sociale ed economica serve alla vita delle persone, e non viceversa, sarà certo banale, ma resta vero.
Quando imperava in quasi tutto il mondo allora conosciuto, Roma passò, in 90 anni, da Caio Giulio Cesare a Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico; non c’è da stupirsi se, in un’epoca di ben più veloci mutamenti, in 90 anni gli Usa sono passati da un Franklin D. Roosevelt a un Donald J. Trump. La Storia si evolve, non certo in quella progressione lineare verso il meglio che pareva naturale immaginarsi dopo le tragedie della seconda guerra mondiale.
A tale evoluzione storica hanno concorso tanti fattori che non è possibile riassumere in queste pagine. Penso però di poter affermare un fatto che mi pare assodato: abbiamo tutti ampiamente trascurato il peso rivestito, in tali eventi, dalla mutazione genetica subita dal modello economico su cui sono improntate le nostre società sviluppate. Le quali sono prima impercettibilmente, poi sempre più chiaramente, divenute un’altra cosa. Se quella di trent’anni fa era un’economia di mercato, come definire il nuovo sistema che sempre più chiaramente si profila? Magari plutocrazia plebiscitaria, big business economy, oligopolismo, o cos’altro ancora?
Come miliardi di minuscoli cristalli di neve, scivolando sul pendio, creano alla fine una valanga che distrugge tutto quel che trova sulla sua strada, così queste mutazioni, prodottesi per decenni in un grandissimo numero di imprese nel mondo, hanno concorso in modo decisivo al cambiamento delle nostre economie.
Di nuovo, affrontare l’Himalaya di questo enorme tema non rientra né nelle ambizioni, né nella possibilità di questo piccolo tentativo. Smontare alcune delle tesi che hanno sostenuto e costruito questa metamorfosi potrebbe però aiutarci a risalire la corrente che oggi minacciosamente trascina verso il basso le nostre democrazie liberali. Il punto chiave su cui qui si vuol attirare l’attenzione è dunque questo: come e in funzione di quali interessi è – o dovrebbe essere – gestita l’impresa moderna?
Scopo di questo mio pamphlet è di cercare di confutare opinioni radicate in decenni di discussioni, compito già di per sé proibitivo. Ma sarebbe presuntuoso da parte mia offrire una «ricetta» su come rendere il governo dell’impresa consono alla sua vera finalità. Ricetta che tra l’altro nessuno può dimostrare di avere con infallibile efficacia. Mi sforzerò di approfondire la situazione attuale e le sue storture, e nel farlo, seguendo le tracce di tante persone che han cercato di combattere una concezione errata dell’impresa – alcune delle quali nel testo citerò – cercherò di sollevare dubbi, dove prima c’erano certezze.
Sento a questo punto il bisogno di fare una premessa generale, ad uso dei miei ventiquattro lettori (son già troppi, dato che il Manzoni ne prevedeva venticinque…). In questo libro tratto temi schiettamente giuridici e altri che comunque hanno forte attinenza con il diritto; eppure io non sono un giurista, e nemmeno laureato in legge. Ho bensì sempre nutrito per i temi del diritto d’impresa un mio personale interesse, direi quasi una passione, giacché essi mi paiono essenziali nelle nostre società odierne.
Questo libro deriva anche da alcune diversificate esperienze professionali, dalle quali ho attinto la conoscenza del concreto funzionamento nella realtà delle imprese; esso non ambisce certo a dire alcunché di significativo sul piano scientifico, ma solo a risvegliare l’interesse su un tema troppo trascurato dal dibattito pubblico, forse proprio perché solitamente oggetto di ponderosi trattati. Non è un libro per specialisti, i quali faranno bene a non perdere il proprio tempo leggendo una descrizione, necessariamente approssimativa, di cose e circostanze che conoscono benissimo (e meglio di me). Esso è rivolto invece a chi gestisce le imprese e si scontra ogni giorno con questi temi: a quelle persone che ogni giorno si mettono ai fornelli della cucina delle nostre aziende. Esse potranno trovare qui anche considerazioni tratte dalle esperienze di altri Paesi.
Il libro aspira piuttosto ad essere un pamphlet in difesa dell’impresa, vero motore dello sviluppo occidentale, ora distratta dalle sue finalità, spesso asservita ad altre. Parlerò qui molto dell’impresa, senza nominare quasi mai la veste legale che essa abitualmente indossa, cioè in genere la Società di capitali (solitamente per Azioni, raramente a Responsabilità Limitata). La legge prevede per la società il fine di lucro; scopo dell’impresa è invece la produzione e lo scambio di beni e servizi. Si tratta, evidentemente, di una distinzione di grande rilievo nella riflessione giuridica ma che non mi pare altrettanto rilevante dall’angolazione di questo testo, dove parlerò soprattutto dell’impresa.
