Il segreto del Campanile – 3
(la verità obliqua di Severino Casara) (3-4)
L’ultimo capitolo
Esiste un dattiloscritto di 27 pagine, titolato Il Campanile di Val Montanaia dal nord, che Italo Zandonella Callegher ha ricevuto da Lelia Casara. Fa parte di un libro inedito, il cui titolo avrebbe dovuto essere Sulle Crode del Piave, quel terzo libro sulle sue scalate che Casara non pubblicò mai, mentre la sorella non smise di pensare a un “miracolo” editoriale. Che avvenne solo nel 2013, quando Italo Zandonella Callegher ne curò la pubblicazione (Sulle Dolomiti del Cadore-Severino Casara, Nuovi Sentieri), peraltro piena di curiosità e sul livello delle precedenti. Non si sa con esattezza quando Casara lo scrisse, anche se possiamo situare una data incerta attorno ai primi anni ‘70.
Disegno su carta intestata di Francesco Terribile con il riassunto degli avvenimenti sugli Strapiombi Nord del Campanile di Val Montanaia dal 1913 al 1931
Volutamente non ne ho parlato finora, per rispettare il tempi storici delle nuove acquisizioni documentali. Nella speranza che da uno scritto, compilato negli ultimi anni di vita, emergesse qualche dato nuovo, qualche suggerimento o allusione. Se si vuole, che dalla penna sfuggisse qualcosa che per decadi era stato con rigore tenuto dentro.
Lago di Misurina: da sinistra, Severino Casara, Emmy Eisenberg-Brioschi ed Emilio Comici
Il racconto parte dal principio, da come Casara incontrò i suoi compagni gitanti inesperti, fino alla conclusione dell’avventura a Domegge. Poi continua con l’episodio della fotografia di Marchetti, il racconto della posa della campana sul Campanile, la prima Messa in vetta, l’articolo di Buzzati riportato per intero fino all’episodio finale del tentativo alla parete est con Comici.
La prosa è assai curata, anche se qua e là con ancora qualche piccola imprecisione di ortografia. Nelle intenzioni dell’autore si vede grande attenzione ad un pubblico vasto, ma si nota pure una rinuncia a certo linguaggio lirico che tanto aveva caratterizzato gli scritti precedenti. Forse i tempi avevano cambiato anche lo scrittore, non solo l’uomo.
Severino Casara rivive nel luglio 1938 le sensazioni del suo bivacco sul Ballatoio del Campanile di Val Montanaia. Foto: Emilio Comici
Di certo però Casara rimane attento a non contraddirsi e, anzi, prova a spiegare con maggior precisione le sue evoluzioni in quei pochi minuti. Con un linguaggio che risente soprattutto dei chiarimenti tecnici che in cinquant’anni di discussioni avevano pian piano sovrastato eroismo e follia iniziali.
Ne risulta un’apparente grande credibilità. Se prima frasi, fatti ed emozioni sembravano pompate, sostenute da un’esaltazione a noi estranea, ora il tono è gradevole, propenso a spiegare, pronto anche all’autocritica, almeno per gli aspetti più folli dell’intera avventura.
Se leggiamo attentamente, e soprattutto se confrontiamo con le sue relazioni precedenti, appaiono oscuri sei punti di contrasto. Vediamoli uno per uno (a dire busie ghe vole bona memoria).
Nel capitolo scompaiono le scarpette: non sono neppure nominate. Nei racconti precedenti (26 settembre 1930), Casara si liberava degli scarponi alla Tacca del Campanile, ma successivamente delle scarpette, dal terrazzino di attacco. E lo precisava anche quando, sceso per la via normale, arrancava faticosamente tra ghiaioni e baranci per recuperare zaino, scarponi e, poco più basse perché gettate dall’alto, le scarpette.
