Rovistando nei meandri del mio pc, mi sono imbattuto in un testo risalente alla primavera del 1991, ma rimasto inedito da allora.
In quel frangente io ero alle battute finali di un decennio abbondante in cui ho fondamentalmente dedicato ogni secondo di tempo libero alla montagna, alternando scialpinismo, arrampicata, trekking, cascate, canyoning ed anche vie in quota.
Si era formata una bella combriccola di amici/che e sembrava che l’esistenza di ciascuno fosse esclusivamente scandita dagli appuntamenti del weekend, alternati alla serata del mercoledì in birreria. In tempi privi di social network ed anche di telefoni cellulari, l’ideale per combinare programmi era ritrovarsi tutti insieme una sera in città. Il mercoledì era (come adesso) la serata in cui si teneva la lezione teorica della Scuola di scialpinismo, ovviamente nei mesi di attività della stessa, e al termine facevamo le ore piccole scolando pinte di birra. L’appuntamento del mercoledì diventò strutturale e si estendeva per tutto l’anno, anche oltre i confini della stagione scialpinistica.
In quella fase ero riuscito a convincere l’intera combriccola che, dei due principali ponti primaverili (Pasqua e il blocco 25 aprile-1 maggio), fosse più sensato dedicarne uno solo allo sci, lasciando l’altro per l’arrampicata. Si sceglieva a seconda delle condizioni.
Quell’anno, il ’91, venne prima il ponte di Pasqua, che cadeva a fine marzo. Eravamo reduci da un’abbuffata di gite con gli sci e quindi optammo per l’arrampicata. Avevamo voglia di sole, mare, caldo sulla pelle, ritmi blandi e ragazze in costume.
Rinnegando per una volta le tanto amate Calanques marsigliesi ed anche il finalese, alzammo le vele verso oriente. In una quindicina giungemmo fino a ridosso di La Spezia, cioè alla scoperta del Muzzerone, di cui avevo letto, ma che non avevamo mai frequentato. Furono giorni bellissimi, rilassanti, soleggiati, con serate intorno al fuoco nel campeggio improvvisato vicino al vecchio forte militare.
Dopo gozzoviglie e arrampicate corte e rilassanti, in tre ci concedemmo, per un giorno, una via un po’ più impegnativa, un po’ più lunga, una via, come dire?, un po’ più “alpinistica”.
Al ritorno in città scrissi questo testo. Sospeso fra il récit d’ascension e l’articolo di opinione, questo scritto contiene (anche se in modo un po’ ingenuo, letto 30 anni dopo) i presupposto dei miei successivi passi evolutivi, sia in campo editoriale che nella vita di tutti i giorni. Con affetto l’ho riletto dopo quasi trent’anni e lo ripropongo in quanto tassello storico nel mio personale cammino.
La relazione della via è stata scritta contemporaneamente all’articolo (1991): ero già abituato a redigere relazioni alpinistiche da almeno un decennio, per cui vi è assonanza con la realtà, ma può darsi che le informazioni siano datate e quindi vanno oggi valutate più che altro in termini storici (Carlo Crovella).
Il Pilastro del Bunker
(Muzzerone, Pasqua 1991)
di Carlo Crovella
(scritto il 2 aprile 1991)
Questa non è solo la storia di un’arrampicata, ma è una storia che inizia una decina di millenni fa e che non finirà mai.
A ben vedere è solo la cronaca di una domenica di primavera trascorsa a risalire un pilastro di calcare biancastro, compreso fra due tonalità diverse di azzurro: quello cupo e ondeggiante del mare e quello smerigliante del cielo.
In più vi è anche il racconto di quelle sensazioni che solo l’arrampicata vicino al mare sa regalare: il profumo intenso del timo, che penetra nelle narici, la brezzolina che ti scompiglia i capelli, il sole che asciuga ogni nostro dubbio ancestrale…
Oggi siamo in tre, sospesi tra la scogliera lambita dalle onde e la linea di cresta che ci separa da Portovenere.
Siamo dovuti partire prestissimo e il primo sole ci ha illuminato quando percorrevamo il sentierino nei pressi del vecchio forte in cima al promontorio.
Eravamo a 350 metri sul livello del mare e per raggiungere l’attacco della via siamo dovuti scendere in un canalone scosceso, che si apre tra diversi pilastri rocciosi.
Il canalone parte proprio da un vecchio bunker militare e il pilastro roccioso che sorregge la costruzione non poteva che chiamarsi il “Pilastro del Bunker”.
Non è stato facile rintracciare l’attacco della via, nascosto tra la fitta macchia mediterranea a picco sul mare, ma eccoci finalmente impegnati nell’arrampicata.
Quanti giorni ho trascorso desiderando questo momento? L’inverno appena terminato, con la sua nebbia avvolgente, ha rallentato il mio ritmo vitale.
