Diego Zanesco

Diego Zanesco
di Marcello Cominetti

Sono le dieci di sera del 30 luglio 2023 e sto dormendo nel mio furgone parcheggiato in cima alla Val Veny perché tra poche ore mi vedrò qui fuori con un cliente per fare una salita sull’Aiguille Croux.
Andy Kostner da Corvara mi chiama al telefono svegliandomi. Mi dice che il nostro amico Diego è caduto mentre saliva da solo la via Dimai sulla Sud della Tofana di Rozes. Il corpo è stato individuato dai soccorritori mentre ripercorrevano la via dall’elicottero e domattina lo andranno a prendere.

Diego Zanesco in Patagonia, 1998. Foto: Marcello Cominetti.

Padre di quattro figli e marito di Franzi, Diego era solito scalare da solo. Quasi giornalmente, dopo il suo lavoro di guida alpina, se ne andava a scalare una via per rilassarsi. Il numero delle solitarie di Diego era impressionante e non si trattava di vie di quarto grado come quella da cui è caduto, ma spesso erano vie impegnative su cui deteneva ogni record di velocità. Salire vie come il diedro Palfrader alla Gaierwand (Col di Specie) in un’ora partendo dalla macchina parcheggiata al lago di Landro era per lui come bersi una birretta. Un giorno di non molti anni fa vi aggiunse anche la Spitagoras e la Comici-Dimai alla Nord della Cima Grande rientrando per l’aperitivo senza neppure essere troppo stanco!
Non lo diceva quasi mai a nessuno, a parte le sue conoscenze più intime, e annotava nei suoi diari tempi, condizioni e sensazioni di ogni salita con estrema precisione.
Quella notte in Val Veny non chiusi occhio e cercai di piangere tutte le lacrime fino a esaurirle, prima che arrivasse il mio cliente, con cui facemmo letteralmente una corsa andata e ritorno, così veloce che mi servì a non avere tempo per pensare. I pensieri mi si ripresentarono durante il viaggio di ritorno, che da Courmayeur alle Dolomiti non dura poco.

La mattina dopo andai con Franzi a ripercorrere la via Dimai per cercare di capire di più, ma il tempo incerto dal cielo grigio scuro ci costrinse a un paio d’ore d’indecisione ai piedi della parete gigantesca della Tofana, che io ho sempre visto come l’abbraccio di una madre, per poi ritornare sui nostri passi e rimandare a tempi migliori, in tutti i sensi, la nostra ascensione.
Probabilmente fu meglio così. In quei lunghi momenti d’umida attesa sulle ghiaie ci siamo raccontati di tutto, condizionati dalla situazione di disperazione interiore in cui quell’accadimento ci aveva proiettati.

Diego Zanesco agli inizi del suo alpinismo

Diego Zanesco nasce a Bressanone nel 1963 e la sua carriera alpinistica inizia in giovane età, spinto dallo zio che è già un alpinista. Naturale talento in arrampicata su roccia, si difende bene anche sul ghiaccio e sugli sci. Ci conosciamo mentre io finisco il servizio militare a Corvara nel 1981 e lui lo inizia. Il nostro comandante, il tenente Manfredo Torretta, mi dice che è arrivato un bravissimo alpinista e me lo presenta. Ovviamente andiamo subito ad arrampicare e tra noi nasce un rapporto di reciproca stima e soprattutto di amicizia che ci ha portato ad arrampicare in vari luoghi e a trascorrere un lungo periodo in Patagonia in cui, oltre alle scalate, abbiamo vagabondato a lungo tra steppe ventose e angoli di paradiso. Il suo modo di essere ha rappresentato anche un importante ponte tra i sudtirolesi di lingua tedesca e quelli di lingua italiana, essendo Diego bilingue e assolutamente privo di qualsiasi preconcetto etnico.

