Metadiario – 144 – Gogna non potrà mai capire
Un’esperienza che non ho mai fatto è quella dell’Oktoberfest, il mitico festival della birra che si tiene a Monaco di Baviera ogni anno. Più d’uno mi aveva raccontato di quanto “mistico” potesse essere quel “viaggio”. Anche per Bibi è la prima volta. Sabato 3 ottobre partiamo, non con il furgone bensì con la mia FIAT 128, normalmente usata da Nella. Arriviamo nella bella città tedesca verso le 14: senza ulteriori indugi ci fiondiamo in uno degli enormi capannoni, già strapieno a quell’ora. Prendiamo posto ad un tavolone dove c’è gente di tutte le età e di parecchie nazionalità diverse. Non esiste alcuna possibilità di limitarsi, la caraffa più piccola che ti portano è quella da litro. Notiamo subito però che la birra, pur essendo buona, non ha elevata graduazione alcolica. Presto la baraonda si fa totale e nella bisboccia generale s’intrecciano dialoghi vari, per lo più senza senso. Alle 16, al terzo boccalone, proviamo entrambi l’impellenza di andare in bagno. Ci dirigiamo alle cosiddette toilet, divise ovviamente per genere, anche se ormai qualcuno non è più in grado neppure di distinguere a che genere appartenga… L’ingresso nel locale è uno choc. Mi trovo sospinto in una folla di gente urlante: inutile fare resistenza. Il moto di questa massa umana e informe è rivolto a un quadrato stanzone finale. Su tre lati scorre all’altezza giusta un torrentello d’acqua incanalata. Lo schiamazzo è totale, tutti ridono di questa situazione pazzesca. Imparo che chi si tiene ai lati del flusso ha possibilità di orinare nei canali laterali prima di chi, al centro, è costretto ad aspettare di più per raggiungere il canale di fondo. Questi ultimi però hanno un vantaggio: quello di poter espletare in relativa sicurezza visto che si possono appoggiare con una mano al muro. Quelli ai lati invece sono soggetti a forti pressioni laterali senza alcuna possibilità di afferrarsi ad alcunché… Il getto d’orina è di una violenza e durata inusitate, una pisciata “eterna”. Cui segue l’ultima avventura, quella di farsi strada in senso opposto per riguadagnare l’uscita.
Riguadagnato il tavolo (qualcuno ci ha tenuto il posto e subito gli ricambieremo il favore) resto in attesa di Bibi per almeno una decina di minuti. Infatti la situazione dei bagni femminili non è così caotica, ma in compenso richiede grande resistenza per non farsela letteralmente addosso…
Quest’operazione siamo costretti a ripeterla altre due volte. Non di più, perché siamo belli sbronzi e abbiamo il problema di trovare un buco per la notte. Verso le 18.30, tenendoci per mano, usciamo dal capannone e in qualche modo riusciamo a ritrovare la macchina. Siamo così su di giri che ci sembra di poter continuare a stare così per ore, magari tornare ancora dentro per un ultimo rabbocco… Invece succede che ci risvegliamo alle 20.30, dopo un lungo assopimento senza sogni, increduli d’essere crollati così miseramente.
A questo punto abbiamo anche fame, non tantissima a causa del chilozzo di bretzel con senape mangiato nel pomeriggio per poter bere meglio la birra. Comunque qui in Germania è meglio stare attenti, perché dopo una cert’ora nessuno ti dà più niente da mangiare. Dopo un piatto veloce di qualcosa, innaffiato da un’altra bella birra, ci dedichiamo alla ricerca del letto. La parola besetz la leggiamo subito sui cartelli esposti, ma noi riusciamo a riderci sopra come idioti scommettendo su quando riusciremo a trovare qualcosa. Sono innumerevoli le volte che ci fermiamo di fronte a qualche pensioncina o alberghetto. O è besetz oppure ci dicono a voce che non hanno posto. Nel frattempo guido verso Garmisch-Partenkirchen, la nota stazione invernale di sci. Da München sono 88 km di strada, punteggiata da parecchi esercizi alberghieri. Tutti besetz. Quando arriviamo a Garmisch, siamo quasi alla disperazione, pur ridendone. Alle 0.30 in un posto, tenuti da italiani, ci sistemano in soffitta, in un loculo con letto singolo, spiegandoci che è il posto dell’aiuto-cuoco che questa notte non dormirà lì.
