In Senato l’allarme degli esperti già dal 2019. Riportiamo gli interventi dell’Indagine conoscitiva sull’impatto del digitale sugli studenti (Capitolo 5) del prof. Raffaele Mantegazza, pedagogista e docente di Scienze pedagogiche all’Università Milano-Bicocca e della prof.ssa Mariangela Treglia, psicoterapeuta e ricercatrice presso l’Istituto di terapia cognitiva interpersonale.
Dematerializzare la realtà, dimenticare l’esperienza
di Sonia Milone
(pubblicato su comedonchisciotte.org il 30 ottobre 2023)
Adottato con decreto del Ministro dell’Istruzione n. 161 del 14 giugno 2022 – durante il Governo Draghi – e finanziato dal PNRR come parte degli obiettivi fissati per l’ottenimento dei fondi (Target UE M4C1-19), il ‘Piano Scuola 4.0’ rappresenta il definitivo tassello per la transizione digitale di tutto il sistema scolastico italiano entro il 2025.
Lo scopo dichiarato è dotare la didattica dell’uso massivo di tecnologie informatiche, allo scopo di trasformare le aule “in ambienti innovativi di apprendimento” e realizzare “laboratori per le professioni digitali del futuro” prevedendo persino lezioni nel Metaverso, denominato orwellianamente Eduverso. Tutto in perfetta conformità con quanto stabilito dalla Commissione europea con il ‘Piano d’azione per l’istruzione digitale’ a partire dal 2018, ribadito e rafforzato nel 2021 in piena pandemia.
Per comprendere l’evoluzione della trasformazione digitale imposta dalla Commissione in Europa a partire dal 2010, vi invitiamo a scaricare il PDF allegato.
In questa sede vogliamo invece incentrarci sui pericoli che la digitalizzazione della didattica comporta per i più piccoli, i nostri figli, fratelli, nipoti; soggetti considerati fragili, poiché dalla mente plasmabile, che più di tutti subiranno questa trasformazione, inconsapevoli dei danni che subiranno.
Il ‘Piano Scuola 4.0’ è infatti stato adottato nonostante non esista nemmeno uno studio scientifico in grado di dimostrare la migliore efficacia della nuova didattica rispetto alla metodologia tradizionale, e nonostante – fatto ancora più grave – numerose ricerche ne abbiano evidenziato i danneggiamenti dei processi di apprendimento e della salute degli studenti.
E quando tutto ciò, tra qualche anno, sarà palese – proprio come sta accadendo in questo momento in Svezia – i nostri rappresentanti non potranno giustificarsi, poiché proprio la 7ª Commissione permanente del Senato italiano organizzò nel 2019 un’“indagine conoscitiva sull’impatto del digitale sugli studenti, con particolare riferimento ai processi di apprendimento”, invitando alcuni dei più autorevoli esperti del settore che lanciarono un vero e proprio grido di allarme.
La Redazione ha quindi deciso di pubblicare i resoconti dell’indagine, in vari appuntamenti (1 ogni settimana) relativi alle rispettive sedute, svoltesi dal 11 giugno 2019 al 2 dicembre 2020.
Qui l’indagine integrale:
https://www.senato.it/Leg18/3545?indagine=16
Resoconto n° 1 – 11 giugno 2019 – Audizione del prof. Manfred Spitzer (CAP. 1)
Resoconto n° 2 – 2 ottobre 2019 – Audizione del prof. Lamberto Maffei (CAP. 2)
Resoconto n° 3 – 24 ottobre 2019 – Audizione del prof. Andrea Marino (CAP. 3)
Resoconto n° 4 – 27 novembre 2019 – Audizione della prof.sa Alessandra Venturelli (CAP. 4)
Resoconto n° 5 – 14 gennaio 2020 – Audizione del professor Raffaele Mantegazza, pedagogista e docente di Scienze pedagogiche presso l’Università Milano-Bicocca e della professoressa Mariangela Treglia, psicoterapeuta e ricercatrice presso l’IIstituto di terapia cognitiva interpersonale.
Video della seduta: https://webtv.senato.it/Leg18/webtv_comm?video_evento=58801
Intervento di Raffaele Mantegazza
“Signor Presidente, onorevoli senatori, vi ringrazio molto per questo invito a condividere alcune idee su un tema che ritengo strategico e fondamentale nelle pratiche rieducative.
Dirò subito da quale punto di vista parlo: essendo un pedagogista, mi occupo di formazione e quindi di come le pratiche educative cambino le persone creando nuovi soggetti, intesi in senso ampio, sia come corpo sia come mente; è fondamentale tenere sempre presente questa unitarietà del soggetto e della persona, soprattutto perché parliamo di bambini, ragazzi e persone in età evolutiva.