Quello che resta sorprendente, oltre alle sue doti umane che per me restano una nostra faccenda privata, è la sua attività alpinistica strabiliante. Franzi vorrebbe farne un libro e qui di seguito proponiamo un racconto tratto da un suo diario. A me è piaciuto molto perché lo stile me lo ricorda con quella sua aria di normalità mentre faceva cose eccezionali. E le faceva solo per se stesso. Qualcosa di davvero raro.
Diteci se vi piace.

Diego Zanesco arrampica scalzo su una ferrata (una cosa che faceva spesso…)

Furchetta, parete nord, via Solleder (8 febbraio 1993)
di Diego Zanesco

La parete nord della Furchetta è sempre stata per me una parete particolare. La vedo spesso: se vado a sciare alla Plose, se passo in macchina sulla statale tra Chiusa e Bressanone, se sono a Velturno. E sempre, guardandola, penso di salirla. Ma accanto alla voglia di salire c’è anche molta paura e rispetto per questa parete alta 800 m e spesso friabile. Il sole, specialmente in inverno non riesce ad accarezzare gli appigli di questa parete nord. Anni fa sono salito per la prima volta su questa parete e ho scalato la via Vinatzer, una via che conta pochissime ripetizioni ed è nota per la sua friabilità. Poi, alcuni anni dopo, con due compagni, Franz e Toni, abbiamo salito in inverno sempre la via Vinatzer e abbiamo fatto la prima invernale. Abbiamo impiegato ben due giorni di salita bivaccando una volta in parete e una volta in cima. È stata una bellissima esperienza anche se un po’ sofferta.

Dopo queste due salite ho pensato spesso a una salita solitaria della parete. L’estate scorsa ero intenzionato ad andarci ma poi non è mai arrivato il momento giusto. Questo è stato un inverno particolare. Ha nevicato in dicembre e poi è rimasto bel tempo per quasi due mesi. Anche il freddo non è mai stato eccessivo. Quindi, le condizioni ideali per una salita invernale. Le mie condizioni non erano però ottime. Infatti, per diversi motivi ho dovuto fare una pausa totale per quasi 3 mesi. In gennaio ho poi ricominciato ad allenarmi, non moltissimo ma con determinazione. Ho anche scalato qualche volta ad Arco e ho fatto una solitaria sul Colodri. Non sono riuscito ad avere subito molto forza ma ero molto motivato. Il tempo bello continuava. La montagna in veste invernale mi ha sempre attirato moltissimo. Con Klaus, un amico di Velturno, sono andato al Sass dla Crusc dove abbiamo salito la via Messner al Grande Muro. Tutto è andato bene ed io mi sentivo in forma. Era un lunedì e da quel giorno ho pensato con molta convinzione a una salita solitaria sulla parete nord della Furchetta. Probabilmente, lungo la via Solleder: via che non avevo ancora mai salito. Al Grande Muro siamo saliti lunedì 1 febbraio e ho pensato di salire la Furchetta l’8 febbraio, esattamente una settimana dopo. Il pensiero di questa salita mi accompagnava tutti i giorni e la convinzione di farcela aumentava di giorno in giorno.

Diego in falesia

Nei giorni della settimana di attesa non mi sono allenato molto. Il sabato e domenica, proprio prima del “piano” sono stato a fare scialpinismo a Villgratten. C‘era una festa organizzata dalla scuola di alpinismo Globo Alpin, la scuola della quale io faccio parte. Mentre camminiamo con gli sci da alpinismo pensavo alla Furchetta ed anche mentre chiacchieravo con qualcuno mi concentravo sulla mia solitaria.
Sì, ce l’avrei fatta. Sarei salito fino alla base con gli sci, avrei lasciato sci e scarponi lì e sarei salito con uno zaino leggero. Avrei portato una corda, alcuni rinvii, dei moschettoni, dei chiodi, un martello, qualche cosa da bere e degli scarponi da trekking per la discesa.