Con l’aiuto di un grappino affrontiamo la scomoda notte, con la sensazione che finito un incubo ne incominci un altro: ma in effetti crolliamo ancora e ci svegliamo alle nove del mattino dopo.
Per questa domenica ho in programma di andare a fare una gita sotto alla Lalidererwand, la mitica parete di 900 metri di altezza e di non so quanti chilometri di larghezza sulla quale sono state scritte pagine di storia dell’alpinismo. Oltrepassiamo l’area protetta del “Großer Ahornboden” (il grande parco d’aceri), monumento naturale all’interno dell’Alpenpark Karwendel, dove gli aceri e le loro foglie rosse ci entusiasmano. Lasciamo l’auto alla Eng Alm. La giornata è fredda e grigia, però di mano in mano che saliamo la parete è ben visibile. Non siamo in gran forma, inoltre dobbiamo far presto per via del dovuto ritorno a Milano. Arriviamo comunque alla Falkenhütte. Nel tragitto racconto a Bibi qualche episodio di storie eroiche su questa parete.
Tra fine ottobre e il 1 novembre 1987 si tenne a Biella un gigantesco convegno alla conclusione del quale fu fondata Mountain Wilderness International, con l’approvazione delle storiche Tesi di Biella. L’evento fu organizzato dal Club Alpino Accademico Italiano assieme alla Fondazione Sella di Biella e vide ospiti illustri da tutto il mondo.
Dopo la prima guida di arrampicata del Finalese (1976), scritta da Grillo, Calcagno e Vittorio Simonetti, e dopo la seconda (di Grillo e Andrea Parodi, 1983) c’era assoluto bisogno di un’altra pubblicazione che raccogliesse finalmente (e mettesse in ordine) le disordinate relazioni sparse nei vari quaderni dei bar. Se ne occuparono Andrea Gallo e Giovannino Massari, e io ne fui l’editore. Il 15 novembre 1987 mi aggiravo con Bibi e il suo cagnolino Macchia alla ricerca delle nuove falesie che stavano attrezzando Fulvio Balbi e soci. Un giorno lo incontrai su quella bellissima scogliera di pietra sospesa che era stata chiamata Falesia del Silenzio, sulla parte sinistra e in alto della solitaria valle di Rian Cornei. Fulvio e i suoi amici stavano lavorando sodo, noi ripetemmo subito qualche itinerario, lodandolo per l’impegno e l’esperienza con cui posizionava gli spit. Era una bellissima giornata, ci sentivamo a nostro agio. Verso la fine pomeriggio, quando Bibi ed io stavamo per scendere, prima di accomiatarci raccomandai a Fulvio di dare tutti i disegni e le relazioni ad Andrea Gallo, per la completezza della guida. Lui mi rispose che non lo avrebbe fatto, perché il suo impegno non era determinato dalla voglia di apparire, ma da una passione personale che aveva bisogno di particolare privacy. Lo guardai con un misto di incredulità e di tenerezza. Seppi in seguito che aveva battezzato uno di quegli itinerari che aveva chiodato in quel periodo Gogna non potrà mai capire.
Dopo quella prima edizione, che fu “bruciata” in poco tempo, lo stesso Gallo iniziò la lavorazione di una guida successiva, che già da subito si presentava grande il doppio, a causa della crescita smisurata degli itinerari. E alla fine, nell’edizione della guida seguente (1990), le relazioni furono consegnate, eccome. E, perfino, Fulvio acquistò una parte di quote del negozio Rock Store, divenendone socio. Ancora oggi Fulvio ed io, quelle rare volte che ci vediamo, ridiamo di quell’episodio a più non posso.
