Don Tita Soraruf

Durante un soggiorno al rifugio Gardeccia, parecchi anni fa, ho conosciuto don Tita, personaggio sempre disponibile, Guida alpina, figura importante ricordata per l’apertura di molte vie sulle sue montagne che conosceva profondamente. In questo scritto traspare la mia emozione durante l’arrampicata in un camino delle Pale Rabbiose (Ella Torretta).

Don Tita Soraruf
(una guida da non dimenticare)
di Ella Torretta
(pubblicato su Montagna Annuario GISM 2025)

Poco distante dal rifugio Gardeccia c’è una piccola cappelletta di sasso con la raffigurazione all’interno di una Madonna con bambino, un altarino con candida tovaglia adorna di pizzi e un modesto vasetto con fiori alpini, sempre freschi. Nel silenzio del mattino quando ancora le rocce sono fredde per l’aria frizzante dei 2000 metri, le fessure non cantano lo stillicidio delle gocce d’acqua e le cime più alte accolgono il primo sole, una figura apre il cancelletto della cappella, s’inginocchia e compiuti gesti rituali, prega. Tutte le mattine. Esce, raccoglie lo zaino, la corda lasciata ai piedi di un abete e si reca ad attendere davanti al rifugio il cliente di turno o l’amico, per accompagnarlo nell’ascensione programmata. Il suo viso è sempre sorridente, ricco di naturalezza, semplicità, felice di concedersi la giornaliera arrampicata. Sto parlando di don Tita Soraruf, Guida Alpina e sacerdote, il più grande esploratore dei Dirupi di Larséch, nato a Campitello l’11 ottobre del 1894.

Da sinistra, don-Tita Soraruf, don Guido Franzoni e Giuseppe Bussolari

A soli dodici anni lascia il paese per entrare in seminario e nel 1922 viene ordinato sacerdote. Dal 1924 al 1936 è curato a Mazzin, poi catechista a Merano e infine parroco a Campitello.

Tra le montagne che sovrastano la Val di Fassa inizia ad aprire una lunga serie di vie nuove: la parete est del Polenton, la sua prima Via dei Preti alla Sud-ovest del Col Rodella, la Nord-est del Molignon, al Collac, al Sass Pordoi, alla Pala di Mesdì…

Le ascensioni con numerosi compagni di cordata sono alternate alla partecipazione all’attività dei contadini e al loro magro desinare nelle malghe. Bastava restare con lui sul sagrato della chiesa, ascoltare i racconti pacati dell’attività alpinistica, per capire i sentimenti nobili, la modestia e l’amore profondo per la sua valle e le sue montagne.

Durante uno dei soggiorni estivi al rifugio Gardeccia anche noi (mio marito e io) abbiamo goduto dei suoi consigli, siamo stati legati alla sua corda, abbiamo arrampicato su Pale Rabbiose, Torri dei Vajolet, Punta Emma e di questo periodo mi è rimasta una traccia incancellabile di riconoscenza e profonda ammirazione. A proposito di arrampicata sulle Pale Rabbiose, eravamo con don Tita e la salita si svolgeva in un caminetto piuttosto impegnativo. Primo di cordata naturalmente lui, don Tita, poi la sottoscritta, indi mio marito. Durante la sosta a un terrazzino, inavvertitamente urto un sasso, cerco di fermarlo, ma cade nel camino e battendo tra le pareti rocciose si frantuma in mille pezzi. Sono costernata: sotto c’è mio marito, Mario. La scarica di sassi produce un frastuono, pare una mitraglia che spara a raffica proiettili: come potrà evitarli? Sono ansiosa e durante l’interminabile attesa sento la scarica che giunge fino in fondo al camino. Chiamo: «Mario, tutto bene? mi senti…?». Nessuna risposta. Don Tita scende veloce a corda doppia.

Io tremo dallo spavento. Sono attimi di tensione, batticuore, paura che mai dimenticherò. Un silenzio da incubo finalmente è rotto dalla sua voce che mi rassicura: tutto bene, grazie al cielo! Vedo spuntare una mano, poi l’altra, insanguinata. La ferita è superficiale. Lui è sorridente, non si preoccupa più di tanto, ma io alla vista di tutto quel sangue strisciato sulla roccia quasi svengo e tremo, ancora consapevole del pericolo che avevo procurato inavvertitamente.

Il complesso di pinnacoli conosciuto localmente come le Pale Rabbiose (Gruppo del Catinaccio)

Un bacetto di nascosto mi consola e mi alza il morale, mentre don Tita è occupato a sistemare la corda, probabilmente per non rimanere lì impalato “a porta el ciàr“, come si dice a Milano, a due giovani sposi che per consolarsi a vicenda si sbaciucchiano.

Dopo parecchi anni, tornati in Val di Fassa per ascoltare i suoi discorsi carichi di memorie, di gesti scanditi, di avventure incalzanti, le ricerche laboriose danno i loro frutti e una mattina…

Nuvole capricciose celavano le più alte cime quando al risveglio osservammo le condizioni atmosferiche per decidere la meta della nostra odierna escursione. Il campanile della chiesetta di Alba di Canazei pareva voler bucare quelle nubi che lo avvolgevano a strati, come un turbante. Il Gruppo del Sella e il Sassolungo indossavano ancora pigramente i mantelli lunari e ci apparivano proprio come Monti Pallidi.

Decidemmo di ricercare una vecchia conoscenza. Una guida alpina con la quale avevamo effettuato, parecchi anni prima, alcune arrampicate nella zona del rifugio Gardeccia, Le Pale Rabbiose, il Catinaccio, ecc.