Ben altri si sono occupati del tema prima di me, e non potrei, lungi dal dire cose nuove, nemmeno riassumere una discussione vastissima. Non vorrei mai unirmi alla schiera di quanti ormai sbeffeggiano la competenza, nella convinzione che aver letto qualche pagina Internet su un tema del quale ci si è improvvisamente incapricciati, magari perché divenuto di moda, ci autorizzi a impartire lezioni al colto e all’inclita.
Fra le tante ragioni per cui il tema dell’impresa e del suo governo mi interessa da tempo c’è anche un lontano ricordo personale, minimo sì, però a me caro. Questo argomento è entrato nella mia vita presto, in verità troppo presto. Credo fosse il 1956 quando il mio nonno materno, Lorenzo Mossa, allora ordinario di Diritto Commerciale all’Università di Pisa, mi invitò qualche giorno a casa sua, portandomi anche ad assistere a una sua lezione. Non avevo allora neanche 13 anni, alla mia prima uscita dalla sorveglianza diretta dei miei genitori. Io non lo sapevo, ma il «nonno Renzo», come lo chiamavamo, era un autorevole studioso, attento all’impostazione tedesca del diritto commerciale, che ispirava la teoria «istituzionalistica» dell’impresa. Avrei tante cose da raccontare su di lui, ma molte esulano dal tema del libro e potrei sembrare desideroso di adornarmi di piume che non sono le mie. Qui dirò solo che era un uomo generoso e coraggioso, anticonformista, di «idee avanzate», amante del paradosso.
Non badava alle convenzioni e una sera mi portò con sé a una delle sue frequenti uscite con gli studenti; di quella cena, col primo boccale di birra della mia vita, ho ancora un vivo ricordo. La mattina dopo tenne una lezione proprio sull’impresa; alla fine il nonno, dopo avermi chiamato davanti ai suoi studenti «il mio illustre collega» mi chiese cosa pensassi della lezione. Gli dissi con impudenza che m’era piaciuta, però non avevo capito cosa fosse l’impresa. Si sarà certo pentito della sua scherzosa frase, ma pur nella mia incoscienza, ricordo ancora di aver provato un grande imbarazzo per la risposta che, almeno, era sincera.
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noooo…FUFFARO anche qui……..
Ma la maggioranza delle persone resterà sempre così allocca da fare quello che le dicono gli altri?
Nessuno si chiede mai perché deve guadagnare-consumare-apparire?
Per vivere bene non c’è bisogno di fare tutto quello che dicono di fare.
“Ricordare che l’organizzazione sociale ed economica serve alla vita delle persone, e non viceversa, sarà certo banale, ma resta vero.”
Questa è una bella frase, ma andrebbe in primis approfondita, specificando come minimo cosa significano i termini usati. Intendo organizzazione sociale, economia e persone, perché dalle definizioni date dipenderanno le azioni seguenti. Voglio dire, la società feudale (o quella schiavista) serviva perfettamente alla vita delle persone, visto che servi della gleba (o schiavi) non erano persone.
In secundis bisognerebbe trarne le dovute conseguenze da quella frase.
“Che l’impresa debba «creare valore per gli azionisti»” non è convinzione generale, è la base stessa del capitalismo: se non rende non lo faccio.
Se questa posizione non ci pare corretta occorre semplicemente difendersene, non appellarsi alla buona volontà dei capitalisti (e attenzione che nel mostro piccolo ognuno di noi è un capitalista).
Io ritengo che una società al fondo sia semplicemente un’alleanza per difendersi dagli abusi altrui e acquisire un vantaggio per la sopravvivenza. Storicamente, qualunque società può essere letta in questo modo: dalle bande di cacciatori-raccoglitori, alle oligarchie guerriere contro i clan famigliari, per finire con gli stati nazionali contro le aristocrazie.
Questo è il momento di progettare una società per difendersi dall’eccesso di potere (e quindi dal suo abuso) generato dalla patologica tendenza di -alcuni- umani al sovra-accumulo di beni o potere, che è la base del capitalismo.
il Signor Monti del resto fa parte dell’ ELITE ed ha la pretesa divina di governare la plebe.