Quando si parla di nuove tecnologie, di digitale, dei temi di cui parliamo oggi, dobbiamo pensare qual è il tipo umano di persona, di uomo e di donna, che viene formato da esse, ma non attraverso di esse, perché la cosa che temo maggiormente è che stiano diventando fini a loro stesse, senso etimologico della frase. Dovrebbero essere uno strumento, e faccio un esempio: la scimmia usa un bastone per attrarre il ramo di un albero del quale vuole mangiare un frutto; dopo aver mangiato, butta via il bastone, perché non le serve più. In «2001: Odissea nello spazio» si rende conto che può servirle come arma, ma è uno strumento: non è interessata ad esso, ma al frutto, oppure a difendersi da una tigre.
Quanti di noi, io per primo, accendono il computer per scrivere una email, vanno su Facebook e guardano un sito e dopo un’ora lo spengono, per poi rendersi conto di non aver scritto l’email che avevano in mente; oppure prendono lo smartphone per guardare l’ora ma poi lo usano per mezz’ora, per poi chiedersi che ore sono? Sono cose a cui già noi adulti dovremmo stare attenti: per un bambino o un ragazzo, dal mio punto di vista, sono fortemente diseducative, perché non mostrano la dimensione strumentale della tecnologia ma la fanno diventare quasi fine a se stessa.
Molto spesso, dato che le nuove tecnologie sono disponibili, si propone di usarle anche a scuola. Ebbene, a volte, come battuta, dico che se è per questo lo sono anche le bombe atomiche.
Faccio un esempio meno catastrofico: pensiamo all’automobile. Ho un figlio di 13 anni che saprebbe tranquillamente imparare a usarla in un pomeriggio, ma non gliela faccio usare fin quando non avrà 18 anni e avrà la patente, perché il problema non sta soltanto nel saper usare una tecnologia o in una competenza tecnica, ma nell’avere una dimensione di responsabilità, capacità critica e rispetto delle regole del codice della strada che a 13 anni non si ha.
In sostanza, temo che si diano per scontate le nuove tecnologie, senza utilizzarle con una coscienza pedagogica forte che le renda davvero strumenti. La tesi che enuncio e che cercherò di dimostrare è che devono essere fatte usare ai bambini e ai ragazzi sempre dietro supervisione di un adulto e per brevissimi periodi di tempo, che naturalmente aumentano con la loro crescita; per essere molto chiari, non darei uno smartphone in mano ad un bambino al di sotto dei 13 anni e comunque, sempre a mio parere, in misura significativamente inferiore rispetto agli altri strumenti di apprendimento o di divertimento.
Convinto come sono che debbano occupare una fetta di tempo significativamente inferiore ad altri modi di imparare, proverò a motivare questa mia posizione, che non è aprioristica, perché a mia volta uso questi strumenti e li trovo utili in alcune situazioni.
Parto da una parola molto usata nelle pratiche educative, anche nei documenti ufficiali: «dematerializzazione» (o, a volte, «defisicizzazione»). Fa paura il fatto che venga usata quasi esclusivamente in senso positivo: se vuol dire produrre meno carta e fare più documenti online, va benissimo; parto però sempre dalla seguente frase di San Tommaso: «non c’è niente nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi».
E in tutti gli organi di senso: non si apprende se non si annusa, non si gusta, non si tocca.
Oggi mi pare, invece, che tutto sia ridotto alla vista, ad uno solo dei cinque o sei organi di senso (se pensiamo alla sinestesia). Apprendere vuol dire imparare dai gesti, delicati, faticosi, forti o decisi che siano, e lo si fa solo attraverso il corpo: per fare un esempio concreto, pensate che i bambini della scuola primaria, per imparare a usare un gessetto per scrivere alla lavagna, devono apprendere ad essere abbastanza decisi perché il tratto sia visibile, ma non troppo rude, altrimenti si rompe; se entra il sole dalla finestra, bisogna chiedere alla maestra di chiuderla, altrimenti sulla lavagna c’è un riflesso che non la rende ben visibile.
Tutto questo viene eliminato dagli strumenti di videoscrittura: mi spaventa che le LIM (Lavagne Interattive Multimediali), quando entrano a scuola, non siano compatibili con quelle da gesso, la cui polvere rischia di rovinarle. Lo trovo sconcertante: inventiamo filtri che permettano la compresenza di due diversi strumenti.
Non sto dicendo che un bambino non debba imparare ad usare un programma di videoscrittura, ma che eliminando uno dei due metodi di scrittura perde competenze. Pensate a quante poche persone scrivono in corsivo, perché tanti lo fanno solo in stampatello (che poi è già tanto oggi se si scrive a mano): il corsivo è una forma di espressione – difficile, che richiede una capacità – e di apprendimento che rischia di essere persa. Molto spesso si definisce il digitale come oralità secondaria (secondo la teoria di un grande autore, Walter J. Ong, di molti anni fa): mi domando dove siano l’oralità e la capacità di parlare e gestire il proprio corpo quando si parla.