Durante queste due giornate di scialpinismo non mi sono però risparmiato, anzi, ho pensato di tirare per allenarmi. Domenica poi è stata una giornata caldissima e afosa, quindi molto faticosa. Torno a Bressanone e vado dai bambini. Sono un po’ stanco ed ecco arrivare i primi dubbi. Decido di preparare lo zaino e di calcolare cosa mi sarei portato dietro. Cerco di non pensare ai dubbi perché domani andrò. La sera, chiacchiero con Sonja che mi dice che sono un pazzo, che un padre di due figli non fa certe cose. Non rispondo ma i miei dubbi aumentano. Metto la sveglia alle 5. Quando squilla rimango ancora a letto, mi giro e rigiro e penso di riaddormentarmi: sarebbe bello dormire, sono stanco. Poi, riesco ad alzarmi. Mangio qualche cosa e parto. Mi dico che devo andare almeno fino all’attaco con gli sci, per vedere questa parete. Vado in macchina fino a Malga Zannes.

Il parcheggio è deserto e fuori fa freddo. In macchina è caldo. Se torno a Bressanone posso fare colazione… No, ci vuole un po’ di decisione. Scendo dalla macchina e mi preparo. Salgo lungo la strada fino alla Malga Glatsch. C’è la luna. Piena, bellissima, grande e fredda. Dall’altra parte del cielo ad est arrivano i primi raggi di sole che sfiorano la cima della Furchetta che è li, grandissima sopra di me. Non c’è alcuna traccia e faccio fatica a procedere. Sono stanco. No, oggi non è la giornata giusta; peccato, devo tornare indietro. Mi fermo, guardo la luna, la parete, i raggi di sole. Riparto lentamente ed esco dal bosco. Davanti a me un pendio di neve molto ripido e lungo porta alla base della Furchetta. No, non ce la faccio più. Il pendio è carico di neve e la neve è così pressata dal vento che le pelli non tengono. Devo combattere per guadagnarmi ogni metro perché non ho con me i rampant. Vedo davanti a me questo pendio, la parete, il camino terminale della via, quasi 1000 m sopra di me. Sembra vicino. Il pendio non finisce piú e spesso scivolo all’indietro. Per fortuna arrivo all’attacco della parete, dove toglierò le pelli e tornerò a casa. Invece, mi siedo sugli sci e piano piano inizio a cambiarmi. Non voglio prepararmi una bella piazzola per lavorare tranquillamente ma non ho nemmeno voglia di ritornare a valle. Fa freddo. Mangio un arancio. Penso di salire qualche metro, prima di ritornare. Posso almeno dirmi di aver tentato. Per non pestare neve con le scarpette, parto da una paretina difficilissima e quasi non riesco a fare il primo passaggio. Andiamo bene, non riesco a salire il primo metro e mi aspettano 800 metri di via.

Diego Zanesco

Comunque salgo. Tutto è friabilissimo; ogni appiglio si stacca. Ho paura. Dopo pochi metri guardo giù e penso che se si stacca un appiglio cado e sono morto. Ma da qui dovrei ancora riuscire a scendere. Salgo troppo a destra e mi trovo su una paretina difficilissima. Posso solo proseguire. Poi diventa di nuovo più facile. Ma come farò a scendere? Beh, posso sempre scendere in doppia. Nei tratti facili c’è la neve che devo evitare. Non appena tocco della neve con le scarpette, sotto la suola si forma uno strato di ghiaccio. Mi fermo per alcuni minuti e guardo, ora su, ora giù.

Poi, piano piano, riparto e mi sposto verso sinistra, dove la parete è più facile. Senza che me ne accorga, il pensiero del ritorno svanisce e la concentrazione non lascia spazio a molti altri pensieri. Mi sembra di essere lento ma la progressione è continua. A volte, per sbaglio mi trovo a dover superare passaggi difficili, devo ridiscendere per ritrovare la via giusta; arrampico come se fossi sulle uova per la friabilità di alcuni tratti. Man mano che salgo, mi scaldo e la mia forma migliora. Ho la gola secca e ho sete ma non mi fermo. Penso sempre: mi fermerò più avanti, ora sto bene e continuo. Spesso devo fare degli strani giri sulla roccia per evitare la neve.