Altro particolare curioso è la spiegazione della presenza del chiodo che gli serve da peso per il lancio della sua corda sull’arco dello spezzone Fanton. Casara racconta ora che lo aveva in tasca, rimasto lì “non so come”. Scarpette e chiodo sono il tipico materiale di chi ha in programma comunque qualche arrampicata: come giustificarne la presenza se nell’assunto generale del racconto si ribadisce che all’inizio non v’era alcuna intenzione di salire il Campanile? Perfino la corda messa nello zaino è giustificata dandone la responsabilità a Berti, che l’aveva consigliata sia per eventualmente aiutare qualcuno della comitiva in difficoltà sul gradino che s’incontra salendo alla Forcella del Campanile, sia per la salita alla Cima Emilia. E dunque le scarpette sono taciute e il chiodo è là per caso.
Non rinomina il pendente di corda (da lui citato il 1° novembre 1930) appeso al gruppetto di chiodi Fanton, quindi non precisa se alla fine di esso era appeso il quinto chiodo Fanton oppure no.
L’azione procede, ed arriviamo al volo sui chiodi Fanton. Qui sparisce lo svenimento (o anche il capogiro come altrove era stato definito). Non se ne parla proprio, perciò dopo il volo pendolare Casara si issa semplicemente ai chiodi e disfa l’anello dell’autoassicurazione per poter traversare.
Infine con grande insistenza si dedica a sottolineare che la via da lui seguita è stata la fessura orizzontale: di conseguenza è radicalmente modificata la descrizione delle sue evoluzioni sullo spezzone, sia rispetto alle sue versioni 26 settembre e 1° novembre 1930, sia soprattutto alla primitiva relazione sul libro di vetta e a quella apparsa sulla guida Berti, che con tanto accanimento Piaz e Carlesso avevano cercato di riprodurre senza risultato. Invece che di modifica potremmo parlare di censura, perché non si accenna né all’aver messo la gamba nello spezzone, né all’aver avvicinato ginocchio o, peggio, piede sinistro ai chiodi Fanton. Proprio per evitare che ancora si critichi una posizione che, oggettivamente, non solo è assurda se non impossibile, ma probabilmente del tutto inutile e controproducente se l’obiettivo è la traversata.
Infine, quando Casara si accorge di non essere sulla via normale? Quanto effettivamente sa della storia del Campanile? Nella relazione 26 settembre 1930 aveva detto che, visti i chiodi, aveva capito subito di non essere sulla via normale. In questo ultimo capitolo dice: «Conoscevo pallidamente la sua storia alpinistica, e non avevo mai letto la relazione tecnica della salita, ignorando anche il versante della via. Sapevo che in meno di due ore si poteva raggiungere dalla base la cima e che le difficoltà erano relative». Poi, giunto al terrazzino: «Ma qui cominciano i dubbi. La muraglia del mostro si erge strapiombando, rossigna e striata di nero. Più nero spicca sul lato sinistro un diavolo rampante. Ricordando vagamente la storia della prima salita mi sovviene che von Glanvell scoprì la chiave proprio su una muraglia rossigna e strapiombante, con una traversata che a vederla pareva assolutamente impossibile a compiersi, ma che al toccarla invece l’aveva trovata bella e non difficile».
Severino Casara durante il bivacco della prima ascensione con Comici al Salame (29 agosto 1940). Foto: Emilio Comici
L’accenno a von Glanvell è azzeccato: se si conosce solo l’esistenza di una traversata famosa, e se lì ci sono dei chiodi… beh, quella è la traversata. Purtroppo questa è la prima volta che Casara fornisce siffatta spiegazione. Che in ogni caso continua a non spiegare come un alpinista che vive ossessivamente di montagna, che si nutre di cultura e storia alpinistica relativa, che conosce i Fanton a tal punto da scegliere loro come prime persone cui telefonare da Domegge, che conosce Berti a tal punto da arrampicare con lui ed essere il più valente collaboratore nella stesura della sua futura guida delle Dolomiti Orientali, possa solo “pallidamente” conoscere la storia del Campanile con i versanti e i tentativi Fanton annessi e connessi.
Si ha l’impressione che l’ansia di Casara non sia soltanto quella di dimostrare la sua salita agli Strapiombi Nord, ma anche quella di farne accettare la “casualità”, perciò l’ineluttabile destino di un’impresa che neppure lui aveva mai voluto.