Ho lavorato per tanti anni nel corso di laurea in scienze della formazione primaria, che prepara futuri insegnanti di scuola primaria o dell’infanzia: siamo arrivati al punto che per discutere le tesi di laurea gli studenti e le studentesse proiettano slide e ne leggono il contenuto; questa è la «discussione», ma si tratta di un esame abilitante, che rende maestri elementari. Mi domando – come fanno, per fortuna, alcuni colleghi – se possiamo spegnere il computer e chiedere ai candidati di parlare, anche con il corpo, dimostrando come farebbero con i bambini o i ragazzi in classe.
Questo tema del corpo si vede anche nelle cose concrete. Ho insegnato per molti anni nella formazione professionale, nella quale, come sapete, gli allievi a volte hanno situazioni familiari complesse, quindi per noi era fondamentale incontrare i genitori, che purtroppo a volte non si vedevano. L’unico momento in cui – con una forma, se vogliamo, di «ricatto» – dovevano venire era in occasione del ritiro delle pagelle (perché non le avremmo consegnate se non al padre, alla madre o al tutore): adesso ci sono quelle online, che sono molto comode, ma tolgono questa possibilità concreta d’incontro con il genitore; guardando un genitore, infatti, si capiscono tante cose dei figli, anche quanto agli atteggiamenti.
Pensiamo a partire dai ragazzi: vi è una difficoltà a formare il proprio corpo, perché queste tecnologie ne fanno a meno oppure lo mercificano, riducendolo a pornografia, esibizione o impudicizia.
Pensate a un bambino o a un ragazzino di 12 anni, alto 140 centimetri, sovrappeso, con i brufoli: se passa tutto il giorno online in un social non ha a che fare con il proprio corpo, non impara che il peso si può perdere, l’altezza non conta nulla, perché essere alti non vuol dire essere belli, e i brufoli magari passeranno uscendo dall’adolescenza.
Già per ognuno di noi accettare fino in fondo il proprio corpo a volte è difficile, ma pensiamo quanto lo è per un ragazzino o un bambino in età evolutiva.
La cosa interessante è che i ragazzi poi ci restituiscono il tema del corpo: pensate all’aumento dei disturbi alimentari negli adolescenti (anoressia, bulimia) o anche ai piercing (quelli estremi sulla lingua, sui genitali) e pensate anche alle forme di suicidio di adolescenti e ragazzi nei quali il corpo viene messo al centro della scena in modo tragico.
Ricordo qualche anno fa il caso di un ragazzo che frequentava il quarto anno della scuola secondaria superiore a Bergamo che si uccise il primo giorno di scuola buttandosi dall’ultimo piano dell’edificio scolastico e andando a cadere proprio nel cortile della scuola, con un messaggio violentissimo, quasi a voler dire, come se fosse l’unico modo: «Guardate il mio corpo». Non sto dicendo che sia colpa della scuola, intendiamoci: un suicidio è sempre una cosa misteriosa. Ma i ragazzi quasi ci chiedono di toccare e di formare i loro corpi, mentre noi rispondiamo sempre di più con la realtà virtuale, con un distanziamento dal corpo.
Questo tema del distanziamento ha a che fare con la questione dell’esperienza, che è molto legata a quella del corpo. Apprendere vuol dire fare delle esperienze, che sono per loro natura momentanee e irripetibili: si possono conservare nella memoria o nella documentazione, ma l’esperienza viene persa nel momento stesso in cui la si fa.
Due anni fa sono stato a Parigi, dove ho incontrato una classe di ragazzini in visita alla Tour Eiffel: ebbene, una volta scesi dal pullman, quei ragazzi si sono messi tutti a filmare la Tour Eiffel con lo smartphone, dopodiché sono risaliti sul pullman. Potevano benissimo stare a casa e scaricarsi un video da YouTube.
Che esperienza hanno fatto di quel momento irripetibile? Avrei voluto dire a quei ragazzi: «Andate a toccare la Tour Eiffel! Piuttosto arrampicatevi sopra e fatevi arrestare».
Naturalmente la mia è una battuta, ma in questo modo avrebbero fatto un’esperienza. Perché hanno fatto quei video che tanto non riguarderanno mai? Li metteranno su YouTube e nessuno li guarderà.