Ho già accennato a uno dei compagni che molto spesso accompagnava Bibi e me, in genere a Finale: Marco Milella.
Mai conosciuta persona più abitudinaria, quasi ossessiva nelle sue manie o idiosincrasie. Ci raccontava assai poco di lui, poco o nulla di sua moglie: sapevamo solo della sua casa a Montecarlo e vedevamo il suo stile di vita. La sua Mercedes era fuori serie, assemblata a Stoccarda con sue precise richieste tecniche. Marco era in effetti un grande guidatore e non ricordo che ci abbia mai dato, neppure una volta, sfoggio volontario della sua abilità. Fumava tre sigarette al giorno, in corrispondenza dei suoi tre fine pasto. Con noi, visto che a mezzogiorno non si mangiava mai, si concedeva la sigaretta dopo la merenda. Aveva un senso dell’umorismo tutto suo, che io apprezzavo molto perché non feriva mai nessuno. Se mi vedeva pensieroso, si rivolgeva a Bibi o ad altri eventuali compagni e diceva: “Il Capo è cupo…!”. Altro preciso ricordo che ho di lui, oltre alla capacità arrampicatoria (tecnicamente eravamo più o meno allo stesso livello), è il periodo che abbiamo condiviso assieme durante il nostro viaggio a Buoux. Dormivamo nella stessa stanza, dunque avevamo lo stesso bagno: mi insegnò un trucco fondamentale, quello di far scorrere l’acqua del rubinetto mentre si è chiusi in bagno, allo scopo di coprire eventuali quanto imbarazzanti rumori…
Il giorno di Natale 1987 Bibi ed io partimmo in tardo pomeriggio con destinazione Marocco. Trascorsa qualche ora di riposo notturno in qualche luogo imprecisato della Francia, ci fermammo per la notte del 26 dicembre poco prima di Granada. Il 27 traversammo lo stretto di Gibilterra e, approdati a Ceuta, arrivammo in serata a Chefchaouen. Prima di partire avevamo fatto abbondanti provviste di formaggio grana, fornitoci dall’amico Ludovico Bertini: lo stesso ci aveva anche omaggiato di una dozzina di bottiglioni da due litri di barbera, più o meno di sua produzione. Evidentemente sia Bibi che io avevamo un fisico bestiale, in quanto ricordo bene che prima del nostro arrivo a Chefchaouen i bottiglioni interamente bevuti erano già due! E naturalmente quella sera, scelto un buon ristorante nel centro della cittadina, non ci trattenemmo dall’assaggiare anche il buon vino locale, prodotto a dispetto della religione.
La mattina dopo (28 dicembre), prima di ripartire, facemmo un giro al mercato. Ci imbattemmo in qualcuno che ci voleva vendere un pezzo di marocchino nero grande letteralmente come un mattone. Trattando in modo opportuno, riuscimmo a comprarne solo una modica quantità, che per i nostri gusti era più che sufficiente, aggiungendo quindi vizio ad altro vizio…
Nel pomeriggio viaggiammo fino a Meknes: ricordo una visita della città con il fastidio di torme di ragazzini che ci chiedevano ogni genere di cosa. Ma anche lì, dopo un po’ ci si fa l’abitudine. Il viaggio era stato bellissimo, con un Marocco verde di stagione. E anche Meknes è qualcosa che merita, con colori forti e odori altrettanto. Ci aiutavamo con una guida Hachette, davvero preziosa. Il 29 ci trasferimmo a Béni Mellal, il 30 dirigemmo alle famose cascate d’Ouzoud, bellissime, e continuammo fino a Marrakech. Anche qui ci concedemmo un lussuoso ristorante, con tanto di cous-cous presentato nelle tradizionali pentole tajine di terracotta e seguenti danze del ventre. Il giorno dopo, lunga visita al gigantesco suk. Lo scopo era anche quello di comprare un bel tappeto, ma alla fine, dati i prezzi non proprio favorevoli e dopo estenuante trattativa, ci accontentammo di un bel ghilim. Avventuroso anche il giro notturno per Marrakech, considerato che era pure l’ultimo dell’anno.
