Brillante intervista a uno dei più grandi sportivi italiani che il 28 febbraio 2021 ha compiuto 70 anni e si racconta: «Il nome Alto Adige non va cancellato, essere italiani è una fortuna enorme: la mia più grande emozione l’inno di Mameli sul podio».
I ricordi di Gustav Thöni
di Aldo Cazzullo
(pubblicato su corriere.it del 7 febbraio 2021)
L’hotel di famiglia, Bellavista-Schoene Aussicht, è chiuso. Ovunque cumuli di neve immacolata: non si scia. Nella teca, quattro Coppe del Mondo, tre medaglie olimpiche, sette mondiali, e la foto di una splendida ragazza bionda: «Lei è Ingrid. È stata la mia prima fidanzata: io avevo ventun anni, lei diciotto. È stata anche l’ultima. Abbiamo tre figlie e dodici nipoti».
Oggi cominciano i Mondiali di sci a Cortina. L’inviato del Corriere a Sapporo ’72 — dove lei fu il secondo italiano a vincere un oro olimpico nello sci alpino, vent’anni dopo il leggendario Zeno Colò — scrisse che durante i Giochi le erano state rivolte 107 domande. A 84 lei rispose con un monosillabo.
«Come dice il Vangelo? “Sia il vostro parlare: sì, sì; no, no. Il di più viene dal Maligno”».
Ma per i lettori del Corriere dovrebbe fare uno sforzo.
«Proviamo».
Gustav o Gustavo?
«Tutti e due. Ho due nomi: uno tedesco, uno italiano. Ma sempre io sono».
Lei si sente italiano?
«Io sono italiano».
Südtirol o Alto Adige?
«Tutti e due. È la stessa terra».
Ora vogliono eliminare «Alto Adige». Messner dice che è giusto.
«È sbagliato. Io sono profondamente legato alla nostra piccola patria alpina; questo non mi impedisce di essere profondamente legato all’Italia. Anche i siciliani sono orgogliosi della loro meravigliosa isola; ma non sono certo meno italiani per questo».
Lei è stato in Sicilia?
«Certo. Ho anche sciato sull’Etna».
È capace a nuotare?
«Sì. Anche se non sono un grande nuotatore… Quando le figlie erano piccole andavamo al mare a Caorle, a Cesenatico, all’Elba».
Cosa provò quando sentì suonare l’inno di Mameli sul podio olimpico?
«La più grande emozione della mia vita. Sono stato anche portabandiera ai Giochi di Innsbruck ’76, vede la foto con il tricolore?, e pure a Lake Placid ’80. Ho anche la fiaccola di Torino 2006, sono stato tedoforo…».
Lei con le sue vittorie portò l’Alto Adige in Italia.
«All’inizio qualche giornalista alimentava un pregiudizio negativo nei nostri confronti. Ci consideravano dinamitardi».
Saltavano i tralicci.
«C’era stata una lotta per un’autonomia reale: un tempo per noi italiani di lingua tedesca era molto difficile avere una carica negli uffici pubblici. Ma la mia generazione non ha mai avuto problemi. Siamo una zona di confine, mio papà Giorgio ha fatto il maestro di sci a Bormio e a Madesimo, con i lombardi ha sempre avuto un bel rapporto. Io ho gareggiato per l’Italia in tutto il mondo, e mi sono sempre trovato benissimo. E ho portato con orgoglio la divisa della Guardia di finanza».
Oggi non c’è tutto quest’orgoglio. Si tende a pensare che essere italiani sia una sfortuna.
«Essere italiani è una fortuna clamorosa. Non esiste al mondo un Paese così ricco di storia e di bellezza. All’estero lo sanno; e ci invidiano».
Con gli austriaci ha mai avuto problemi?
«No. Da ragazzo il mio mito era Toni Sailer: sfogliavo i libri con le foto delle sue vittorie ai Giochi di Cortina, poi l’ho conosciuto quando era direttore tecnico dell’Austria. Sono amico di Franz Klammer, il grande discesista: un festaiolo, molto più espansivo di me, sono anche andato al suo sessantesimo compleanno».
Klammer nel 1975 vinceva tutte le discese; ma lei, slalomista, sulla mitica Streif di Kitzbuhel arrivò a tre millesimi da lui. Non avreste dovuto finire ex aequo?