Si potrebbe dire che c’è il rischio di dimenticare l’esperienza; d’accordo, ma questa è la vita. La vita è fare una serie di esperienze che si rischia di dimenticare, perché sono immediate. In questo senso è centrale, secondo me, il tema del tempo reale. Oggi possiamo conoscere in un secondo la temperatura di Sydney: ma cosa ci importa di sapere la temperatura di Sydney? Se dobbiamo andare a Sydney impieghiamo comunque 20 ore e sul giornale ci sono le previsioni per il giorno dopo.
Pensate però a che cosa vuol dire questo. Il tempo è legato all’amore. Se io odio una persona e voglio farle del male, non devo pensare a come fare: ho una pistola e le sparo, non devo conoscerla per ucciderla. Se invece amo una persona e voglio fare un gesto d’amore, devo tenere conto di che cosa ama, di che cosa apprezza: se l’abbraccio magari non vuole sentirsi abbracciata, oppure se le faccio un regalo magari non è un regalo adatto.
Come diceva Rousseau, apprendimento è proprio «perdita di tempo»: apprendere vuol dire prendere una seconda volta. Un filosofo di nome Bloch parlava del gesto del ruotare: si prende una cosa e la si ruota per portarsela davanti, ma ci vuole tempo, perché non basta prenderla, ma occorre trovare il proprio punto di vista. Pensate allora a quanto l’enfasi sul tempo immediato, sul tempo reale e sull’imparare immediatamente faccia perdere tutta la dimensione dell’attesa e del dedicare tempo e amore alle cose da imparare. C’è da riflettere su quanto abbiamo fretta, su quanto i processi di apprendimento diventano sempre più rapidi e sempre meno incisivi: quanto poco rimane della Tour Eiffel se la si è vista soltanto attraverso uno schermo? Per la verità, rimanendo a casa, si potrebbe vedere sicuramente meglio, magari attraverso un filmato con una definizione migliore, ma non è quello il motivo per il quale l’insegnante ha portato i ragazzi a Parigi. Credo che la dimensione del tempo, dunque, debba essere centrale rispetto al dare alternative ai ragazzi.
Non penso ovviamente che debbano essere eliminate le nuove tecnologie: non è possibile e non è nemmeno auspicabile. Occorre però capire che quello è un modo di imparare che, dal mio punto di vista, è rafforzativo rispetto a competenze che si devono già avere. D’altro canto questo rientra nell’evoluzione umana, sia filogenetica che ontogenetica; noi siamo partiti dall’oralità, scoprendo poi la scrittura e la stampa, per passare ad inventare le forme di oralità secondaria (Internet). Credo che la lentezza dell’evoluzione umana si ripeta anche nel bambino: il bambino comincia a camminare a quattro zampe, poi conquista il linguaggio e la posizione eretta.
Penso che prima debba sentirsi raccontare le favole, poi ascoltare qualcuno che le legge e successivamente imparare a leggere, a scrivere, arrivando così all’ipertesto e a scoprire il mondo virtuale, che a quel punto sì che è affascinante, perché è lui il dominus, è lui che utilizza lo strumento.
Vorrei invitarvi a riflettere anche a questo riguardo su cose molto concrete. Fare una ricerca utilizzando Google a chi è utile? Uno studioso che sta scrivendo un saggio su Beethoven, al quale magari in un momento sfugge la data della prima pubblicazione della Quinta sinfonia, cerca su Google e la trova e va benissimo: questo studioso di Beethoven, però, Beethoven lo conosce bene, gli manca solo un dato. Per chi si sta alfabetizzando, invece, non è utile, anzi è dannoso utilizzare questi strumenti perché prima di tutto si deve sviluppare una propria competenza e – continuo a dire – un proprio amore, una propria passione per quello che si impara. Se poi si deve trovare la singola data, può servire anche quel tipo di strumento.
Faccio notare a questo proposito che noi abbiamo studenti, anche universitari, che non sanno più usare i vocabolari perché non conoscono più l’ordine alfabetico, nel senso che dopo la quarta o quinta lettera non sanno più mettere in ordine alfabetico le parole perché il vocabolario non si usa più: se bisogna trovare una definizione, si digita immediatamente la parola sul motore di ricerca. Capite bene che quello alfabetico è un ordine mentale, uno dei tanti con i quali noi interpretiamo la realtà.
Io ritengo che non possiamo permetterci di perdere queste competenze che, anzi, potrebbero essere rafforzate, se introducessimo più gradualmente e con più consapevolezza gli strumenti del digitale e le nuove tecnologie.
Dico due ultime cose, per rimanere nei tempi, su due temi molto importanti che potremo riprendere naturalmente nel dibattito. C’è prima di tutto la questione della comunicazione e della capacità di discutere.
