Metadiario – 295 – In analisi (AG 2017-002)
Totem e Tabù
Impiegai parecchi giorni a definire la presentazione della nuova sezione di GognaBlog, Totem e Tabù: uno spazio per tre articoli alla settimana a temi politici, sociali, filosofici dedicati alla crescita individuale e collettiva.
Alla fine mi risolsi ad approvare in via definitiva il seguente testo:
Totem e Tabù
è una lettura per individui liberi che:
– sanno che è priva di contenuti retorici e di luoghi comuni;
– sanno che contiene prospettive di carattere eretico;
– sanno che certi articoli dovrebbero essere letti con la curiosità, il sospetto o la resistenza che certe idee meritano;
– sanno che coloro che l’animano combattono aspramente ogni genere di inquinamento;
– sanno che l’informazione non dovrebbe dare al lettore ciò che lui vuole ma ciò che forse non sa di volere.
La prima uscita di Toteme Tabù fu l’8 gennaio 2017 con il titolo Paolo Mieli e il riscaldamento globale; a questo post seguì il secondo (13 gennaio), Elementi di mito-alpinismo, poi il terzo (20 gennaio), Censurare l’odio e le notizie false non salverà la democrazia. Ad oggi (17 ottobre 2025) siamo giunti a 1395 post pubblicati.
Il tasso di litigiosità dei commentatori raggiunse ben presto il livello di GognaBlog e talvolta lo superò. Molti mi chiedevano (e mi chiedono) il motivo per cui pubblico post a volte impresentabili, come pure commenti ignobili e velenosi. In effetti è vero: qualcuno lo cancello subito o quasi subito, di certo quelli con insulti precisi a un nome e cognome. Siamo sull’ordine, a occhio, di una ventina di commenti cassati al mese. In un blog testo e commenti vorrebbero essere sullo stesso piano, o di confronto o di guerra. La mia non censura dei commenti, come pure la pubblicazione di testi anche a mio avviso improponibili, quando non rivoltanti, assieme a componimenti di grande spessore, dipende dal fatto che io fermamente ritengo che la censura di qualunque testo ignobile, vomitevole e/o velenoso in realtà lo rafforzi per via dell’energia inconscia che deriva inesorabilmente dalla repressione. Il loro virus, in presenza di censura, si diffonde ancora più rapidamente e in profondità. Senza censura c’è la probabilità che questi testi, commenti o anche comunicati deliranti abbiano meno forza e si disperdano, il più delle volte nel ridicolo o nel farsesco.
D’altra parte questa mia fermissima convinzione è alla base di tutto il GognaBlog e anche del portale Sherpa. E’ parte fondante e irrinunciabile, condivisibile o meno. Mi spiace per quelli che pensano che un argomento censurato sia un pericolo in meno, perché è vero, secondo me, esattamente il contrario.
Ciò vale anche per le convinzioni e i manifesti di chi predica la violenza. Come proprietario delle testate GognaBlog, Totem&Tabù e AltriSpazi in genere evito di esprimere la mia opinione, proprio per salvaguardare quella convinzione fondante di cui dicevo prima. Lo faccio solo sulle questioni che ritengo importanti. Per gli argomenti ambientali e alpinistici di GognaBlog è più facile: anche se può essere un sacrificio, non intendo scrivere pubblicamente che considero (come è vero) ogni tipo di schiodatura ridicola e velleitaria: sono i diretti interessati che devono riflettere e trovare soluzioni a questi problemi, di assai relativa importanza. Anche sulle cose davvero fondamentali evito di esprimere pubblicamente la mia opinione perché lo scopo del mio sito è quello di far discutere e non quello di propagare le mie idee personali. Non sono e non voglio essere un guru. E se lo sono non è perché lo voglio.
