Gli anni che cambiarono l’alpinismo – 1
di Enrico Camanni
(dall’aggiornamento a La storia dell’Alpinismo di Gian Piero Motti)
L’avvento degli anni Ottanta si preannuncia con alcuni segni premonitori.
Sulle pareti vicine alle città i giovani discepoli dell’arrampicata libera bruciano in pochi mesi le tappe che avevano richiesto decenni di sacrifici ai loro padri. Il chiodo di progressione viene rapidamente messo al bando. Il settimo grado, ancora snobbato dai burocrati delle associazioni alpinistiche, è già ridicolizzato dai gesti dei nuovi danzatori. Anche l’alpinismo viene coinvolto, trascinato, disarcionato dalle antiche certezze. In montagna tira uno strano vento di fronda.

Intanto Nicolas Jaeger, uno degli uomini chiave della «velocizzazione», si prepara sulle Ande a un folle progetto, ai confini tra la cronaca e la fantascienza. Sui ghiacci della Cordillera apre difficili vie nuove, preferibilmente solo, senza assistenza né conforto. Nello stesso modo, d’altra parte, ha già «concatenato» il Pilier d’Angle e il Pilone Centrale del Frêney, sul Monte Bianco. Nel 1979, per approfondire la conoscenza con l’alta quota, il medico francese si isola per 60 lunghissimi giorni sulla cima del Nevado Huascaràn, a 6768 metri di quota. Infine si considera pronto per l’immensa Sud del Lhotse, in Himalaya, anticipando di una decina d’anni la storia dell’alpinismo. Il 25 aprile del 1980 affronta la parete e in due giorni di progressione solitaria supera 2500 metri di ghiaccio e misto. Lo vedono a 8200 metri, non lontano dalla cima del Lhotse Shar, poi una bufera di otto giorni cancella per sempre le sue tracce. Coltivava segretamente l’ambizione di proseguire fino alla vetta dell’Everest.
Sempre in Himalaya, ma due anni prima, i francesi Georges Bettembourg e Yannick Seigneur (sì, il «vecchio» inossidabile Yannick) avevano salito il Broad Peak in stile alpino. E un anno prima, precisamente il 16 maggio del 1979, gli inglesi Peter Boardman, Doug Scott e Joe Tasker avevano raggiunto la cima del terzo Ottomila della Terra, il Kangchenjunga, lungo il severissimo versante nord-ovest. Al ritorno a casa Boardman aveva scritto: «Pare che diventi sempre più fifone a ogni spedizione cui partecipo (Rivista della Montagna n. 38)». È finito il tempo degli eroi della montagna.
Intanto, sulle Alpi, Ivan Ghirardini sale in un solo inverno (1977-1978) le tre mitiche pareti nord: Cervino, Grandes Jorasses per lo sperone Croz e Eiger. Il solitario Ivan è l’unico tra i protagonisti emergenti a fare riferimento a motivazioni mistiche. Motivazioni dichiaratamente sportive hanno sorretto invece Jean-Claude Droyer, nell’estate 1977, sulla via Bonatti-Ghigo al Grand Capucin: soltanto nove chiodi di progressione su un itinerario che aveva segnato il trionfo dell’arrampicata artificiale. Si delineano nuove frontiere, crollano i vecchi tabù; una ventata di razionalismo neo-galileiano ridisegna i confini dell’alpinismo, soffiando via – con la forza di una fede laica e disincantata – le inibizioni del mito romantico. E allora, con la severa religione dell’allenamento, tutto diventa possibile, anche le tre austere vie della Brenva in una sola giornata: Major, Sentinella Rossa (in discesa) e Sperone. Ci prova con successo il francese Marc Batard, nell’estate del 1978.
L’alpinismo classico, cresciuto nella collaborazione e nel conflitto fra la tradizione valligiana e l’avanguardia cittadina, raccoglie gli ultimi frutti. Il 10 e 11 gennaio 1978 Arturo e Oreste Squinobal, Rolando Albertini, Augusto Tamone, Marco Barmasse, Innocenzo Nio Menabreaz e Leo Pession salgono con splendido stile la parete ovest del Cervino. Sette guide valdostane per uno degli ultimi problemi invernali delle Alpi. Nelle ore gelide del bivacco cantano tutti insieme: «Les valdôtains sont pas si fous de se quitter sans boire un coup». Dopo la cima, durante la discesa nella tempesta, cade e muore Albertini.