Sono già molto in alto e alla mia sinistra c’è il Pulpito Dülfer: una specie di pilastro caratteristico della parete diventata famosa nella storia dell’alpinismo per aver respinto diversi arrampicatori. Quattro anni fa, ho bivaccato in inverno sul pulpito Dülfer, dopo un’intera giornata di arrampicata con Franz e Toni. Oggi, ci sono arrivato in circa 2 ore. Da questo Pulpito Dülfer, salendo dritti c’è la via di Vinatzer mentre attraversando a destra c’è la via di Solleder che ha risolto il problema di questa parete uscendo un po’ verso destra. Io devo andare a destra e inizio ad attraversare. Devo attraversare per circa 30 metri fino a quando incontrerò una fessura. È molto difficile e quasi strapiombante. Sì, anche friabile e mi devo tenere con molta forza su appigli piccolissimi. Quando 10 metri sotto di me e vedo una stretta cengia coperta di neve: era là che dovevo attraversare. Sarebbe stato facilissimo. Ora è comunque difficile anche tornare indietro. Proverò a continuare. Diventa ancora più difficile ma ormai mancano pochi metri alla fessura. Cerco di stare calmo e dopo aver tastato diverse volte ogni appoggio e ogni appiglio, proseguo. Supero ancora uno strapiombo e… arrivo nella fessura. Ora la fessura sembra un gioco ed è bello salire con tranquillità. Probabilmente senza volere ho fatto una variante veramente difficile.

Diego Zanesco mentre fa la guida con la sua camicia bianca d’ordinanza.

Da qui alla vetta, dovrebbero mancare ancora 200 m. È il tratto più difficile della parete. Sopra di me ci sono solamente strapiombi e una fessura che risolve la salita. Proprio per questa “particolare verticalità” non c’è neve. Ora però c’è un po’ di vento. In una nicchia mi fermo e bevo qualche sorso di tè. Tolgo la corda dallo zaino e la lascio penzolare dall’imbragatura. Continuo a salire senza assicurazione perché mi sento bene. Supero alcuni strapiombi. Adesso, vedo i camini terminali. So che, superati i camini, sarò quasi in cima. I camini sono alla mia destra e quindi inizio ad attraversare. Adesso sono sopra di me e mi separa da loro una parete di circa 20 metri. E‘ gialla e grigia e molto friabile. Proseguo ancora sicuro, senza assicurarmi, ed arrivo ad una sosta. In questa sosta ci sono moltissimi chiodi perché la roccia non tiene. Il camino è solamente 10 metri sopra di me. Ho un attimo di paura e senza pensarci due volte decido di assicurarmi. Assicurandomi sono molto più leggero (dentro) e ben presto raggiungo il camino. Mi assicuro a una sosta alla base del camino e scendo per recuperare tutto. Ora so che solamente due tiri di corda mi separano dalla vetta.

Il camino all’inizio non è molto facile e la corda penzola appesa alla mia imbragatura. È molto strapiombante. Sono concentratissimo e calcolo con attenzione ogni più piccolo movimento. Ho superato l’ultimo strapiombo ed il camino si adagia un po’. Diventa facile e ben presto sono sulla cresta dove passa la via normale. Lancio un grido: ce l’ho fatta. Sono solamente le 11.30, ho impiegato circa 3 ore per tutta la parete. Sono stato veloce. Il tempo è bellissimo, non c’è una nuvola. Solamente il vento mi ricorda che è inverno e che può fare freddo. Bevo ancora. Voglio andare fino in cima e ben presto sono su. Tutto ora sembra più facile. La tensione se ne è un po’ andata e sono felicissimo.