Pensiamo a un blog e proviamo a fare un esperimento: entriamo in un blog di sport o di politica e proviamo a leggere i post dal quindicesimo in poi: non riusciremo a capire di che cosa si sta discutendo, perché è pura rissa. Se non andiamo a leggere il titolo, ad esempio «Rigore non dato all’Atalanta contro l’Inter», dopo il quindicesimo post c’è soltanto gente che si insulta, che utilizza argomenti personali e non si discute più del rigore che c’era o non c’era oppure del fatto che c’è stata la VAR (Video Assistant Referee) oppure, a proposito di una certa scelta politica, se è giusta o sbagliata. Non si discute più per amore dell’oggetto. Io, ad esempio, sono uno sportivo e mi piace parlare di sport: il mio sport preferito è la pallacanestro, non è il calcio, ma mi piace parlarne. Ebbene, oggi si comincia a parlare di sport e poi la discussione va su altro e questo è sconcertante rispetto al fatto che la bellezza della discussione sta nel fatto che ci mettiamo insieme, accerchiamo l’oggetto e troviamo una verità che è sempre un po’ in una posizione mediana.
Nel caso di un blog sembra quasi che si tratti di fare più punti possibili e trovare l’insulto migliore. L’insulto online è legato al fatto che Internet permette l’anonimato. Dico sempre anche ai miei studenti che quando ero un ragazzo – non tantissimi anni fa, ma un’epoca fa dal punto di vista tecnologico – una delle cose più vili che si poteva fare era scrivere una lettera anonima:
«Ha scritto una lettera anonima, vigliacco! Non ha avuto il coraggio di firmarsi». Oggi il web lo permette e anzi diventa quasi una forma di democrazia per cui si può esprimere il proprio parere senza firmarsi; e poi parliamo di educazione alla cittadinanza responsabile e di educazione civica.
Educazione civica significa che se si esprime un parere ci si mette la faccia, non si usa un avatar o un nickname ma il proprio nome e cognome e se si è offeso qualcuno e si è detto il falso se ne risponde personalmente.
È il tema della responsabilità e del mettersi in gioco in prima persona.
Infine – magari, ripeto, lo riprenderemo nel dibattito – c’è il tema della morte che a me è molto caro, forse è uno di quelli su cui ho fatto più riflessioni in questi anni. È un tema che facciamo fatica a trattare, per tanti motivi culturali. Qualche giorno fa leggevo un testo molto interessante sul rapporto tra morte e digitale e sono rimasto molto colpito dal fatto che l’autrice dicesse che i dati sensibili rimangono in eterno. Forse sarebbe il caso di dare un senso alle parole: l’universo fra 15 miliardi di anni non ci sarà più; d’accordo, parliamo di 15 miliardi di anni, ma attenzione a dire «per sempre». Ma per sempre cosa? Se c’è Dio, è lui a poter dire «per sempre», anzi, è forse l’unico che può dirlo.
Il tempo circolare del web, che ritorna sempre su se stesso, il tempo del reload e della circolarità continua, cancella, elimina l’idea di morte.
Il libro finisce: Renzo sposa Lucia, l’Innominato e Don Rodrigo muoiono ed è finita lì; poi possiamo inventare una nuova storia o il suo seguito, come faceva Rodari, in cui Renzo e Lucia fanno un figlio, vanno d’accordo, o magari Lucia si pente di non essere andata con l’Innominato; chi lo sa se quel Renzo o quella Lucia erano veramente così interessanti (lei non è che desse tanto l’idea di esserlo), però il racconto dev’essere finito. Non vorrei spoilerare, ma Anna Karenina fa una certa scelta (non dico altro, perché una volta l’ho fatto in un’altra occasione e qualcuno doveva ancora finire di leggere il libro). Il tema della morte, in sostanza, sta nel saper concludere e finire le cose: non ci sono nè il reload nè il loop. Quando hai rotto un vaso, è rotto: i giapponesi colavano l’oro nelle sue fratture per creare un’opera d’arte, ma partivano dall’idea che fosse rotto.
Quando i ragazzi si chiedono «Quante vite ho?» oppure, giocando una partita a Fifa 2020, dicono «Sto perdendo 3 a 0, riazzero tutto», da sportivo, sono angosciato dal fatto che si possa azzerare. Ho perso una partita di pallacanestro all’ultimo secondo con il tiro da metà campo, mi sono sentito morire, per poi accorgermi, dopo aver fatto la doccia, che era solo una partita; mai però mi sarebbe venuto in mente di dire «Fermi tutti, ritorniamo a zero, perché ho perso».
Comprenderete allora quanto questi temi esistenziali debbano essere ripensati, perché nell’ambito delle nuove tecnologie vengono ridefiniti in un modo che personalmente mi preoccupa molto, rispetto al quale possiamo almeno proporre alternative”.