Il tempo era sempre bellissimo, non una nube in cielo e temperatura perfetta. Era il momento di iniziare la nostra avventura verso il Toubkal, la cima più alta dell’Atlante. Avevamo con noi gli sci da scialpinismo: Bibi non aveva mai messo ai piedi quel genere di attrezzi, né aveva mai sciato fuoripista. Ma confidavo che non avrebbe avuto alcun problema. A fine mattinata, a Imlil, ci mettemmo d’accordo per il noleggio di un asinello e relativo conducente. Questi era un ragazzino simpatico, in pratica poco meno che adolescente. Nel pomeriggio ci avviammo verso quello che allora si chiamava refuge Neltner, di proprietà del Club Alpino Francese. Il somaro trottava senza farsi troppo pregare (in effetti non lo avevamo caricato più di tanto), perciò in due o tre ore arrivammo fino a poco sotto il rifugio: qui incontrammo finalmente la neve e dunque calzammo scarponi e sci. L’asino era contentissimo. Raggiungemmo il rifugio a fine pomeriggio: il ragazzino se ne tornò al villaggio con l’accordo di tornare il giorno dopo per una certa ora.
Entrati nel rifugio, l’impressione era quella d’essere in una bolgia. Il locale aveva le finestre e persiane chiuse, perciò la luce che vi regnava era quella delle candele che divoravano il poco ossigeno rimasto a disposizione dai fornelli a gas in una stanza fumosa all’eccesso (di focolare, sigarette, pipe, sigari, hascish e quant’altro) e gremita da una mezza folla di una trentina di alpinisti. La maggior parte erano spagnoli, incapaci di alzarsi e condurre vita normale dopo la bisboccia della notte di Capodanno. C’era anche una coppia di “custodi”, stravaccati in posizione dominante ma del tutto nullafacenti, anzi intenti a fumare il narghilé. Sapevamo che non c’era certo servizio di ristorazione, pertanto dovetti ritagliarmi un piccolo spazio al tavolone e piazzare il mio fornelletto. Il tavolo era quanto di più lurido e appiccicoso si possa immaginare. Bibi non osava neppure toccare la superficie e mi chiese: “Ma, Ale, i rifugi di montagna sono tutti così?”.
Intanto la folla che ci contornava aveva riacquistato perfino troppa vivacità. Giravano borracce di vino, qualcuno ce ne offrì. Il bicchiere, questo sconosciuto. Bibi rifiutò sorridendo, io ne approfittai una volta. Il baccano aumentava. Terminato il nostro pasto, assai frugale ma allietato da una bella fetta di grana con pane comprato a Imlil, ci dirigemmo al dormitorio. Qui non si parlava di disordine, parola non sufficiente a descrivere il casino totale. Qui avevo schifo perfino io a toccare le coperte, fetide e umidicce. Stendemmo i nostri sacchipiuma uno vicino all’altro, ma purtroppo li dovemmo adagiare su dei pagliericci con ere di sporcizia stratificata. Non avevo pensato infatti che ci fosse bisogno dei nostri materassini isolanti, lasciati nel furgone…
Insomma, una notte infernale, anche perché gli schiamazzi andarono avanti fino alle 24 e forse oltre. Alzarci poco prima dell’alba fu una liberazione. L’orrendo russare di alcuni ci aveva allietato per ore. Bevuto un po’ di tè bollente e ingoiati due o tre biscotti, uscimmo finalmente all’aria pura dei 3207 metri. Alle primissime luci calzammo gli sci, già montate le pelli, e c’incamminammo, soli, verso la nostra meta. Innestai una marcia giudiziosa, il tempo era bellissimo e non c’era alcuna fretta. Tutta la salita si svolge su un versante esposto a occidente, pertanto non c’era alcuna speranza che il sole potesse ammorbidire la neve. Quando il pendio cominciò a diventare più ripido, ci fermammo per mettere i coltelli laterali. Come ero sicuro che fosse, Bibi non ebbe alcun problema a seguirmi nelle mie diagonali e rari zig-zag. Così, quasi senza accorgercene, ci ritrovammo al sole della vetta dello Jebel Toubkal, a 4167 m. Anche la discesa non ci riservò sorprese, tanto che arrivammo al rifugio ben prima di ragazzino e asinello…