Forse non è nulla di particolare in alpinismo, ma è la “mia piccola impresa”. E tutto completamente da solo. Per me ha un grandissimo valore e non posso dire di aver rischiato di morire: ho soprattutto sentito la vita. Sono solo, in cima alla Furchetta, ma mi sento molto attaccato alla roccia, alla neve, alla cima, al vento. Non è vero che sono solo, sono con la mia vita e con tutti e con tutto. Rimango un po’ in cima, fino a quando il vento non si fa troppo forte e mi invita alla discesa. Raccolgo tutta la roba che avevo abbandonato all’uscita della via e continuo la discesa. Ho molta sete e sono contento di aver portato con me del tè. Spesso mi fermo a bere.

La locandina diffusa tra gli amici di Diego Zanesco per l’incontro a suo ricordo del 30 luglio 2025.

Ben presto raggiungo la forcella tra la Furchetta e il Sass Rigais. Qui un canale di neve mi porterebbe alla base della parete, dove con gli sci ben presto potrei tornare alla macchina. Con una sola discesa a corda doppia raggiungerei il canale. Però, non ho i ramponi e la neve nel canale è troppo dura. C’è anche del ghiaccio. È meglio non rischiare. Decido così di scendere in Val Gardena anche se sarà una lunga camminata nella neve. La strada è lunga, ma devo pur scendere. Spesso sprofondo parecchio nella neve e allora ogni passo è faticoso. Ad una piccola forcella mi trovo faccia a faccia con un camoscio. Mi sembra che lui sia più sorpreso di me e mi lancia qualche fischio. Mi sembra quasi irritato perché gli ho sfiorato la strada su un tratto obbligato. Ben presto si sposta su alcune rocce, si ferma e mi fischia ancora qualche cosa. Non so che cosa volesse dirmi ma sono stanco e continuo a scendere.

A tratti non c’è molta neve e ci sono parecchie chiazze d’erba. Su una di questa mi sdraio e vorrei dormire. Però il riverbero del sole è forte ed io non ho né occhiali né crema da sole. Continuo a scendere ed a sprofondare ma il rifugio Firenze non è più lontano. Al rifugio bevo un tè e mangio un panino. Alcune chiacchiere con il gestore e continuo la discesa. Sono su una pista da sci e la neve tiene. Ho gli scarponi fradici, ma che cosa importa? A Santa Cristina decido di fare autostop e di tornare a Bressanone. La sera, mio papà mi accompagna a prendere la macchina e il giorno dopo andrò a recuperare gli sci.

Diego Zanesco ultima modifica: 2025-09-02T05:33:00+02:00 da GognaBlog

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29 pensieri su “Diego Zanesco”

  1. Lo chiamavo il ”Magico Alverman”, perché mi faceva pensare a quel personaggio di una trasmissione televisiva che guardavo da ragazzino.
    Spensierato e allegro, in qualunque situazione, sempre a vedere il bicchiere mezzo pieno.
    Insieme abbiamo sciato e arrampicato diverse volte in Dolomiti, anche su vie piuttosto impegnative. Talvolta, arrivati in cima, mi diceva che sarebbe andata a rifarla il giorno dopo da solo senza corda. Lo diceva ridendendo, pareva scherzasse, ma sapevo che non scherzava. Non rispondevo mai. Me lo immaginavo salire lungo la parete senza fatica, come un uccello in volo che sfrutta una termica. Perché così era per lui.
    Un giorno, circa 25 anni fa, dopo parecchio che non ci si vedeva, mi chiamò per invitarmi a Yosemite. Mi meraviglia che lo avesse proposto proprio a me. Ci trovammo direttamente a Camp Four e passammo parecchie giornate a scalare sul magnifico granito delle grandi pareti, in tre con un suo amico guida, oppure due cordate, io con la mia compagna Cristiana e loro due. Fu una vacanza molto piacevole, per la compagnia di tutti, e istruttiva, per l’ambiente per me inusuale e per l’arrampicata in fessura che conoscevo appena. Diego, anche su quella roccia, sembrava fosse a casa sua: la medesima agilità ed eleganza nei movimenti.
    La sua amicizia è stata un bel dono che la vita mi ha dato.
    Addio Diego, alla Vita!