«Avremmo potuto. Purtroppo scattò il cronometro, e indicò un centesimo in più. Ma fu sfortuna, non truffa».
È la pista più pericolosa.
«Ma anche la più tecnica, quindi adatta a me. Mi è sempre piaciuta la discesa, anche se perdevo un po’ nei piani».
Non aveva paura?
«Se hai paura, meglio che cambi sport. E poi alla partenza ero troppo concentrato per sentire emozioni».
Ghedina si è fratturato almeno dieci volte; lei mai.
«Non ho avuto cadute gravi. Una volta nella libera di Schladming ero già per terra, ma sono riuscito a tirarmi su; anche se non ho mai capito come».
Il 1975 è anche l’anno del parallelo della Val Gardena: lei e Stenmark vi giocaste tutto nell’ultima discesa.
«Be’, lì un po’ di tensione la sentivo. Era una gara a eliminazione, non finiva mai…».
Infatti Stenmark saltò. C’è un video su Youtube: lei ha appena vinto la sua quarta Coppa del Mondo, ma non esulta…
«Non si esulta mai quando un avversario cade».
Val Gardena, la storica vittoria di Thoeni su Stenmark nel parallelo: https://video.corriere.it/sport/thoeni-storica-vittoria-parallelo-val-gardena-contro-stenmark/87f94652-67b4-11eb-92aa-881f0caf741f
E risale poi la pista per stringergli la mano.
«D’istinto, non per calcolo. Pochi giorni prima avevamo festeggiato i suoi 19 anni, abbiamo una foto mentre brindiamo».
Chi è per lei Stenmark?
«Ingemar Stenmark è il più grande slalomista di tutti i tempi».
Eravate amici?
«Insomma…Io com’è noto non sono un chiacchierone; ma lui parla ancora meno di me. È nato in Lapponia, vicino al Circolo polare artico…».
In confronto Trafoi è ai Tropici.
«Ogni tanto scambiavamo qualche parola in tedesco».
La prendevano in giro. Felice Andreasi le fece un’imitazione abbastanza feroce.
«Confesso che mi dava un po’ fastidio. Ma rivederla adesso mi diverte».
Da chi ha imparato l’italiano?
«Una nostra cugina aveva sposato un calabrese e si era trasferita a Gioia Tauro. Ma lui morì, e lei tornò qui a Trafoi con due bambini. Giocavamo insieme: così loro impararono il tedesco, e io l’italiano. Adesso ci sono meno occasioni di incontro».
Come mai?
«In ogni valle c’erano militari italiani, alpini, carabinieri, che frequentavano i bar, a volte trovavano moglie, e si fermavano; mentre i giovani altoatesini andavano a fare il militare in Piemonte o al Sud. Invece adesso tanti ragazzi che non lavorano nel turismo parlano male italiano. È un peccato».
Si racconta che nell’inverno 1951, quando lei nacque, a Trafoi caddero sette metri di neve, e il medico arrivò all’ultimo momento con gli sci.
«Leggende. In effetti però era nevicato molto. Fu un parto difficile: in casa, con mia mamma Anna che aveva quasi quarant’anni. Il dottore ci salvò entrambi. Ero il primo figlio».
Quando ha imparato a sciare?
«Più o meno quando ho imparato a camminare. Il nonno mi fece i primi sci con due assi di legno, ammorbiditi nell’acqua bollente per curvare le punte. Ne ho ancora uno. L’altro non si trova più… Non c’erano scarpe della mia misura, erano tutte troppo larghe: quando mi toglievo gli sci restavo scalzo».
Come si chiamava il nonno?
«Giorgio come mio padre. Alpinista: era stato guida per i turisti della Belle Epoque, poi per i Kaiserjaeger durante la Grande Guerra, il fronte passava qui vicino. Faceva pure il cantoniere: ripuliva a mano dalla neve la strada dello Stelvio. Ed era cacciatore».
Quali animali cacciava?
«Tutti. Anche la volpe, per la pelliccia».
Lei crede in Dio?
«Molto. Ho anche fatto il chierichetto».
È vero che era amico del parroco?