Il tempo della specializzazione
Nelle imprese di uomini come Jaeger, Bettembourg, Boardman, Tasker e Droyer ci sono già tutti gli indizi del mutamento. Ma mentre i primi quattro, alpinisti himalayani, non hanno fatto in tempo ad assistere alle performance di fine millennio perché sono morti prematuramente in montagna (come buona parte dei protagonisti degli anni Ottanta), Droyer invece è sopravvissuto perché, non a caso, la sua attività era l’arrampicata estrema protetta.
Questa differenza suggerisce uno dei temi chiave dell’alpinismo di punta contemporaneo: la specializzazione. Un tempo un bravo alpinista era bravo e basta; poteva, è vero, eccellere sul ghiaccio o sulla roccia; poteva preferire l’arrampicata libera o l’artificiale, privilegiare i cimenti invernali o le calde pareti illuminate dal sole, però se era un fuoriclasse lo era ovunque. Ma la generazione di Reinhold Messner è stata l’ultima che ha potuto permettersi di eccellere su tutti i terreni, dall’arrampicata dolomitica di alta difficoltà alle grandi montagne himalayane. Questo privilegio si è esaurito negli anni Settanta. Poi, con l’allenamento sistematico e la «promozione» dell’alpinismo al pari degli altri sport (alcuni direbbero «abbassamento»), si è assistito a una rapidissima accelerazione delle prestazioni e alla scomparsa di un protagonista illustre: l’alpinista completo. Esattamente come nella corsa, dove il centometrista non si sogna di competere con il mezzofondista o il maratoneta, anche in montagna i campioni si sono visti costretti a ritagliarsi un proprio segmento; pena l’anonimato, la frustrazione, oppure meno drammaticamente – l’uscita dal circuito d’élite in cambio di una dimensione più creativa e personale.
Nel valutare il fenomeno della specializzazione (che ha avuto indubbi riflessi anche sul piano psicologico e motivazionale, trasformando i connotati dell’alpinista di punta), occorre però distinguere tra l’ultimissima generazione figlia degli anni Ottanta e la generazione precedente, che ha rappresentato il tramite tra il «vecchio» e il «nuovo». Accanto allo stesso Messner spiccano due personaggi – Casarotto e Boivin – che meritano uno sguardo particolare, per quello che hanno espresso sia sul piano tecnico sia sul piano delle idee. Sono due tra gli ultimi esempi in cui l’uomo è ancora separabile dalle sue prestazioni, prima che la macchina degli exploit livelli ogni espressione in un inarrestabile processo di inflazione. Prima che l’eccezionale diventi parola di ogni giorno.

Reinhold Messner, tutti i riflettori su un uomo solo
Come un faro, le idee di Reinhold Messner hanno anticipato e orientato l’evoluzione dell’alpinismo himalayano. Nel 1975, con Peter Habeler, inaugura le spedizioni superleggere in Himalaya scalando l’Hidden Peak in stile alpino. Non sono tanto le difficoltà tecniche a rendere eccezionale l’ascensione (anche se Messner parla di qualcosa come due Nord del Cervino), ma è l’idea di poter arrampicare su un Ottomila come sulle Alpi a dischiudere le prospettive per il futuro. La replica arriva tre anni dopo, quando i due riescono a salire l’Everest, la cima più alta della Terra, senza fare uso di bombole a ossigeno. Anche se le circostanze sono completamente diverse dall’Hidden Peak (la via normale dell’Everest è in parte attrezzata da una spedizione austriaca), le due sfide costituiscono un trampolino di lancio dalle immense potenzialità.