  2. Matteo 10, si Manfredo Torretta è stato (il tenente Torretta) il comandante, durante i corsi di alpinismo della brigata alpina Tridentina, di Diego, Giuliano Stenghel, mio e di molti altri alpinisti, quando il servizio militare era obbligatorio.
    Credo che quella “naia” se la ricordino tutti con nostalgia, con i corsi primaverili a Arco e quelli estivi a Corvara, i raid scialpinistici d’inverno/primavera e le gare di fondo e tiro che non si chiamavano ancora biathlon.
    Forse è stato il canto del cigno delle truppe alpine a cui Figliolo ha dato il colpo di grazia.
    Non parlo di cigni e grazia perché sono militarista, anzi, ma semplicemente perché quel mondo là non c’è più.  Forse l’alpinismo di quelli della mia generazione è stato la scusa per restare attaccati a quel vivere “alla buona” oggi decisamente anacronistico, osteggiato, incompreso e fuori  tempo.

  3. Arrivato ieri il libro di Erri De Luca  che parla di Diego Zanesco . Appena finito di leggere, che cosa bella sarebbe leggere i suoi scritti .. sembrerebbe andare a scovare degli scrigni segreti che come diceva Lui sono Regali!! 

  4.  
    Diego Zanesco era un alpinista che non solo non ostentava le sue salite migliori, ma le teneva celate, quasi a volersi proteggere anche dal più piccolo clamore.
    Un comportamento in contrasto con la maggioranza degli alpinisti per i quali la scalata costituisce un confronto e un occasione per emergere e affermarsi.
    Diego si era formato negli anni ’70 e ’80, un periodo di grandi sommovimenti in cui anche l’alpinismo ha trovato nuove forme d’espressione.
    Una stagione di cambiamenti di cui oggi sembra rimanere solo il ricordo di un diverso modo d’intendere l’alpinismo, ma ai più sensibili quella stagione ha dischiuso quella dimensione soggettiva e intima della montagna nella quale riversare le proprie inquietudini e dar forma ai propri sogni.
    Credo che un libro che racconti davvero Diego dovrebbe innanzitutto riuscire a rendere omaggio alla sua interpretazione di un alpinismo nella sua forma più pura.
     

  5. Avrei mille storie da raccontare di Diego, ma chi l’ha vissuto o anche solo conosciuto c’è solo una parola che riassume il suo essere: unico. Una persona che se ti entra nel cuore non esce più. 
     

  6. Conoscevo Diego, non in modo profondo, ma abbastanza da stimarlo ogni volta che ci incrociavamo. Era un collega, una guida alpina, e l’ho sempre considerato un alpinista di valore assoluto. In un mondo in cui spesso si cerca visibilità, lui ha compiuto imprese straordinarie rimanendo nell’ombra.
    La sua bravura, la sua naturalezza nell’arrampicare e la quantità di solitarie che ha realizzato sono note solo a pochi. Eppure, chi ha avuto occasione di incontrarlo sa bene che dietro la sua riservatezza si celava un talento fuori dal comune, unito a una passione genuina per la montagna che trasmetteva senza bisogno di proclami.
     
    Diego era una figura rara: schiva, essenziale, capace di dedicarsi alle sue scalate con intensità e leggerezza allo stesso tempo. Credo sia giusto ricordarlo non solo per la qualità delle sue salite, ma anche per il suo modo discreto di viverle. Con lui se ne va un uomo che ha lasciato un segno profondo nell’alpinismo e tra chi lo ha conosciuto, senza mai cercare i riflettori.