Ma quando si passa al razzismo, al negazionismo e a plateali inflazioni di ego iperdilatati di solito premetto un cappello in cui esprimo pubblicamente la mia distanza dal contenuto del post. Che però non censuro neppure di una virgola. Nessuno si sogna di censurare Trump, eppure in questo momento lui rappresenta il massimo del truculento razzismo e dell’estrattivismo planetario ed egoriferito. Abbiamo solo la speranza che prima o poi il suo predicato si secchi come merda al sole e diventi concime. E’ sempre utile il contraltare: una figura come quella di Carlo Crovella è in seguito diventata essenziale. C’è chi se la prende con lui e lo insulta, c’è anche chi tenta di riportarlo su sentieri democratici. Tempo sprecato. Per creare energia inconscia in una società che si vuole davvero rinnovare è sufficiente leggere le cose di chi non la pensa come noi. In seguito allo sconsolato e compassionevole scuotimento di capo deve esserci il silenzio di una piena e incondizionata accettazione dell’altro da noi.
Il primo semestre
Al ritorno dal viaggio in Cambogia a fine gennaio 2017, di cui racconto in Metadiario-294, potei finalmente andare a ritirare la mia nuova Volvo V40 T4 che avevo ordinato secondo la formula del noleggio a lungo termine e che mi era stata resa disponibile in mia assenza. L’anno 2017 ha però segnato, già da febbraio, la ripresa dei miei dolori via via in crescendo. A dispetto di ciò, feci qualche bella arrampicata un po’ ovunque (come mio solito) nell’Italia Settentrionale, dal Piemonte alla Liguria, dal Trentino (Valle del Sarca) al Lecchese e alla Valchiavenna, dalla Val d’Ossola a Brentino (Val d’Adige). Qui citerò solo la Via del Fratello (9 lunghezze), il 20 maggio, sulla parete di Alpherian nel Vallone di Forzo. Ero con Matteo Pellegrini, Valeria De Vecchi, Giovanni Sicola e due ragazze, Maria Teresa ed Emilia.
Dopo la discesa a corda doppia incontrammo Patrick Gabarrou con una cliente, ma quel momento lieto mi fu interrotto da una telefonata di Guya che mi comunicava la soppressione della nostra Pussy. Con immenso dolore quel pomeriggio si era decisa a procedere, dopo gli ultimi giorni di nessuna speranza. La seppellimmo nel nostro giardino e segnammo l’esatta posizione con un bel sasso arrotondato non così facile da spostare.
L’ultima arrampicata fu al Monte Procinto con Giovanni Bertini (18 giugno), prima lunghezza di Effetti Collaterali + viaDolfi-Melucci + ultima lunghezza di Effetti Collaterali con variante sprotetta a sinistra.
A fine giugno cominciò la riacutizzazione della mia patologia: il male girava senza fissa dimora per le mie articolazioni ed era forte assai. Non volevo ricorrere al cortisone, ma purtroppo nessun analgesico o antinfiammatorio mi serviva.

L’esplosione del dolore
Non mi rimaneva che concentrarmi su GognaBlog e TotemeTabù: come tutti gli affetti da qualche malanno mi ostinavo a cercarne la ragione tramite una diagnosi che nessuno era riuscito a darmi in ormai tredici anni. Avevo affisso sulla fronte di uno dei cassetti della mia scrivania un biglietto che Petra mi aveva regalato. Era la famosa affermazione di Edward Bach: “La malattia non è né una crudeltà in sé, né una punizione, ma solo ed esclusivamente un correttivo, uno strumento di cui la nostra anima si serve per indicarci i nostri errori, per trattenerci da sbagli più gravi, per impedirci di suscitare maggiori ombre e per ricondurci sulla via della verità e della luce, dalla quale non avremmo mai dovuto scostarci”. Credevo profondamente e credo alla verità espressa dalla grande esperienza di Bach, ma mi risultava assai difficile penetrare nei segreti della mia anima e percorrevo senza risultati la più facile via della medicina occidentale, in questo caso del tutto impotente.