«Il vecchio parroco era stato trasferito, e pensavamo che a Trafoi non avrebbero mandato più nessuno, per poche decine di abitanti… Mio cugino Rolando e io stavamo girando in bici sul piazzale della chiesa, quando vediamo arrivare un motociclista su una Bmw, con gli occhialoni, senza casco, che ci dice: “Siete voi i ragazzi veloci? Io sono il nuovo meccanico delle anime”. Era il parroco: Vigil Klamsteiner, detto Gili. Gli insegnai a sciare e lo aiutai a riparare il tetto della chiesa. Divenne il mio primo tifoso. Quando vinsi l’oro nel gigante a Sapporo fece suonare le campane».
Nello slalom speciale lei fu argento, e Rolando bronzo.
«Potevamo fare meglio, ma in prova avevamo beccato un palo in testa, e nella prima manche siamo stati troppo prudenti. Comunque fu bellissimo: due Thöni sul podio. Da bambini facevamo i primi slalom piantando i rametti nella neve. Poi andai nel bosco a prendere gli alberi più sottili, per togliere la corteccia e farne dei pali. Talora colorati di rosso e blu. Al disgelo salivo sullo Stelvio in bici».
La sua prima vittoria fu il trofeo Topolino.
«Sul podio mi diedero una corona d’alloro. Purtroppo non ce l’ho più. Mia zia la usò per cucinare».
Nell’estate del ’69 andò a sciare in Australia.
«Fu una grande avventura. Cambiai cinque aerei: Milano, Roma, Beirut, Nuova Delhi… non si arrivava mai. A Thredbo al mattino vedevo i pappagalli variopinti che volavano tra gli alberi pieni di neve».
Com’era gareggiare all’epoca?
«Le piste non erano levigate come adesso, non esisteva la neve artificiale: quando nevicava poco, nelle curve spuntava la terra; quando nevicava troppo, si creavano buche tremende… Non c’erano reti, nemmeno sulla Streif; al massimo qualche steccato. Al traguardo si arrivava in mezzo al pubblico».
Lei inventò il passo-spinta.
«Un semplice accorgimento per girare meglio senza perdere velocità. Gli sci erano molto più lunghi: 2 metri e 8 quelli per lo speciale; oggi sono un metro e 65. Allora ognuno aveva un suo stile. Adesso sono bravissimi, ma tutti uguali».
Grazie a lei l’Italia scoprì lo sci.
«Prima vincevano solo austriaci, tedeschi, francesi. Era francese pure il nostro direttore tecnico, prima dell’arrivo di Mario Cotelli. La gente si appassionò. E siccome aveva messo qualche soldo da parte, cominciò ad andare in montagna. Ora purtroppo si scia meno. Costa troppo. E ci sono molti altri sport. Gli snowboard, le palestre…».
Quest’inverno poi non si scia proprio.
«Che angoscia. Mi fa quasi piangere: è stato il primo Natale della mia vita in cui non ho messo gli sci. Poi ho fatto due gite di sci alpinismo, con le figlie. Almeno noi qui abbiamo la vista delle montagne. Non oso pensare a chi ha dovuto passare il lockdown chiuso in un piccolo appartamento al quinto piano».
A Berchtesgaden, dove Hitler aveva il suo Nido dell’Aquila, il 7 gennaio 1974 arrivarono cinque italiani nei primi cinque posti: Piero Gros, lei, Erwin Stricker, Helmuth Schmalzl, Tino Pietrogiovanna detto l’Elicottero perché sciava a braccia larghe…
«Sì, Tino sbracciava un po’… Eravamo un gruppo di amici: sempre insieme, giocavamo anche a calcio e a pallavolo. Ci chiamavano la Valanga Azzurra. Il più giovane era Paolo De Chiesa, molto simpatico. Certo, c’era rivalità; ma questo aiuta. All’inizio un po’ mi copiavano. Poi qualcuno in allenamento andava anche più forte di me. Ho sempre dato il meglio in gara».
Gros ha detto che lei avrebbe potuto essere più capitano, prendere le parti della squadra; invece stava sempre zitto.
«Be’, la cosa non dovrebbe stupire…».
A cosa si riferiva Gros?
«Alle questioni con la Federazione: sui premi, sui materiali. Ma io non amo le discussioni. In tanti anni di sport non ho mai litigato con nessuno».
Però, quando arrivò secondo nello speciale a Innsbruck ’76, con Gros primo, ebbe un gesto di stizza.