Don Tita al termine della ferrata al Catinaccio d’Antermoia

Già in precedenti occasioni avevamo chiesto sue notizie, ma nessuno ci aveva fornito precise informazioni, per cui oggi ne attingeremo di persona rivolgendoci all’addetto dell’Azienda di Soggiorno di Canazei. «Come è possibile non conoscere in Val di Fassa un tale personaggio? Risiede a Campitello, una casa gialla vicino al ponte…».

La descrizione per l’ubicazione della sua abitazione fu molto prolissa di particolari, quindi la conversazione proseguì ricordando l’ammirevole figura di questa guida e le sue più significative imprese alpinistiche effettuate in Dolomiti. Giungemmo a Campitello. Nonostante le spiegazioni avute, fummo costretti a interpellare un’altra persona, la quale gentilmente si offrì di accompagnarci. Durante il breve percorso le rivolgemmo alcune domande, a cui rispose con particolari, dandoci l’impressione di una conoscenza di lunga data della persona oggetto della nostra attenzione.

Campitello era quasi deserta. Accanto alla fontana solo una bimba con bionde treccine, ancor più dorate da un timido raggio di sole, era impegnata a lavare gli abitini della sua bambola che attendeva nuda, muta e paziente, di essere nuovamente vestita. Una ripida scaletta in legno abbellita da una cascata di gerani rossi ci diede il benvenuto ancor prima che una signora, dall’aspetto semplice e avvolta in un grembiulone nero sul quale spiccava un collettino di pizzo bianco, venisse ad aprire la porta. Alla nostra richiesta ci fece transitare per un lungo corridoio. Alle pareti erano sistemate fotografie, quadri, stemmi, simboli, disegni tutti raffiguranti montagne o personaggi del mondo alpino.

In arrampicata sullo spigolo nord-ovest della Crepa (Pala) di Socorda 2446 m, sulla via aperta da don Tita Soraruf e compagni negli anni Quaranta. Foto: da Gulliver.

Bussammo all’ultima porta ed eccoci di fronte al nostro personaggio. Era seduto su una sedia a dondolo in controluce, accanto alla finestra. Alla nostra presenza inaspettata si volse, ci fece accomodare mentre noi tentavano di farci riconoscere come suoi lontani clienti. Iniziammo una piacevole conversazione. Ci apparve disteso, lo sguardo trasognato come davanti a una visione incantevole… Forse nei suoi occhi era rimasto l’incanto di vette illuminate dal sorgere del sole, l’estasi di sconfinati tramonti, la severità di pareti rocciose, quell’immensità di spazi tra montagne e cielo.

«Ecco là – ci indicò – le mie montagne!… purtroppo, oggi sono piene di ragnatele… così io chiamo tutti quei fili che collegano gli impianti di risalita, e di ragni cioè le persone che non rispettano la natura, non sentono il richiamo della montagna, non la amano e non la temono!».

Capimmo che le sue parole erano frutto di riflessioni lungamente ponderate quando, solo, trascorreva interminabili ore della giornata seduto davanti a quella finestra, ma erano espresse con un senso di calma, di rassegnazione e di bellezze godute. Abbiamo avuto l’impressione che per lui il tempo si fosse fermato all’epoca delle sue imprese più soddisfacenti. Nuovo vigore percepimmo nel suo discorso allorché estrasse da un cassetto un fascicolo contenente foto, ritagli di giornali, riviste riportanti relazioni delle sue ascensioni. Attimi di profonda emozione nel sentire quanto esprimevano quegli scritti e restammo ad ascoltarlo senza porre altre domande.

Lo spettacolare e solitario sottogruppo dei Dirupi di Larséch (Gruppo del Catinaccio)

Ricordammo le principali salite effettuate insieme, luoghi comuni, persone conosciute. Lentamente ci parve che la sua mente, il suo sguardo più attento e mobile rivivesse la gioia di quei momenti e un sorriso sempre più smagliante illuminava quel volto scavato da mille rughe come fessure nella roccia. Si rivolse quindi a nostro figlio Giordano di dodici anni che, attento fino ad allora, aveva avidamente assorbito ogni parola e gli disse: «La montagna ti può dare tanto… solo se tu l’ami e la rispetti. Affrontala in gioventù con prudenza, sempre… è fonte di inesauribili emozioni, esperienze, sogni che ti consentiranno domani di vivere dei suoi ricordi…».

Ci congedammo con una poderosa stretta di mano, la mano di una guida valorosa e felice di vivere oggi dei ricordi delle passate imprese. La porta si chiuse alle nostre spalle e uscendo da quel mondo, ci inebriò il profumo della legna stipata nel sottoscala, mista a quello dei gerani che ci sorrisero da ogni scalino.

Don Tita Soraruf ultima modifica: 2025-09-28T05:39:00+02:00 da GognaBlog

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3 pensieri su “Don Tita Soraruf”

  1. Io sono di Campitello… da bambino ho fatto più volte il chierichetto a don Tita. Ora sono prete come lui e vado in montagna, ho arrampicato e amato e rispettato “mia Crepes”.
    Grazie per questo articolo.
    Don Tita mi ha insegnato il silenzio, lo stupore e… la bontà! Del resto la bellezza salverà il mondo…

  2. Finalmente un articolo scritto bene, senza polemiche, insulti e quant’altro! Questa è la Montagna vera. da raccontare, per non irritare oltremodo i lettori: vero, Crovella e soci?

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