Per il mio compleanno a fine luglio Guya ed io andammo a Levanto per qualche giorno. Lì fui colpito da una crisi esplosiva di dolori. La sera del 29 volli comunque festeggiare i miei 71 anni andando nel bel ristorante Il Ciliegio, in bellissima posizione sopra Monterosso al Mare, assieme a Guya, Bibi e Andrea. Ma stavo davvero male e la notte non era certo garanzia di sollievo. E infatti fu tremenda, ero scosso da dolori che mi facevano tremare, m’impedivano di ragionare. Pur imbottito di pillole, non riuscivo a non cercare di cambiare posizione ad ogni momento, tra il letto del Bed&Breakfast e il bagno. Ansimavo, tremavo, sudavo, facevo paura. Giungemmo in qualche modo alle sette di mattina, avevamo deciso di partire in fretta e furia e andare al pronto soccorso di qualche ospedale di Milano. Giungemmo al Policlinico in tarda mattinata. Lì mi assegnarono un codice bianco e iniziò una lunga e spasmodica attesa tra un’umanità che soffriva anche ben più di me e pienamente inserito in quell’atmosfera che alterna il razionale ordine delle precedenze con l’evidente disordine dovuto all’insufficienza di personale.
Dopo quella notte, il lungo viaggio in auto e quell’attesa priva di riferimenti e pronostici, cominciavo a cedere. Tutto cambiò quando fui casualmente riconosciuto da un medico, Rino Bregani, che andava in montagna e arrampicava. Questi alle 16.19 fece in modo di cambiarmi il codice, da bianco a verde. Ci volle ancora un po’, ma alla fine iniziò la visita, da parte del Bregani e dell’infermiera Francesca Morandi. Fui trattato con Diazepam, Rabeprazolo e Dioflenac + Tiocolchicoside. Fui dimesso alle 19.49.
Arrivai a casa in condizioni decisamente migliori e riuscii anche a recuperare un po’ di sonno. Il giorno dopo ci eravamo già precipitati a Turbigo dal nostro medico, il “santone” Bruno Perrone. Dopo quella fase acuta, i dolori rimasero: mi permettevano di vivere, ma certo non di arrampicare.

Dopo una risonanza magnetica, il 10 agosto feci una visita neurochirurgica che alla fine produsse questo referto:
“Recente accesso in pronto soccorso per cervicobrachialgia destra resistente ai comuni analgesici. Ha eseguito una Risonanza della colonna cervicale che ha documentato protrusioni e discopatie multilivello soprattutto C3-C4 e C5-C6 con restringimento del canale e degenerazioni artrosiche. La sintomatologia dolorosa è nettamente diminuita con la terapia steroidea. Si consiglia di evitare pesi e di effettuare nei prossimi giorni esercizi di stretching per rafforzare la muscolatura del collo (Manuela Caroli)”.
Le stesse protrusioni e discopatie mi erano già note, perciò anche quella risonanza magnetica non giustificava quell’accesso di dolori.
Il 13 e 14 agosto andammo a Briançon da Ugo e Valentina: questi ci accolsero con amore e si prestarono a tralasciare le loro biciclettate ed arrampicate per fare qualche breve passeggiata con noi.
In agosto e settembre ci fu una corrispondenza con Perrone e Bregani. Visto il mio miglioramento rispetto al 30 luglio, quest’ultimo mi fece sospendere le medicine prescrittemi. Ero tornato al livello dei miei normali dolori, mi interessavo per trovare un buon fisioterapista, cercavo di capire le differenze tra Feldenkrais e Rolfing, come pure ero interessato alla tecarterapia. Riuscii a scartare almeno la PST (Terapia a Segnale Pulsante)… Mi consigliavano un serio Pilates e anche agopuntura, ma non volevo esagerare, perciò dovevo decidere. L’11 settembre iniziai la tecarterapia: la fisioterapista mi volle praticare quella muscolare (e non quella tendinea). Pazientai altre quattro sedute, poi vista la completa inutilità mollai il colpo. Gli esami per la tiroide mi davano un bel po’ di valori sballati, ma Perrone mi rassicurò dicendo che andavano benissimo. Per un mese e mezzo frequentai delle sessioni collettive di Feldenkreis: ero in mezzo a tante signore di mezza età e oltre che desideravano tenersi in forma. All’inizio ero un po’ a disagio, poi conoscendole un po’ meglio fu tutto più naturale. Ci andavo, dalle parti di piazza Wagner, in bicicletta. Ma, ad ogni modo, fu tutto inutile senza appello. Pure la visita come solvente presso il fisiatra prof. Giovanni Monti, anche medico sportivo, non diede alcun risultato.