  7. Uno scritto appassionante e sincero, sarebbe bello leggerne ancora. Non ho avuto il piacere di conoscere Diego, ma da come me lo descrivete tu e Sandro penso sia stata una persona straordinaria.

  8. Cominetti, lo dico da “non-alpinista con cognizione di causa”: in questo scritto c’è tanta umanità e c’è tanto alpinismo. Io un libro così lo leggerei volentieri.

  9. Diego era quello che si dice “uno che resta impresso”. L’ho conosciuto per lavoro e quando ho saputo che era andato via ho pianto per lui. Diego era anima più che corpo. Chi lo ha conosciuto capirà cosa intendo. Slegato dalla terra e proteso alla cima. Era un uomo, non parlo di un santo, ma un uomo vero: in ogni suo gesto e parola semplice. Che fortuna averti conosciuto Diego. E sono forse presuntuoso ma dirò che mi manchi, perché eri uno spirito felice e ogni volta me ne donavi una goccia di quella felicità.

  10. Lo incontrai tanti anni fa all’attacco della via Dalla Chiesa sul Pisciadu; per me e mia moglie era la prima vera via dolomitica ed eravamo un po’ tesi. Lui era con un cliente, si scambiano come sempre due parole e lui mi fa:”questa via l’ho aperta io, divertitevi e buona giornata”! Parte e non lo vedo più tanto era veloce…solo dopo realizzai chi fosse, visto il profano che ero…

  11. Non ho avuto il piacere di conoscere Diego Zanesco, né sinceramente (mea culpa) lo avevo mai sentito nominare fino a quando alcuni mesi fa ho letto “Discorso per un amico” di Erri De Luca a lui dedicato. Ho subito sentito un’affinità elettiva per il suo essere libero e lontano da logiche di auto promozione personale tanto in voga in questi anni nel mondo alpinistico e non solo. Dal suo racconto emerge la spontaneità, la calma interiore e nel contempo la grande vitalità di un uomo libero. 
     

  12. 11@ d’accordissimo con Dino, l’originale da’ grande valore alla persona che in maniera riservata le scriveva, se i suoi scritti andranno alla stesura di un libro sarà credo accolto e letto con emozione autentiche.

  13. Un giorno siamo saliti sull’Ortler, avevamo deciso di rientrare in bicicletta, dopo la nostra gita. Ero molto stanco, soddisfatto di quei bei momenti passati insieme. Monto in bici controvoglia, poteva bastare così. Diego mi guarda, capisce, e, con il suo inimitabile sorriso fa: “Che bello”. E inizia a pedalare, senza voltarsi. Ero distrutto, ma puoi non seguire uno così? Sass Dlacia, sono in sosta dopo il primo tiro, durissimo (per me). Sento una voce: “michil michiiil”, era la sua, inconfondibile. Arriva su, agile, danzando, slegato. “Diego, cosa fai??” “Ti ho visto, sono venuto a salutarti” mi dice. Gli afferro un braccio, le gambe iniziano a tremarmi. Mi toglie la mano, “che bello” mi dice. E slegato ridiscende da quella parete. E quando d’inverno veniva da San Cassiano a cena? In bicicletta! Che storie. Marcello, pubblica, ne vale la gioia, io ci sono per qualsiasi cosa. Grazie, bravo bravissimo, giulan

  14. La lettura di questo racconto ti immerge in quell’ intimo conflitto con il quale ogni solitario si trova a dover fare i conti.  Il racconto è bello ed è ben scritto, oltretutto è permeato della modestia dei grandi cosa che lo rende maggiormente godibile. Penso che se davvero i suoi appunti saranno dati alla stampa ne uscirà un gran bel libro
     