«Ero arrabbiato; ma con me stesso. Non avevo sciato come avrei potuto».
Ai Mondiali di Sankt-Moritz 1974, Gros era in testa dopo la prima manche; lei ottavo. Vinse lei con una rimonta incredibile. Piero inforcò una porta.
«Feci la discesa perfetta, perché non avevo nulla da perdere».
In quella squadra c’era anche Fausto Radici, morto suicida.
«Un grande dolore. Eravamo amici, spesso dividevamo la stanza. Veniva da una famiglia bergamasca, molto ricca. Non si è mai capito cosa sia successo».
Dopo il ritiro, lei scoprì Alberto Tomba.
«No, era già nella squadra C. Davo una mano al capo dello staff, che era Pietrogiovanna. Vidi Tomba saltare tre volte in una manche; ma mi piacque molto. Tino mi disse: “Lascia stare; è uno di Bologna, un figlio di papà”. Invece era un campione».
Lei divenne il suo allenatore personale.
«Conservo una lettera di Alberto, in cui scrive che ognuno ha un po’ cambiato l’altro; io introverso, lui esplosivo… Non è vero che non avesse voglia di allenarsi. Non era mattiniero; e d’estate devi essere sul ghiacciaio alle 7, perché alle 9 la neve è già molle. Ma con gli sci ai piedi si impegnava moltissimo».
Vinse più slalom di lei, ma una sola Coppa del mondo.
«Io avrei potuto vincere più gare, ma per calcolo mi frenavo, pensando alla classifica generale. Lui avrebbe potuto vincere almeno altre due Coppe, se non avesse tirato in ogni gara. Un anno saltò cinque volte di fila. Comunque a lavorare con lui mi sono divertito moltissimo».
Più che a gareggiare?
«No. Correre è la cosa più bella; ma non si può fare in eterno. Ho provato con una ditta di abbigliamento; non era il mio campo. Dobbiamo accettare i passaggi della vita».
L’intervista più ricca che si trova negli archivi è di sua moglie Ingrid, nel 1975, a Gente. Titolo: “Gustavo è bellissimo, bravo e buono”.
«Le solite esagerazioni giornalistiche».
Racconta che lei le scriveva lunghe lettere.
«Non è vero».
Non scriveva lettere?
«Sì. Ma non lunghe».
Dice Ingrid che lei inventava strane macchine…
«Ma no. Riparavo le moto e gli attrezzi agricoli. Aiutavo mio zio a fare il fieno per le mucche. E giocavo ai Lego con le bambine. Ora con i nipoti».
…E che era appassionato di fotografia: «I suoi soggetti preferiti sono i paesaggi, gli animali e me».
«Tornai dal Giappone con una Nikon. Fotografare mi piaceva; ma a Ingrid non piaceva essere fotografata… Ora con il telefonino c’è meno gusto».
È vero che quando l’hotel è aperto prepara le colazioni?
«Certo. E accompagno i turisti a sciare, o in gita alle Tre Fontane Sacre. È un posto bellissimo».
Gustavo Thöni cosa votava?
«Sempre Südtiroler Volkspartei. Siamo pochi; se non ci unissimo, la nostra voce andrebbe dispersa».
Come immagina l’Aldilà?
«Non lo immagino. Mi lascerò sorprendere».
L’INTERVISTA parallela
GHEDINA: «MIA MAMMA MORÌ SCIANDO. E VACCHI DA PICCOLI BATTEVA ME E TOMBA»
IL RICORDO
MORTO MARIO COTELLI, FU IL COMMISSARIO TECNICO DELLA VALANGA AZZURRA
LA BATTUTA
THOENI: «DA SCIATORE CUCCAVO POCO MA A TOMBA RUBEREI LE VITTORIE»
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Avevo il suo poster in camera. Quando partecipai ai Campionati Italiani Assoluti a Cortina d’Ampezzo, gli ultimi di Thoeni, ricordo che considerai un grande onore essere in gara con il mio eroe sportivo.
Ieri sera su Rai3 Fabio Fazio ha intervistato Deborah Compagnoni. Forse era emozionato di avere davanti un suo idolo, ma le domande sono state davvero banali rispetto a quanto sarebbe potuto uscire fuori, visto il calibro del personaggio. La mia sembrerà retorica nostalgica ma ci sono atleti che possono tranquillamente insegnare a vivere a fior fiore di manager con solo uno sguardo o una frase.