Narro, ergo sum
Al lettore che ci ha seguito fin qui e che non ha ancora esclamato ghe ne go do maroni de sto Casara, chiediamo la pazienza di leggere queste ultime note conclusive.
Abbiamo assistito all’evolversi della storia e dell’alpinismo, nascita, vita e lento deperire degli ideali, con conseguente nascita di nuovi valori. Il vecchio e il nuovo spesso in lotta tra loro. Siamo sicuri che l’alpinismo sia solo ciò di cui si parla? Siamo certi che relazioni scritte, dicerie brutali, formalità burocratiche e indagini scientificamente violente siano le sole unità di misura per valutare un’esperienza alpinistica? In più, da un po’, c’entra anche il denaro.
Molto tempo fa si scriveva perché lo scrivere, dopo l’azione, era spontaneo, un piacere dell’uomo di cultura. Finché l’alpinista era scienziato, poi esploratore romantico, anche quando era un milite-patriota. L’avvento della componente sportiva ci ha resi più vergognosi, come se il successo della nuova moda fosse autorizzato a oscurare i vecchi valori, da cui sembra un dovere prendere le distanze. Nel paesaggio intellettuale di oggi l’alpinismo è vetusto, meno credibile di un tempo. Se si vuole cercare la verità dell’alpinismo occorre frugare nei racconti che se ne sono fatti, perché quello è lo spazio in cui si può operare un cambiamento.
Severino Casara tra Paula Wiesinger e Hans Steger. Foto: Walter Cavallini
Per godere dell’alpinismo occorre preservare la sua finzione di fondo, cioè pensare con dedizione alla grande differenza che c’è tra il mondo civilizzato e quello selvaggio. Anche in un’epoca come la nostra in cui sembra che di wilderness sia rimasto poco. Più o meno la stessa finzione che un autore di libri gialli condivide con il lettore. Sappiamo bene che l’avventura che possiamo vivere oggi si appoggia su quella vissuta ieri, ma ci comportiamo come non fosse così. Sappiamo bene che c’è un’erosione in atto, continua e spietata, del margine di avventura, potremmo definirla una crisi permanente. A ben vedere, ciò che abbiamo sempre chiamato evoluzione, è stato solo il graduale consumo della risorsa avventura, come se ogni prima ascensione fosse una nuova voce di spesa in un conto economico per nulla infinito. I pionieri hanno richiamato gli eroi, questi gli atleti e questi ancora gli spettatori e gli impresari, in modo che la montagna sempre meno si differenziasse dal resto delle attività sociali o individuali del grande circo che è il mondo. Parlare di evoluzione è stata una scelta ottimistica, contrariamente a questo discorso che sembra tendere al pessimismo. Da questa contrapposizione pare che solo i discorsi e lo scrivere siano essenziali, l’agire assai meno, specie l’agire non divulgato o divulgato in modo “diverso”. Essenziali diventano dunque telefonini, satellitari, GPS, segnaletica, carte geografiche, monografie, radio, giornali, televisioni, internet, competizioni codificate, rally, vie ferrate, attrezzature a spit, previsioni meteo, premi tipo “piolet d’or”: tutto questo fa “sicurezza”, cioè l’opposto di avventura, per spendere più in fretta il capitale di rimanente “selvaggio”. Chi oggi scrivesse la relazione di un’impresa su un foglio di carta e basta sarebbe dileggiato, anche per questo esitiamo a scrivere di montagna. Si è sempre più soli a difendere l’azione e a sostenere che vi può essere azione anche senza rappresentazione con gli attuali criteri (foto, filmati, testimonianze). Chi racconta, esiste. Narro, ergo sum. La rappresentazione e i discorsi diventano più importanti dell’azione.
In quest’ottica ecco che anche la parola verità muta significato, perché diventa un “effetto speciale” del nostro racconto e non più adesione reale e completa ad un’azione della quale noi per primi non conosciamo il significato. Al fuoco primigenio si sostituisce il fuoco pirotecnico, per stupire, per convincere, per vendere. In fondo l’alpinismo ci piace ancora perché non v’è alcun criterio che permetta di distinguere tra vero e falso, neppure di fronte a noi stessi, neppure nel pieno dell’azione che solo in un secondo tempo sarà mediata e contaminata dal ricordo. Perché l’azione “è”, vero e falso in essa non esistono, non sono neppure categorie mentali.