Altra bella zona del Marocco è la parte desertica, cui non potevamo rinunciare. Dopo aver valicato lo spartiacque della catena dell’Atlante, al colle tra Tichka e Aguelmouss, la sera del 3 gennaio ci fermammo vicino alla caratteristica cittadina di Ouarzazate, impiegammo tutto il 4 per raggiungere Tamtetoucht, un villaggio vicino alle Gole di Todra. Il 5 mattina facemmo un non ben identificato tiro di corda di 6a sulla splendida roccia delle gole: ma non ne avevamo voglia, ci interessava assai più andar per villaggi.
La sera eravamo a Erfoud, alle soglie del Deserto del Sahara. Il mattino dopo infatti ci spingemmo il più possibile a sud per poter assaporare l’atmosfera del deserto. Ma il tempo a nostra disposizione stringeva, così alla sera eravamo ancora a Erfoud.
Da lì, la mattina del 7 gennaio ci dirigemmo verso nord, in un paesaggio sempre variato e stupendo, attraversando Al-Rashidiyya, Boumia e Azrou, fino a raggiugere un altro gioiello del Marocco, Fes. Lì, oltre alla bella visita della città, ci sottoponemmo alla dura prova dell’andare a vedere il luogo dove venivano conciate le pelli, un inferno dantesco.
Volevamo, se non fare un bagno, almeno pucciare i piedi nell’Oceano Atlantico, così ci dirigemmo alla città di Assilah. Dormimmo appartati sulla spiaggia.
Il 9 mattina raggiugemmo Tangeri, altra bellissima città che ci dispiacque non poter visitare più di tanto perché volevamo prendere il traghetto per Gibilterra. Infatti la sera eravamo già nei pressi di Malaga. Arrivammo l’11 gennaio a Milano, giusto alla fine dei bottiglioni di vino…
26Scopri di più da GognaBlog
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.
Grande viaggio, di quando il viaggiare era veramente foriero di scoperte di ambienti e paesi completamente diversi.
Tanta invidia, prima o poi proverò anch’io il Toubkal.
Grazie di cuore Quanti ricordi Finale e il fritto misto di verdure superbo per me vegetariana! Devo rintracciare Ermanno Nerini anche per la val di Mello! Marrakech e i muli per salire su Atlas jamal Al Fnaa dove ti tirano sul collo il serpente (ai miei figli);ahh per la foto di rito!
Ho vissuto 3 anni bellissimi in Marocco, tra Agadir e Mohammedia, e conosco bene tutti i luoghi che è ha nominato. Con il suo racconto ha risvegliato in me la nostalgia e la voglia di tornarci un’ultima volta.
Grazie.
Belli questi racconti tra storia e memoria… Anche se non ci siamo mai stati insieme mi ricordano di notti stellate in tenda, di viaggi con i mezzi pubblici e avvicinamenti a piedi da Finale, di quando ci perdemmo nella Grotta delle Fate. Grazie Alessandro, un inno ai bevitori supremi.
Come sempre, fantastico racconto!
Approfitto di questo spazio per un saluto a Fulvio del rock storie a Finale, persona gentilissima e competente, con cui ci siamo intrattenuti piacevolmente nella prova di alcune scarpette di nuova concezione, che poi ovviamente non abbiamo preso :-/… grazie ancora della pazienza Fulvio !! a presto !