L’8 ottobre scrissi una mail a Bregani:
“Ciao Rino! Luca Parravicini è stato gentilissimo, molto cordiale. Avendo io fatto 5 sedute di tecarterapia e avendo smesso giusto pochi giorni prima, mi ha consigliato di telefonargli tra una settimana in modo da sapergli dire se è servita a qualcosa. Secondo lui la tecar fa sentire i suoi effetti anche dopo una quindicina di giorni. In caso non fosse servita a niente, la sua cura è la laserterapia. Quanto alle spalle, mi ha confermato che il Monti poteva avere ragione: secondo lui (oltre ai noti problemi cervicali) ho una tendinopatia al sovraspinato (che in effetti il Monti aveva ipotizzato), specialmente alla spalla sinistra. Ma, sempre secondo lui, non c’è alcun bisogno di fare risonanza magnetica: mi ha visitato e ne è assolutamente certo. Quindi siamo d’accordo che mi farò vivo verso il 15 ottobre e decideremo che fare. Nel frattempo continuo feldenkrais, una ferrea dieta antinfiammatoria (cominciata l’altroieri) e il mio viaggio nella psiche. C’è di che divertirsi…”.
In quei giorni ci si mise a tormentarmi anche l’esame di pancolonscopia con eventuale biopsia, che feci il 19 ottobre. Per scrupolo feci anche la biopsia, ma era tutto in ordine.
Il 6 novembre scrissi ancora a Rino Bregani:
“Oggi ho fatto la prima applicazione di laserterapia grazie al tuo amico Parravicini. Ne avrò per altre sette, fino a giovedì 16. Ma tutto è immutato, purtroppo. I dolori sono come prima. Continuo il mio feldenkrais, ma ti confesso che spero di più nella laserterapia”.
Ma alla fine anche questa si dimostrò del tutto inefficace.

Sotto ai Tempi moderni
In ottobre e novembre si risolse anche il mio rapporto con l’iniziativa di BanffItalia. Alessandra Raggio stava giustamente procedendo come un carro armato verso un futuro dal quale in qualche modo io mi sentivo escluso psicologicamente. Non condividevo il circo di certi filmati premiati da Banff, una filosofia molto americana che cozzava con il mio più tradizionale modo di vedere l’alpinismo. Ma soprattutto le mie condizioni psico-fisiche non mi consentivano l’impegno necessario a chi volesse essere socio attivo di BanffItalia. Continuai perciò a collaborare, ma con precisi limiti, senza apparizioni in pubblico e soprattutto senza coinvolgimento societario.
Il 26 settembre ci fu la morte di nonno Angelo, il padre di Bibi. Al funerale del 29 settembre, alla chiesa di Santa Maria Segreta, c’era tanta gente. Qualche anno prima c’erano state delle discussioni con Simone (il fratello di Bibi), ma anche con Mariolina e con Tommy, al riguardo di banali questioni relative alle proprietà Ferrari di via Scarpa. Le discussioni erano terminate da tempo, ma la freddezza dei rapporti era rimasta. Fu con enorme sollievo che durante il funerale del nonno certi meccanismi si sbloccarono: ho imparato che succede sempre così quando tutti i protagonisti dei dissapori non vogliono in realtà litigare, ma si trovano loro malgrado in quella condizione. In quei casi, alla fine prevale sempre il buon senso e i buoni sentimenti.
Il 7 ottobre ci trovammo in Valle dell’Orco per il film su Gian Piero Motti. Assieme ai registi Tiziano Gaia e Fabio Mancari e a qualche aiuto tecnico c’erano Ugo Manera e Guido Morello, protagonisti della prima ascensione nel 1972 della via dei Tempi moderni al Caporal. Per interviste e contorno Gaia aveva invitato i bresciani Eva Grisoni e Sandro De Toni; ma la presenza più prestigiosa era quella di Cristian Brenna e Marzio Nardi, protagonisti della prima ascensione in libera di Itaca nel Sole, la via di Motti al Caporal che avrebbe dato anche il nome al futuro film.

La giornata era stupenda, con una luce ottobrina che meglio non poteva essere. Salimmo alla base del Caporal e per me fu già faticoso. Furono effettuate brevi interviste e riprese a Brenna e Nardi che salivano su Itaca. Alla fine Ugo, Guido ed io salimmo da secondi la prima lunghezza dei Tempi moderni, tanto per fare testimonianza.