Anche per i suoi nipotini prevede una vita senza casa di proprietà? Magari li farà abitare su delle carrozze come fanno i popoli nomadi e girovagare da un campo all’altro, così potranno più facilmente inseguire dove il lavoro c’è.
Ma il Signor Monti ha nulla di sua proprietà?
Nemmeno la casa?
Uno spunto per rendere visibile l’invisibile.
«Ikea lancia il business dei mobili in affitto. Parte l’esperimento in Svizzera. Così apprendiamo da SkyTg24: “I mobili di Ikea potrebbero presto essere affittati. Il colosso svedese dell’arredamento, secondo il Financial Times, sta cercando infatti di modificare il proprio modello di business aprendo al mercato del noleggio. La nuova iniziativa, sostiene il quotidiano economico britannico, verrà sperimentata in Svizzera per poi essere riproposta in altri Paesi”. Eccoci giunti al cospetto di prove tecniche in vista dell’ulteriore sradicamento dell’umano. Il capitalismo no border impone ovunque la libera circolazione delle merci e delle persone mercificate. La presenta, trionfalmente, come una chance: ma tale è sempre e solo, ovviamente, per la classe dominante degli apolidi del capitale liquido-finanziario. La libera circolazione si traduce puntualmente, per gli sconfitti della mondializzazione, in coazione allo sradicamento, alla deterritorializzazione e all’erranza diasporica planetaria. Il “tu puoi” del sistema liberal-libertario del totalitarismo del mercato si traduce sempre in un impietoso “tu devi” per le classi martoriate dal capitale. “Puoi muoverti senza confini”, dice con stile glamour la narrativa pubblicitaria del capitale. “Sei obbligato a muoverti”, dice segretamente la voce del padronato cosmopolitico alla classe lavoratrice, ridotta al rango di un precariato esistenziale votato alla migrazione permanente. Il capitale e i poliorceti del globalismo hanno già da tempo messo sotto assedio l’oikos, la fissa dimora, base di ogni stabilità per l’essere umano. Così disse espressamente l’euroinomane Mario Monti la mattina del 28 luglio 2015, nel corso della trasmissione Agorà in onda su RaiTre: «Quando c’è la casa di proprietà, c’è meno mobilità nel Paese, il mercato del lavoro è meno mobile […] e se noi vogliamo continuare ad avere una scarsa mobilità e giovani che vivono a lungo con i genitori e le caratteristiche che fanno dell’Italia un Paese poco competitivo, allora andiamo avanti a dare un trattamento privilegiato sulla casa». Più chiaro di così! Vogliono toglierci la casa di proprietà per renderci ancora più flessibili e disponibili per le dinamiche del capitalismo deeticizzato. Ed ecco che Ikea si porta avanti nel lavoro: mobili in affitto, per schiavi del capitale che mai potranno stabilmente radicarsi in un territorio e vivere in una “fissa dimora”. Ecco le grandi chances del mondialismo, che tali sono sempre per i dominanti: per i dominati sono sciagure mediante le quali si mondializza il non-senso dell’economia del libero mercato. Che tutti ci vuole condannati alla mobilità perpetua, con vite da freelance e – grazie a Ikea – con mobili in affitto.»
Diego Fusaro
Quando il capitalismo viene vituperato e condannato a me vengono sempre in mente le fondazioni che in USA spesso nascono alla terza generazione dei capitalisti, ora anche prima.
Magari è la secolare abitudine a condannare quelli bravi per premiare anche gli incapaci.
Ma mi sembra che da un pò si stia esagerando nella condanna.
Per immaginare un comunismo utopico in grado di compiere la sua missione naturale, cioè una società luminosa è necessario affidare agli uomini il credito della saggezza.
Ugualmente sarebbe per la monarchia.
Anche l’anarchia non necessiterebbe di altro.
Solo la democrazia, tanto per chiudere il cerchio di questi preambolo, non si affida alla rettitudine del bene comune, ma alla maggioranza.
Tutte queste utopie sono fallite.
Come può il capitalismo, che non richiede che saggezza privata – fatta spesso privilegio, e/o legittima furbizia personale – compiere ció che tutti hanno fallito?
Nessun aggiustamento correttivo puó esimerlo dal virus del profitto uber alles.
Come il comunismo è fallito. Esso si mantiene per opera di quelle oligarchie ormai forti più degli stati, fatte di uomini furbi e individualisticamete molto saggi.
Complimenti Salvatore.
Peró non ci saró.
sorry