  15. No! Il suo testo non deve essere sistemato, “professor” Siorpaes… Lasciatelo così, correggete solo eventuali errori grammaticali, ma lasciatelo originale e spontaneo com’è… È più emozionante leggere il tutto… Più vero, più romantico!! Viviamo in un mondo sempre più finto e artificiale, lasciamo originali almeno questi racconti… Lui non era un professore di lettere, non doveva sistemare nulla…. Solo descrivere quello che gli veniva dal cuore e dalla mente, così come faceva… E così riportatelo, GRAZIE 

  16. Il racconto è molto bello Marcello: pubblicate il libro, faccelo sapere e almeno un compratore ci sarà!
     
    P.S.: ma il tenente Manfredo Torretta è lo stesso a cui Stenghel ha dedicato una (bella) via sul piccolo Dain? Se si, doveva essere proprio un tipo!

  17. Grazie Marcello, questo racconto prolunga la memoria di un grande alpinista che era anche, per il suo modo di vivere la montagna, un grande uomo, e di cui nulla sapevo. Una persona, lo sappiamo, vive ancora, in un certo senso, finché abita la memoria di chi lo ha conosciuto. Chissà per quale evento sfortunatissimo è poi morto 

  18. Bellissimo racconto, fa sentire  davvero cosa si sente quando si fanno  cose del genere in solitaria. Fa sentire in particolare la paura che si deve provare se si vuole portare a casa la pelle. Il pezzo direi che è, almeno per me, un vero “elogio della paura” (Éloge de la peur è il titolo di un saggio di Gérard Guerrier che sto leggendo), anche se mi sembra una po’ una contraddizione dove Diego dice “non posso dire di aver rischiato di morire”…

  19. Ho conosciuto Diego da cliente: un piacere arrampicare con lui , facendo una volta la Costantini Ghedina alla Rozes mi disse che quella via gli piaceva così tanto che s e doveva scegliere piuttosto che andare a correre veniva al di bona ed in meno di due ore tornava alla macchina, ma mi piace ricordarlo per il suo spontaneo sorriso e per la tranquillità ed il buon umore che sapeva trasmettere….ciao Diego….
     

  20. È andato via facendo quello che amava di più fare. Sarebbe stato bello averlo ancora qua con noi e leggere delle sue esperienze. Lo ricordo ancora quando mi sembrava folle partire da Santamaria in bicicletta, andare a Baunei e scendere di corsa fino alla  base dell ‘aguglia, salirla fino in cima, riscenderla e risalire di corsa, prendere la bicicletta ed essere in tempo con la allora moglie Cristina (mi sembra) e la piccola laura al mare. Grazie perché venire a conoscenza di altre sue esperienze fa venire i brividi…e chissà quante ce ne sarebbero ancora da raccontare…

  21. Ho avuto a che fare con Diego per lavoro, persona gentile ed allegra. Alpinisticamente ho ripetuto in solitaria alcune sue salite (una inserita in una delle mie guide) e le ho trovate belle, nulla di forzato.
    Bello il racconto, spontaneo.

  22. Bellissimo racconto. Nessuna retorica, nessun intento di autoincensarsi, anzi tanta semplicità e tanta umanità. I dubbi, la titubanza, la paura di cui pure racconta, sono gli stessi che qualsiasi alpinista, qualsiasi frequentatore della montagna sente prima e durante ogni sua “impresa”, grande, piccola o piccolissima che sia. E questo ci fa sentire Zanesco tanto vicino a noi. Il mese scorso ho letto il libro di Erri De Luca a lui dedicato: Discorso per un amico. Merita di essere letto. Attraverso quel libro e questo racconto ho conosciuto la figura di questo grande alpinista, di cui prima non sapevo nulla. Grazie.

  23. Bello il racconto di Diego ed ho apprezzato anche la presentazione di Marcello. Il testo di Zanesco per essere pubblicato ha bisogno di una sistemata dal punto di vista ortografico e sintattico.

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