A dispetto dell’evidente inadeguatezza di noi tre anziani (anche Ugo non stava bene e Guido aveva smesso di arrampicare da tempo), la giornata fu serena non solo in cielo e alla fine tutti erano contenti di essere stati lì, a nostro modo un bel ricordo del nostro amico. Nessuno poteva immaginare la tragedia che sarebbe successa pochi giorni dopo. La sua unica figlia, Claudia, sarebbe morta dopo atroci sofferenze, al seguito di un tragico incidente stradale nei pressi di Londra, travolta da un camion mentre era in bicicletta.

L’analisi
L’estate appena trascorsa e il persistere della mia patologia mi convinsero che non potevo più rimandare l’ulteriore esplorazione delle mie profondità. Un viaggio interrotto ai primi degli anni Ottanta in una stazione ferroviaria che per tanti anni era stata la mia casa ma che ora mi stava urlando di non esserlo più. Fermo su una cengia che mi dava appena da vivere ma ancora ben lontano dalla vetta, convinto che il passare del tempo fosse a mio favore, illuso di aver superato il pericolo di depressione corso tra il 2003 e il 2013. La cima la vedevo, lassù, ma non riuscivo a comprendere come fare a raggiungerla: erano intervenuti nuovi sedimenti di superbia, l’umiltà necessaria per farsi indicare il cammino seppellita da tonnellate di cose da fare, di obiettivi da raggiungere, tutta “fuffa” inutile che rendeva il mio procedere lento, incerto e timoroso. Sì, avevo paura. Paura di ciò che per trent’anni avevo evitato di esplorare, tradendo quell’istinto, che avevo sempre avuto fin da bambino, di curiosare in ciò che appariva vuoto ma che ad un secondo sguardo rivelava i tesori più pericolosi da raggiungere.
Dunque, ancora in analisi, che naturalmente doveva essere junghiana. La ricerca del mio analista non fu lunghissima, la dr.ssa Maria Maddalena Pessina mi piacque subito. Quel 23 settembre mi recai da lei per la prima volta. Avevo il cuore in gola, ma nello stesso tempo desideravo (primo errore) dimostrarle che non ero proprio un paziente qualsiasi. Rispondendo alle sue domande le raccontai succintamente la mia storia, ivi comprese le mie vicende analitiche con Lino Tosca. Al momento della chiusura della seduta, e stabilito che la frequenza sarebbe stata settimanale, le dissi che mi sarebbe piaciuto rivederla al mercoledì.
– Perché proprio il mercoledì? – mi domandò lei.
– Perché il mercoledì è il giorno di Hermes, il dio capace di muoversi tra sfere diverse senza appartenere totalmente a nessuna. Fluidità, rapidità, capacità di essere nel mondo reale e nel mondo interiore.
– No, caro. Torni con i piedi per terra. Con Lei ci vedremo il martedì.
Così la Pessina mi mise a posto già dal primo giorno. E il viaggio sarebbe stato lungo, molto lungo. Perché alla fine si chiuse il 3 marzo 2020, qualche giorno prima del primo grande lockdown del CoVid.
Già solo entro la fine di quel 2017 annotai ben 32 sogni. Li discussi tutti con la Pessina, ampiamente. Capii che lei cercava in ogni modo di farmi arrivare con le mie forze e senza suggerimenti evidenti a un obiettivo che lei aveva già individuato come il mio e che in pratica io stavo affinando senza conoscerlo. Le immagini oniriche che io le fornivo erano da lei tradotte in domande, raramente in suggerimenti, mai in esortazioni.
Di quei 32 riporto solo qui il primo e il sedicesimo, con alcune note.
“23 settembre 2017
Sogno debole. Non ricordo con chi sto tornando a casa a piedi verso Milano ma sono in una situazione avventurosa da disastro naturale. Nella zona di Brescia. Infatti a un certo punto mi trovo a procedere camminando su una piana allagata, di acqua fangosa. Dubbio d’essermi perso, senza particolare angoscia.