Severino Casara con Antonio Berti cercatori di funghi in Val da Rin nel 1948
Nell’alpinismo ci sono anche lati di prestigio (nazionale o personale) e mercantili che presumono un “buon” prodotto, non dei falsi. Se s’infiltra il non-vero è l’intero alpinismo a essere scardinato nei suoi postulati (e con essi anche i corollari prestigiosi e/o commerciali). L’azione rimane intatta, la rappresentazione non è più credibile. Ecco perché ci teniamo tanto alla rappresentazione e ai discorsi. Ma colui che ha più a cuore l’azione, sentendosi in minoranza, può fare azioni di disturbo? Può dissimulare in modo che non si creda più all’alpinismo ma soltanto all’azione in montagna? Può esprimersi in un’azione difficilmente raccontabile, così difficilmente rappresentabile da tenere in scacco i giudici per novanta anni? E soprattutto: può raccontare e scrivere in modo privo di scopo, cioè finalmente servile all’azione e non agli attori? Una massima zen recita che “la meta suprema del viaggiatore è di ignorare dove sta andando”.
L’assassinio dell’azione
Lunga è la storia delle contestazioni alpinistiche. Solo per rimanere in Italia e nella seconda metà del secolo XX, ecco negli anni Cinquanta la guida di Primiero Gabriele Franceschini, negli anni Sessanta Toni Marchesini, di Bassano; poi, fine anni Sessanta, è la volta di Cesare Maestri e del tuttora contestato Cerro Torre; negli anni Ottanta, complice la morte del fratello Günther che non può più testimoniare, v’incappa pure Reinhold Messner per il caso del passaggio diretto sul Pilastro di Mezzo del Sass d’la Crusc. Quindi, ancora anni Ottanta, capita al lecchese Dante Porta. E arriviamo al caso più attuale (anni Novanta), l’accusa al fuoriclasse sloveno Tomo Česen di non aver salito né la parete nord dello Jannu né la Sud del Lhotse. Di tutti questi personaggi il solo ad essersi liberato completamente delle accuse è Messner, vuoi per la sua statura dell’alpinista, vuoi per la minore importanza del caso, praticamente un dettaglio. A tutti si imputano exploit esagerati, nebulosità di racconto, omissione di particolari, mancanza di testimonianze o anche (per Česen) falso di prove.
Questi (e magari ne dimentichiamo qualcuno) sono i casi più noti: ma non dimentichiamo che la tendenza a raccontare bugie non è propria di poche persone e si manifesta a più livelli di gravità. Quante volte abbiamo visto fotografie con il grado di ripresa artefatto, o saputo di “libere” che non erano “libere”, di chiodi davvero usati, di orari accorciati, di difficoltà volutamente abbassate… la casistica è infinita. Peccati veniali, certo, ma spie di una caratteristica inconfessata di molti di noi.
Schizzo firmato da Attilio Tissi e da lui stesso compilato il giorno del sopraluogo sul Campanile (29 agosto 1948). Ancora una volta i chiodi Fanton sono segnati erroneamente! La posizione giusta è quella demarcata in rosso
Letteratura e film sono i modi moderni per raccontare ciò che una volta faceva il poema epico. In letteratura e film siamo disposti ad accettare qualunque fantasia, anche la più sfrenata, dal pornografico al serial-killer, dal surreale al fantascientifico, alla condizione però che l’autore metta bene in chiaro che si tratta di opera d’invenzione. Ciò che non sopportiamo è l’accostamento tra fantasia e verità, come se questa commistione fosse il peccato più grande, il vero tabù di oggi. Non siamo più gli incantati ascoltatori dell’aedo che cantava l’Odissea o l’Iliade, dove realtà e fantasia erano una sola cosa: commenti storici, chiose ed esegesi ci hanno insegnato a dividerle. Non sopportiamo chi non vive dentro di sé questa opposizione precisa, ma osanniamo Roberto Benigni che recita così magistralmente la Divina Commedia da sfondare gli indici di gradimento. Perché tutti abbiamo ancora bisogno della favola grandiosa, dell’opera d’arte che ci nutre di serenità ma è maturata nella sofferenza dell’azione.