La conferma arriva ancora da Messner, solo, nell’agosto dello stesso anno: sale e scende in tempo record la tormentata, selvaggia, pericolosa e bellissima parete di Diamir sul Nanga Parbat, forse la più limpida impresa della sua carriera. E Reinhold si ripete nel 1980, raggiungendo la vetta dell’Everest, ancora senza compagno e senza ossigeno, lungo il severo e sconfinato versante nord-ovest. È un’altra impresa leggendaria, che ricorda l’epopea di Hermann Buhl sul Nanga Parbat nel 1953. Ormai invischiato nel mercato del rischio, che pretende da lui la salita di tutti gli Ottomila, nel 1982 Messner mette nel carnet ben tre cime: il Kangchenjunga (con il generoso Friedl Mutschlechner), il Gasherbrum II e il Broad Peak. Due anni dopo, con Hans Kammerlander, ritorna all’avanguardia con la prima traversata in stile alpino di due Ottomila: i due Gasherbrum in un colpo solo; e nel 1985 risponde all’invidia di chi lo vuole finito dietro la macchina del business con la prima salita, in compagnia del fedele Hans, della parete nord-ovest dell’Annapurna, uno dei problemi himalayani sul tappeto. Infine, il 16 ottobre 1986, conclude sul Lhotse la sua «corsa» agli Ottomila, riportandone l’amarezza di un sogno trasformato in un affare.
Questa, in sintesi, la straordinaria attività di Messner negli ultimi dieci anni di impegno alpinistico. In seguito i suoi orizzonti si sono allargati ai ghiacci dell’Antartide e della Groenlandia, con due traversate in stile «pulito» che gli hanno procurato nuove e intense soddisfazioni. Ma sarebbe ridicolo ridurre la sua figura a un arido elenco di exploit, anche se si tratta di realizzazioni di valore assoluto: è innanzitutto il ruolo pubblico, infatti, che nel bene e nel male farà probabilmente dell’uomo di Funes l’ultimo prim’attore della storia dell’alpinismo. È curioso, perché era stato proprio Messner, sulla scia del Sessantotto, a contestare aspramente la figura dell’eroe, sostituendo con un foulard la bandiera in cima alle montagne.
In seguito, è stato lui a ridimensionare implacabilmente i mostri sacri, scoprendone i punti deboli e le contraddizioni, denunciando la retorica e l’ipocrisia della «lotta con l’Alpe». È stato ancora lui, infine, a mettere in piazza se stesso, scoprendo un po’ istrionicamente le proprie nevrosi, affermando con forza l’inutilità sociale di ogni prestazione alpinistica. Però Messner è stato anche l’ultimo, forse il solo alpinista, che abbia saputo parlare alle masse, perfezionando nel tempo un talento da grande comunicatore e sfruttando spregiudicatamente le opportunità dello sport-business. Un protagonista assoluto: acuto, carismatico, ingombrante, capriccioso, contraddittorio. Una star applaudita dalla gente comune e dileggiata dagli altri alpinisti. Un sano pervertitore delle leggi iniziatiche della montagna. Un uomo contro, anche se perfettamente inserito nella macchina consumistica dello spettacolo. Un distruttore di miti. L’ultimo mito.
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L’alpinismo NON è cambiato per nulla: gli alpinisti erano servitori dei valori del potere maschile dominante negli anni ’30 e tali sono rimasti negli anni ’80 e fino a oggi. Mai una minima ribellione ai valori sociali dominanti. Cambio’ LO STILE: diciamo da allegretto ad andante mosso, ma la melodia non cambio’. Caro Messner e combriccola sempre umili, ossequiosi servitori….. ovviamente si parla dei paradigmi fondativi della società, non della sua cosmesi…….
L’alpinismo NON è cambiato per nulla: gli alpinisti erano servitori dei valori del potere maschile dominante negli anni ’30 e tali sono rimasti negli anni ’80 e fino a oggi. Mai una minima ribellione ai valori sociali dominanti. Cambio’ LO STILE: diciamo da allegretto ad andante mosso, ma la melodia non cambio’. Caro Messner, sei sempre stato un umile , ossequioso servitore….
Sono d’accordo con Alberto Benassi @2! Grande impresa
La società cambia, l’alpinismo … pure. Sarebbe strano se nn accadesse.
Forse perchè la gente comune non capisce nulla di alpinismo…?
Molto bene Cla, una preghiera ci sta bene.
Forse vi siete dimenticati Guido Machetto e Gianni Calcagno nel 1975 al Tirch Mir. Solo perchè non è un 8000??!?!?
Oggi : San Rocco, che assieme a San Pietro è il protettore di tutti gli arrampicatori.
Una preghiera.