Intervento di Mariangela Treglia
“Signor Presidente, nel ringraziarla per avermi invitata, propongo di iniziare con una riflessione. Sono stata chiamata a parlare dell’impatto della tecnologia sugli studenti e di quanto incide sull’apprendimento: vi mostrerò due video che possono introdurre il mio discorso, nel tentativo di capire insieme la nostra situazione attuale, il mondo in cui ci stiamo muovendo (quello che il sociologo polacco Bauman chiama il mondo tecnoliquido, la società tecnoliquida dell’uomo tecnoliquido) e cosa ci sta portando la tecnologia. Di quale società parliamo?
L’uomo del terzo millennio è affetto dalla sindrome dell’inability to switch off, cioè l’incapacità di staccare la spina.
La società è connessa e l’uomo è perennemente connesso: non siamo più in grado di distinguere il giorno dalla notte, il privato dall’ufficio e il feriale dal festivo; siamo sempre più connessi, e questo sta portando vertiginosamente verso il mondo delle dipendenze, soprattutto comportamentali. Sono una professionista della salute mentale: fino a qualche decennio fa noi studiosi ci occupavamo prevalentemente della dipendenza da sostanze (hashish, marijuana, cocaina o alcol). L’uomo del terzo millennio invece sembra andare incontro ad un altro tipo di dipendenza, non più da sostanza, ma da comportamento.
Quali sono queste nuove forme di dipendenza? Quella da Internet, dal cybersex, dallo shopping online o dal gioco d’azzardo, anche online: l’uomo del terzo millennio si sta affacciando a questo nuovo tipo di patologie, complice l’avvento del mondo digitale.
Ecco perché parliamo dell’uomo tecnoliquido: avviene un incontro, un impatto, un abbraccio ineludibile di quest’uomo dalla consistenza vacua e liquida, secondo la definizione di Bauman, con il digitale.
Secondo noi studiosi, e alcuni sociologi in particolare, come Sherry Turkle, siamo alle soglie di una rivoluzione, non solamente di tipo psicologico o sociologico: l’avvento del digitale sembra stia costituendo una vera e propria rivoluzione antropologica.
I due video che sto per mostrarvi introducono il concetto di rivoluzione antropologica, sui quali vorrei fare una riflessione insieme a voi.
[Due video vengono proiettati davanti alla Commissione].
Nel primo si vede una bambina di meno di un anno, che ancora non parla, che però già cerca di ingrandire le immagini di un giornale; prova di nuovo e pensa che non funzioni, poi riprova con un altro giornale, ma non funziona: è fantastico, perché pensa che lì sotto ci sia la password e che forse sia il suo dito a non funzionare; fa una prova prima sul giornale, poi sulla propria pelle; e poi finalmente trova un «giornale» che funziona.
Parliamo di percentuali anche pesanti da ascoltare, ma è così: considerate che negli USA, circa il 72% di bambini che hanno meno di un anno, utilizza già il ditino per «switchare» le immagini con il cosiddetto touch screen: si tratta quindi già di dati pesanti.
Una percentuale leggermente più bassa, circa il 12%, rappresentata sempre da bambini con meno di un anno, scarica già delle applicazioni. Una percentuale un pò più bassa di bambini utilizza il tablet prima di andare a dormire.
Prima vi ho parlato dell’incrocio tra l’uomo tecnoliquido e il mondo del digitale, così come analizzato da Steve Jobs.
Tale situazione sta determinando l’espressione di alcune caratteristiche dell’uomo del terzo millennio: il narcisismo digitale, la velocità – siamo in un momento in cui tutto è più veloce, tutto è più rapido, e la connessione è complice in questo – l’ambiguità, il bisogno di emozioni forti.
Nel video che vi sto mostrando ora possiamo osservare invece un’altra generazione. La figlia fa un regalo al papà e gli chiede se ha capito come funziona il tablet. Nell’incapacità di staccare la spina ci sono coloro che appartengono alla primissima generazione, quella che noi tecnicamente definiamo dei predigitali. Colpisce la differenza tra le tre generazioni: tra il papà che riceve il tablet per regalo e non ne capisce la funzione e la bambina di meno di un anno che utilizza il touch screen.
Che cosa sta cambiando?
È ovvio che non possiamo parlare semplicemente di una rivoluzione sociologica, ma stiamo assistendo a quella che alcuni sociologi o antropologi definiscono una rivoluzione antropologica. Complice è una squisita capacità innata del nostro cervello, quella della neuroplasticità, una dote che tutti i cervelli umani hanno al loro interno. È la condizione di base, vale a dire la capacità di modificarsi rispetto all’esigenza dell’ambiente esterno, e ciò è fantastico perché proporre un cambiamento significa reiterare più volte un’azione, un comportamento.