Campanile di Montanaia (parete ovest) visto salendo a Forcella Segnata, 5.08.1985
Sì, è vero. Abbiamo ancora bisogno della favola, forse della finzione. Se ci ripugna attribuirla a noi stessi (ma non faremmo male), non esitiamo ad attribuirla agli altri inventando fatti e aneddoti sul loro conto, seguendo gli stessi percorsi tortuosi della leggenda ma immiserendoli con la bava viscida di calunnie consapevoli o inconsapevoli. Anche se lo si fa per scherzo, è una delle peggiori violenze, ripugnante anche per l’insita codardia.
Se facciamo un minimo di autocritica, riguardando negli anni passati, c’è un aspetto per cui non si tornerebbe indietro volentieri e questo riguarda le mille chiacchiere scambiate con gli amici, nella sezione del CAI, al bar, in rifugio, a volte in bivacco. Non tutto era da buttare, anzi. Ma spesso c’era chi si vantava più di altri, chi raccontava non per il piacere di farlo ma per stupire o far ridere a tutti i costi. Qualcuno era più crudele di altri.
E poi c’era la vittima, sempre assente, a volte perfino deceduta: colui che, consapevole o non, pagava il conto delle risate della compagnia.
Sì, non si tornerebbe indietro per tali bravate verbali: e possiamo pentircene. Ciascuno di noi può guardarsi indietro e ricordarsi di episodi che non gli fanno onore. Se non se ne ricorda è un fortunato, perché nulla può scalfire le sue certezze. Fortunato per ora, perché a lui ancora più grave sarà l’incertezza della fine.
A creare il caso Casara non è stato l’esecutore materiale Tissi. Il mandante del caso Casara va ricercato nella fame di finzione che abbiamo. Se fosse stato per Tissi, il clamore non avrebbe investito altri che gli stretti interessati. Se fosse stato per Francesco Terribile o per Angelo Manaresi la vertenza non sarebbe certo stata così plateale, transecolare, perché non avrebbe oltrepassato gli angusti confini di menti limitate e le piccine finzioni di burocratiche funzioni sociali. Ad ingigantire il caso hanno contribuito più i dubbi che si sono infiltrati nelle menti “buone” che non la cattiveria di chi naturalmente è portato alla finzione nella vita. Sono proprio le menti “buone” le più avide di fantasia e le più propense a credere che la rason del poareto no la vale on peto.
Casara era un diverso. Che avesse una particolare sensibilità e un temperamento artistico lo ha dimostrato con i libri, con le foto, con i film e con le conferenze. Che fosse un alpinista creativo lo ha dimostrato con le vie nuove sparse nelle Dolomiti. Che fosse un disadattato lo si vede nell’osservare la doppia realtà che viveva. Se Casara fosse stato un “macho” difficilmente sarebbe stato perseguitato così. Non era un omaccione, anzi. Era un signore alto, di bei modi, elegante, gentile e premuroso. Talvolta un po’ infantile, talvolta esaltato e febbrile. L’esatto contrario della gioventù fascista che curava il corpo, si “dava all’ippica” e salutava con il braccio a 120°.
Poi possiamo addentrarci nel pericoloso discorso dell’omosessualità, per il quale altri libri potrebbero essere scritti nel tentativo di dimostrarla o negarla. Se Casara si fosse sposato… se avesse avuto figli… se almeno avesse avuto una fidanzata… tutte quelle amicizie maschili… Se le crudeli barzellette sui carabinieri hanno almeno una base, quella della cieca obbedienza al potere (e quando è troppo è troppo, come quando fucilavano i disertori), le barzellette sugli omosessuali che base hanno se non quella della paura che ne abbiamo noi “maschi veri”?
(continua)
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