Cambio di scena, sono a una specie di corso aggiornamento guide alpine, sono il più anziano. Non che ci fosse competizione, ma nelle varie prove mi rendo conto d’essere arrivato ultimo, quindi di essere appena appena all’altezza. Di scena in scena è come se tentassi di sopravvivere in un mondo che non è più il mio. Nessuno però se ne accorge. A una tavolata, tra gli altri è anche Ivan Negro”. Al mio risveglio c’era stata anche la considerazione che Ivan si era suicidato nel 2012: non avendone contezza nel sogno, potevo ambientarlo solo in un periodo precedente.
Per prima cosa la Pessina contestò con fermezza la mia affermazione che il sogno era “debole”. La presenza del disastro naturale e dell’acqua nella quale mi trovavo non davano dubbi sull’importanza di quanto stava arrivando dalle profondità, con chiari riferimenti al pericolo del momento. In questa “cornice” c’era pure la fotografia di un povero me che si sentiva “appena appena all’altezza”. Lì c’era da spazzare via ogni indulgenza e piagnisteo, perché quel mondo “non era più il mio”: era necessario andarsene, soprattutto andare avanti senza altri indugi. Altrimenti avrei potuto cadere nelle stesse trappole mortali in cui era caduto il povero Ivan. Niente di ciò mi fu detto da lei direttamente. Ci arrivai da solo (si fa per dire) dopo qualche altra seduta.
“16 ottobre 2017
Tavolata con più persone, si discute sul sapere e su ciò che possiamo prevedere del nostro futuro. Sono seduto a destra di una donna che ricorderei come mia madre e taccio, lasciando parlare altri. Quando c’è una pausa di silenzio, parlo io con voce molto pacata, più che altro mi rivolgo a mia mamma e dico che l’inconscio si aspetta sempre che noi vediamo il presente in un certo modo, onnicomprensivo, il che non avviene mai. All’inconscio interessa il presente, correggere il nostro presente, del futuro non gli interessa. Anche perché per l’inconscio il tempo non esiste. Un’affermazione ascoltata da tutti, una specie di silenzio-assenso”.
Il monologo con mia madre era la pretesa del mio ego cosciente di definire, parlando con la sua anima, gli ambiti dell’inconscio. Pretesa inane, anche se non violenta e neppure autoritaria, come pure il crogiolarsi in un illusorio silenzio-assenso. L’inconscio non si può definire. Ciò che dicevo non era sbagliato, bensì soltanto inutile. Invece di perdere tempo a tessere le lodi dell’inconscio dovevo semplicemente tuffarmi nelle sue profondità, con tutta la paura del caso.
I convegni
Mentre le conferenze di praticamente tutto l’anno avevano come argomento la presentazione della riedizione dei Cento nuovi mattini, i convegni cui partecipai erano come al solito della più grande varietà. Tra di loro cito i seguenti.
Il 10 febbraio la presentazione al pubblico del CAI Roma (assieme a Gianni Battimelli) del premio letterario Roberto Iannilli, del quale ero stato nominato anche Presidente di Giuria.
L’11 febbraio ero a Lanzo Torinese, al convegno Balme Experience organizzato da Mountain Wilderness. Oltre ad alcuni esponenti delle Amministrazioni, erano presenti anche il presidente generale del CAI, Vincenzo Torti, Carlo Alberto Pinelli ed Ermete Realacci, presidente di Legambiente.

Il 12 febbraio ci fu l’intervista fatta a me e a Ugo Manera per il film su Gian Piero Motti. Si svolse nello strano ambiente concesso dai gestori della Piccola Casa della Divina Provvidenza, in zona Valdocco, praticamente il Cottolengo. Questa intervista ho riportato pressoché integrale in La solitudine di Gian Piero – 1 e La solitudine di Gian Piero – 2.
Il 15 febbraio ci fu la mia ultima presentazione (a Milano) del Festival di Banff. E, nello stesso solco di interessi, il 28 marzo assieme a Franco Michieli, presentai all’Arca di Milano il MiMoFF (Milano Mountain Film Festival).
Il 29 aprile fu la volta, al Festival di Trento, di un importante convegno sull’arrampicata sostenibile, organizzato dalla UISP. Il giorno dopo, sempre a Trento, presentavo il libro di Paolo Castellino, C’è un tempo per sognare, l’accurata biografia di Gianni Comino.