Gustavo è tutto qui “quando un avversario cade non si esulta”. Ho ancora impresso nella mente un incontro inatteso con lui ed i compagni di squadra allo Stelvio nel 1973. GRAZIE GUSTAVO da uno del 1951
Grazie per la pubblicazione di questa bella intervista al nostro sciatore più grande di tutti i tempi. Ed anche un grande uomo. Con lui non c’è che da complimentarsi.
Thoeni ha fatto la storia dello sci, era uno sciatore completo, e dopo 50anni il riconoscere che Stennmark e’ stato il migliore slalomista di tutti i tempi ,denota umilta’ ,pregio di un grande sportivo come lui .Grazie Thoeni per avermi fatto sognare, palpitare,quando eri al cancelletto !
Ragazzi, una volta uomini come questi erano di esempio per gli adolescenti.
non sono mai stato uno sciatore, ma questa intervista mi riporta a momenti di grande entusiasmo quando si esultava davanti alle prestazioni sportive di questi atleti.
Grande atleta, grande uomo. Dalle sue parole si percepisce una grande serenità.
Grande sciatore e, soprattutto grande uomo!
Torno ragazzino. Ripenso al tifo in famiglia con urla e rantoli. A quante volte lo limitavo sui campi da sci, nel gesto ma soprattutto scimmiottando la parlata. Mi divertivo un sacco!
Ho già raccontato in anni passati che la Valanga Azzurra fu per me l’origine di profonde emozioni nei mie anni fra scuole medie e superiori. Per campanilismo territoriale, alla fin fine ero tifoso soprattutto di Pierino Gros, che incontrai poi in Val Susa diverse volte negli anni successivi. Certo è che, di quell’epopea, Thoni fu il personaggio più carismatico, anche per il suo carattere così particolare. Nelle interviste di allora dava l’idea di essere un italiano-non italiano. Però ci faceva esultare tutti quanti. La Valanga Azzurra fu forse il primo esempio di unione mediatica dell’Italia intera: clamorosa la folla che, in tutta Italia, si radunò davanti alla TV per il parallelo della Val Gardena. Anticipò di qualche anno le feste in piazza per la Nazionale di calcio. Ultima annotazione: guardando ai nostri giorni le foto della Valanga Azzurra, mi viene il magone. Molti atleti non ci sono più. E poi anche Cotelli. Nelle foto mi colpiscono più questi personaggi di chi c’è ancora. Però fra questi ultimi, Gustavo dà l’idea di essere uno dei più in forma, fisicamente ma soprattutto come serenità d’animo. Invidiabile.
Bellissima questa intervista di Cazzullo che avevo già letto sul Corriere e oggi ho riletto molto volentieri. È la prova che anche l’agonismo non va solo disprezzato, esso può offrire infatti grandi emozioni. Ne vanno semmai criticati gli aspetti commerciali deleteri. Gustavo è stato un grande atleta ed è un grande uomo: è la dimostrazione che le due qualità possono coesistere. Come sono coesistite in Zeno Colò, in Toni Sailer, in Eugenio Monti ed in tanti altri atleti che ho avuto la fortuna di conoscere e di intervistare. Grandi uomini che hanno vinto medaglie d’oro alle Olimpiadi e ai Campionati del Mondo, manifestazioni che quindi non ha senso solo criticare. Se le si critica lo si deve fare sul modo, talora arrogante e privo di prospettiva storica e culturale, di organizzarle, non in quanto tali. Anche oggi ci sono atleti bravissimi e ricchi di umanità che, come Gustavo, potranno entrare nella grande storia degli sport invernali.
I giorni delle gare bigiavamo.
Di fronte a scuola c’era un negozio a più vetrine che vendeva anche tv.
E le tenevano accese.
Quando scendevano gli italiani ci esaltavamo.
Spesso per la pressione sul vetro partiva l’allarme del negozio.
Non credo oggi possa accadere ancora.
Grandissimo uomo e atleta. Il video del parallelo di Ortisei me lo guardo almeno una volta la settimana e conosco a memoria i racconti che mi hanno fatto degli amici che erano lì quel giorno.
Bella idea pubblicare qui un’intervista a un uomo di montagna di questo tipo.