Ma come gli alberi, che si protendono verso un cielo che mai raggiungeranno, resisteva dentro di me un fantasma sognante: il ricordo di una risata sincera scambiata in sosta, la stanchezza delle dita nelle fessure, il sudore sul passaggio impegnativo. Così questa risalita dal mare verso il cielo non è solo la cronaca di una splendida arrampicata, ma è la mia rinascita dopo il lungo letargo invernale.
L’arrampicata assume per me un duplice significato: accanto al gusto per il puro gesto atletico (le mani che corrono a cercare l’appiglio giusto, i piedi che ruotano nella posizione corretta, il corpo che si snoda in una linea sinuosa sulle placche…), questa attività rappresenta il pretesto per portare sempre un po’ più in là i miei limiti. Non che siano limiti oggettivamente estremi, per carità, ma per me sono i mie limiti e farli avanzare è sempre un piccolo successo.
A ben vedere, tutta la mia esistenza è dominata da un preciso bipolarismo: il bisogno dell’azione per trovare nuovi stimoli di riflessione e, dalla crescita conseguente alle riflessioni, i nuovi progetti, che a loro volta alimentano nuova azione.
Anche in questo momento, parrà strano, oscillo tra questi due estremi: poco fa ero impegnato a risalire un’impervia fessura e ora, con la corda in tiro sui chiodi della sosta, posso rilassarmi e così lascio correre a briglia sciolta i miei pensieri.
La mia fantasia, cullata dal mare che laggiù rumoreggia contro la scogliera, è come questa spaurita farfalla che si è appena posata sulla mia mano.
Che ci fa qui lei, che può volare dove vuole? Che bisogno ha di venire proprio su queste rocce a picco sulle onde? Che ci faccio qui io, piccolo uomo sperduto come un naufrago nell’immensità dell’universo?
Mario, accanto a me in sosta, sonnecchia e non è interessato al problema della farfalla. Marco, venti metri sopra di noi, è alle prese con una liscia placca e la sua attenzione è totalmente concentrata sul passaggio.
Il mio corpo sta assimilando tutte quelle sensazioni che arrivano dal contesto circostante: il ribollire del mare sotto di noi, la verticalità del calcare sul quale siamo appesi, il vento che fruscia nella macchia mediterranea.
Ecco, in un istante infinitesimale, eppure così lontano da raggiungere, ho la percezione dei motivi per cui mi trovo qui: la ricerca della mia libertà.
La libertà della farfalla che non subisce la legge di gravità, la libertà di questi arbusti cresciuti cocciutamente in una crepa della roccia, la libertà di quei gabbiani che passano sopra di noi quasi senza battere le ali…
Sospeso tra mare e cielo ho trovato la mia libertà: non riesco a trattenere un improvviso urlo di gioia.
Mario, che si era quasi addormentato, si desta di botto e Marco, cui filavo la corda, dall’alto mi rimprovera spaventato:
“Sei completamente pazzo?!?” E’ il loro commento.
Sì, sono completamente impazzito per la bellezza di questo momento.
L’Avventura, quella con la A maiuscola, è una costante della mia esistenza. Ma l’avventura nella mia vita non è altro che la ricerca della libertà. Ogni volta che torno a casa, sogno di ripartire, come un novello Ulisse del duemila.
In realtà l’avventura è un fatto mentale: non è necessario recarsi in paesi esotici per viverla. A volte basta allontanarsi di pochi passi dalla routine della vita quotidiana e ci si trova immersi nell’avventura.
Qui siamo a una decina di chilometri dal porto di La Spezia, eppure trovo la mia libertà come se fossi nella jungla o sugli ottomila himalayani.
Ora debbo interrompere queste riflessioni perché è il mio turno per arrampicare. La placca è davvero liscia: sul caldo calcare verticale mi sento come una lucertola che corre verso l’alto.
Alla sosta successiva c’è un’altra farfalla: è nera striata d’arancio e sonnecchia anche lei al sole. Sarei disposto a scambiare la mia condizione con quella della farfalla?
Pensa a quante preoccupazioni in meno! Che importanza avrebbero l’andamento del dollaro, il debito pubblico incontrollabile, il trend dei tassi di interesse…
Eppure non posso rinnegare la mia vita cittadina: metto a fuoco che, se l’avventura è un fatto mentale, essa si deve estendere a tutti gli aspetti della propria esistenza.
Vivere l’avventura non significa solo essere qui in questo preciso momento, sospeso tra mare e cielo, ma significa alzarsi alla mattina per iniziare con grinta ogni giornata. Anche in città.
Solo chi segue questa filosofia potrà sperare di trovare l’avventura a due passi da casa.
Questo modo di affrontare la vita è un modo per crescere, ma è anche un modo per spostare un po’ più in là il proprio limite.