Quel meccanismo che mi darà gratificazione diventerà allora pian piano una parte di me, una parte del mio comportamento abituale, cioè diventerà un’abitudine. Ciò agisce innanzitutto a livello delle nostre connessioni neuronali; ed è per questo che stiamo parlando di una rivoluzione antropologica ed è questa la direzione verso la quale noi stiamo viaggiando.
Abbiamo fondamentalmente tre generazioni, e questa è la ragione per la quale parliamo di un inizio di rivoluzione: quella dei mobile born, cioè di una bambina che non sa parlare ma sa utilizzare bene le funzioni di un tablet; quella degli immigrati digitali, la generazione di mezzo, cioè quella a cavallo tra il metodo della scrittura, l’analogico, e il metodo digitale; abbiamo poi i nostri antenati, chiamiamoli così, vale a dire la generazione dei predigitali, che addirittura non comprendono la funzione di certi strumenti, considerandoli freddi, come ad esempio un microfono.
In realtà la rivoluzione alla quale stiamo andando incontro ci dice esattamente il contrario e cioè che il tablet per un bambino di un anno non è semplicemente uno strumento ma è un prolungamento della propria conoscenza, è parte della propria realtà, tant’è che non riusciamo più a scindere quanto è virtuale da quanto è reale, perché si plasmano e si intrecciano in una maniera fantastica.
Devo fare una premessa. Dico subito – io mi occupo di questo – che non dobbiamo essere tecnofobici, nel senso che spesso sento dire che dobbiamo abolire la tecnologia; che le punizioni per eccellenza sono quelle di sottrarre i cellulari ai propri figli. Come madre, ma anche come psicoterapeuta, come professionista della salute mentale, talvolta vorrei dire questo, ma noi stiamo viaggiando verso una direzione per cui tutto si sta velocemente digitalizzando. Sono stata chiamata a parlare della questione dell’apprendimento. La tecnologia esercita un fascino su tutti noi per cui, se è vero che ci avviciniamo alla tecnologia con paura, siamo comunque curiosi, ne siamo attratti, perché c’è un fascino estremo.
Dall’altro lato, però, vi dico che non ci sono risultati positivi relativamente all’apprendimento in ambito scolastico.
Rispetto al digitale all’interno delle agenzie educative – su questo vi riporto i dati di esperimenti fatti, ad esempio, in Corea del Sud, in Israele, negli Stati Uniti – non c’è un aumento delle conoscenze o una velocità nell’apprendimento da parte di chi utilizza dispositivi digitali; anzi – ed è un dato inquietante – il livello di apprendimento addirittura si abbassa perché in fondo un tablet, un dispositivo, riduce il livello dell’attenzione e aumenta il livello di distraibilità.
Da che cosa è dettato il livello di distraibilità? Innanzitutto dall’ipertestualità, cioè dalla possibilità di passare da una pagina ad un’altra: questo consente alla mente di staccare per poi riprendere un’altra connessione, ma costituisce motivo di distraibilità.
Posso dirvi, inoltre, che alcuni tipi di conoscenze avvengono grazie ad una parte del nostro cervello che è quella più evoluta, che abbiamo solo noi esseri umani, vale a dire quella della corteccia prefrontale e frontale, deputata al ragionamento, alla progettualità. Ciò mi spinge anche a riflettere su come un metodo prettamente digitale non possa facilitare questo tipo di apprendimento; al contrario, un metodo digitale impatta di più con l’aspetto emotivo, cioè con il nostro cervello più primitivo, con la parte limbica del nostro cervello deputata alle emozioni.
Vi faccio un esempio: tutti noi conosciamo la natura delle fake news; tutti noi siamo in grado di riconoscere una fake news, ma comunque rimaniamo coinvolti e siamo catturati, anche se è un essere catturati più di pancia, a livello emotivo. Il digitale cattura dunque a livello emotivo, ma noi abbiamo bisogno della corteccia frontale per pianificare, per ragionare, per riflettere.
Sempre per quanto riguarda il tema dell’apprendimento, la scrittura è un’altra dimensione che i nostri giovani stanno perdendo o che comunque sta calando: se non nelle agenzie educative, come le scuole, sicuramente a casa l’estremo ed eccessivo uso di un tablet allontana il bambino dalla manualità. Considerate che l’area motoria del nostro cervello è quella deputata alla scrittura ed è questa che stiamo perdendo. Disegnare una lettera diventa per un bambino più difficile che toccare uno schermo. Sono dati sui quali ovviamente dobbiamo riflettere per capire quanto un metodo analogico o un modello digitale esclusivi possano essere di aiuto per un bambino o quanto possa esserlo, invece, un intreccio tra i due metodi, quale formula congeniale nel futuro delle nostre scuole.