Come illustra Alessandro Gogna, esistono diversi tipi di uomini e tutti sono ugualmente importanti: esistono i pionieri ed esistono gli agricoltori, gli allevatori, i commercianti, gli albergatori… insomma tutti coloro che arrivano in una fase successiva per colonizzare le terre. Tutte categorie molto importanti: tuttavia solo i pionieri spingono la frontiera del Far West sempre più verso ovest.
Al giorno d’oggi (primi anni ’90, NdR) essere pionieri è come una vocazione e permette di utilizzare la propria fantasia per creare l’avventura nei cortile di casa.
Ma è vero anche il contrario: l’avventura stimola la vocazione del pioniere che affronta tutta la sua esistenza, cioè anche al di fuori della montagna, con lo stesso approccio.
Ecco perché questa storia non è solo il racconto di un’arrampicata, ma è la dimostrazione che la vita dell’uomo è una continua risalita dal profondo del mare verso l’infinito del cielo. Una risalita che ricomincia tutte le mattine quando suona la sveglia.
Al termine di questa giornata di primavera abbiamo raggiunto il bunker che si erge sulla sommità del pilastro. Il tramonto sta inondando l’orizzonte di un caldo arancione e le sensazioni sono un po’ sfumate dalla stanchezza.
Non c’è bisogno di dirsi molto: una foto, una stretta di mano, per chi vuole una sigaretta ed è ora di raggiungere gli altri al campo.
Domani? Domani si vedrà: un’altra arrampicata, una passeggiata alle Cinque Terre, forse una giornata di mare, sfruttando il primo caldo dell’anno…
Per ora, mentre stiamo rifacendo su le corde, godiamoci ancora questa giornata e la sensazione di salsedine che ci portiamo dietro.
Su quell’arbusto, annoiata, una farfalla non sa capire se è giunto il tempo di volare o quello freddo per dormire.
Pilastro del Bunker
Via: Chi vuol esser lieto sia
Altezza: 200 m
Difficoltà’: TD (diversi passi di 5/5+, uno di 6a)
Attrezzatura: presenza di spit, ma occorre integrare (alberi/nut/friend)
Primi salitori: Roberto Vigiani e Tino Amore, 1983
Avvicinamento: Dal tornante prima del forte si segue il sentiero verso Portovenere e si raggiunge il bunker. Lasciato il sentiero, si scende a destra nell’ampio canalone dirupato (tracce di sentiero). Quando il canalone è uscito dall’alveo della parete che lo racchiudono, termina con una parete a picco sul mare: occorre rintracciare un sentierino, che traversa orizzontalmente alla propria sinistra (guardando il mare). L’attacco della via è situato sul filo dello spigolo, in prossimità di un caratteristico albero, per raggiungere il quale è necessario superare un passaggio piuttosto esposto.
Relazione della via: Dall’albero si risale la fessura leggermente strapiombante (5+), al termine della quale si sosta in prossimità di un alberello.
Si traversa a destra e si supera un muretto verticale (6a).
Dalla successiva sosta molto esposta si prosegue per difficoltà minori (3/4), fino alla base di un’evidente placca.
Si supera una fessura e poi, a destra, la placca esposta (5/5+).
Nel successivo risalto si supera dapprima un’altra fessura verso sinistra (5), poi si traversa verso destra ed infine si rimonta un diedrino (5+).
Segue un tratto più facile, dove bisogna puntare verso sinistra (2).
Si sale l’evidente fessura sotto un alberello (5+) e poi le placche finali che conducono tranquillamente in vetta al Pilastro.
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bel racconto di arramoicata. mi sono immedesimato nelle emozioni descrittr anche se non conosco la zona
Via storica ripetuta poche settimane fa assieme a due amici che non l’avevano mai fatta. Nonostante averla salita diverse volte e sempre un piacere per la godevolezza dell’ambiente in cui si svolge, pieno di profumi mediterranei di piante aromatiche.
La via e sta richiodata e le soste indicate nella relazione qui ripotata non sono quelle di adesso.
Sempre molto azzeccati gli articoli di Crovella. Qualità degli scritti da rivista specializzata del bel tempo che fu: si vede che aver imparato a scrivere in quel periodo e’ una cosa che resta. Un vero piacere leggere i suoi articoli, sia nei contenuti che nei testi. Complimenti a lui e auguri a tutti.
Bravo Crovella via molto gettonata, ci hai insegnato che la lotta coll’alpe ops con le scogliere,può, avere risvolti poetici! Stamattina assieme al mio quadrupede ci siamo regalati una 15na di tiri giusto nel levante ligure. Buona Pasqua e un saluto a tutti.
Grazie per questo racconto poetico, che è insieme leggero e profondo.
Quella foto con il pino a piombo sul mare segna l’attacco della via .
Mi hai riportato con la mente alla gioventù quando anche noi, sparuta cordata occasionale ci cimentammo su quel bel pilastro in maniera imperfetta o forse azzardata, ma comunque ne rimase un’avventura indelebile nella mia mente
Grazie