Il livello di attenzione nei bambini è calato terribilmente: un bambino dopo cinque minuti non è più in grado di prestare attenzione. Capite bene come i classici programmi di istruzione prevedano un tempo che il bambino non riesce più a seguire, perché c’è un calo fisiologico dell’attenzione. Io penso che probabilmente l’ausilio del digitale potrebbe aiutare un insegnante e anche i bambini, ma non dobbiamo dimenticare che, in fondo, ci siamo tramandati le informazioni grazie ai nostri cervelli analogici e i nostri archivi sono molto più duraturi di quelli digitali. Pensiamo alle informazioni che rimarranno solamente nella memoria di un tablet o di un computer rispetto a quelle che conserviamo, ad esempio, in un museo, come i manoscritti (tempo fa ho portato le mie figlie a vedere una mostra su Ovidio in cui ne erano esposti alcuni che avevano secoli e secoli: è affascinante). Questo lo dobbiamo essenzialmente al nostro cervello analogico.
Ecco la riflessione che desideravo portare qui: innanzitutto, ci sono dati purtroppo non positivi rispetto all’apprendimento e a quanto, in realtà, il digitale aiuti (non è così, anzi, si sono registrati dati negativi). Nell’ambito della patologia clinica, c’è un aumento dei disturbi dell’attenzione e dell’apprendimento, nonché della dislessia.
Questo ci induce a creare una correlazione tra il mondo del digitale, sicuramente, e il cervello di un bambino che sta maturando, perché la neuroplasticità di cui vi parlavo prima è una dote di tutti i cervelli umani che però lavora in modo particolare nei primi anni di vita e fino all’adolescenza: ce la portiamo per tutto l’arco della nostra vita, ma nell’infanzia e nell’adolescenza è molto più attiva, come lo è l’apprendimento”.
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Io ritengo che la ci sia una volontà precisa nel diseducare le nuove generazioni allo spirito critico e all’ indipendenza. Lo ha ripetuto ieri in Svizzera il capo setta del forum dei cerebrolesi mondiali dove ha affermato che l’ intelligenza artificiale dovrà sostituire le democrazie e la sua idiota servetta cotonata, che si fregia di rappresentare questa triste unione europea ha dichiarato che il primo problema del mondo è la disinformazione… Le guerre, le stragi di bambini, le crisi ambientali ecc ecc vengono dopo. Quindi il primo problema è la censura delle informazioni diverse dalle loro ( quelli di Open si sono fregati le mani in vista dei prossimi bonifici…) Quindi cosa c’è di più semplice che iniziare a plasmare i cervelli dei bambini, educandoli a sopprimere i propri istinti, educandoli all’ insicurezza del proprio io a cominciare dalla sfera sessuale fino alla negazione della naturale continuità della vita data da una mamma ed un papà. Per fare questo bisogna interrompere la catena di conoscenze tramandate da generazione in generazione, in poche parole questi satanisti transumani vogliono costruire l’uomo nuovo. Ci avevano già provato in passato al prezzo di milioni di morti, l’ ultimo mi sembra sia stato un certo Polpot, che se non sbaglio aveva preso appunti quando frequentava la Sorbona a Parigi. E in Italia queste persone rappresentate da un vile affarista hanno trovato terreno fertile nella nostra scuola, dove uno stuolo di insegnanti parcheggiati li dal partito e con il cervello all’ ammasso, esegue seguendo bovinamente le parole d’ordine via via proclamate dai loro padroni. Ma come è stato in passato non credo che ce la faranno anche se il prezzo della ribellione sarà molto caro.
Mi rattristo ogni volta che vedo un bimbo nel passeggino con il tablet in mano. Oppure durante un viaggio, con il capino chino su colori e forme virtuali invece che con il viso incollato al vetro come facevo da piccola (e faccio tutt’ora).
Vorrei riconoscere la mia stessa curiosità, la voglia di toccare, annusare, gustare e ascoltare nell’esplorare.
Vedo bimbi sempre più passivi, sempre più irrequieti, incapaci di fare un gioco per ore come facevamo da piccoli.
Io temo che l’invasione sempre più insistente della tecnologia in ogni risvolto dell’esistenza umana, “dematerializzando” sempre più il vivere, accentuerà le difficoltà di ognuno anziché sminuirle.
Condivido le preoccupazioni di Raffaele Mantegazza e Mariangela Treglia sulla rivoluzione digitale: una scuola di conformismo e alienazione. Ho insegnato quarant’anni storia nelle scuole superiori con il gesso e la lavagna, ma i risultati sono stati spesso modesti non tanto per la mancanza degli strumenti didattici più moderni quanto per la naturale resistenza dei giovani allo studio e la soffocante morsa della burocrazia.