In occasione del MiMoFF, il 12 giugno assieme a Marco Albino Ferrari e Valentina d’Angella, presentammo e in seguito commentammo Due amori – Storia di Renato Casarotto, lo spettacolo teatrale di Umberto Zanoletti scritto da Nazareno Marinoni.
Il 15 giugno grande serata a Bevera di Barzanò, sulla piazza antistante al negozio Sport Specialist di Sergio Longoni. Il titolo era “Storie di Alpinismo” e con me erano Aldo Anghileri, Luigi Bosisio, Giuseppe Alippi, Romano Perego, Gianni Rusconi e Gianni Redaelli.
Per il 24 e 25 giugno il Parco nazionale del Gran Paradiso produsse il convegno “Oltre la meta”. Molto brave le due organizzatrici, Franca Guerra e Cristina del Corso. Eravamo a Rhêmes-Saint-Georges. Al di là delle interessanti relazioni, fu molto bella un’escursione che facemmo in un bosco: l’accompagnatore ci invitò a stare seduti per circa mezz’ora senza profferire parola, soltanto ascoltando i lievi rumori naturali e meditando.

Il 30 settembre ero a Teolo (PD), al convegno nazionale del CAAI organizzato da Arturo Castagna e Francesco Cappellari. Il tema era “Alpinismo e tecnologia” e, per parte mia, cercai di dimostrare che al giorno d’oggi si dà alla tecnologia troppa importanza, a sfavore dell’intuito e dell’esperienza sul campo, con il risultato non solo di impoverire i contenuti culturali dell’alpinismo ma anche le nostre più naturali difese verso il mondo selvaggio del verticale.

L’11 novembre ero a Biella per la celebrazione dei trent’anni di Mountain Wilderness, mentre il 17 novembre ero a Roma per la premiazione della prima edizione del premio letterario Roberto Iannilli.
L’ultimo convegno fu il più importante e impegnativo: organizzato dal CAI Pisa e da Alessio Piccioli era imperniato sulla “Storia alpinistica del Pizzo d’Uccello”. Il 22 novembre si svolse la serata, con pubblico assai numeroso. Mi ero preparato assieme all’amico Giovanni Bertini, grande conoscitore delle Apuane e della loro storia. Una settimana dopo, il 29 novembre, ricevetti la lettera d’incarico di responsabile della comunicazione del Collegio Nazionale delle Guide Alpine. Ancora una volta si dimostrò come, anche a fronte di incarichi ufficiali, nell’ambito delle guide alpine continuasse ad esserci l’immobilità totale per tutto ciò che riguardava la promozione pubblica della loro immagine. I miei sforzi, il tempo impiegato: tutto perso.

Il 3 dicembre avevo una conferenza a Domegge di Cadore, organizzata dall’amico Gianfranco Valagussa, presidente del CAI locale. Ebbi l’avventura di recarmici assieme a Stefano Michelazzi e a Luca Calvi, quest’ultimo grande conoscitore delle bettole della zona in grado di offrire ai clienti ottimi vini. Alle 15.30 eravamo già fermi alla Sella di Fadalto, dopo essere appositamente usciti dall’autostrada. Al Bar Albergo Sella degustammo due meravigliose bottiglie e perdonatemi se non ricordo di cosa. In seguito, ormai ben oltre Longarone, ci fermammo in un altro posto dove per fortuna facemmo anche un po’ di merenda. Altre due bottiglie. Giungemmo a Domegge in orario aperitivo, che naturalmente non ci fu risparmiato (e noi neppure ci sognammo di rifiutare). Dopo la “conferenza”, peraltro riuscita benissimo nell’accogliente sede del CAI, la festicciola proseguì in casa del “nonno” Valagussa, la cui cantina era (ed è) sempre fornita del meglio. Andammo a dormire verso le tre di mattina, in condizioni neppure troppo pietose grazie ad una pasta “aglio, olio e peperoncino” da me confezionata verso le 2 di notte.




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Quando giudicare gli altri è un peccato grave, e intanto si dice di sé che si è buoni verso coloro che si esprimono in maniera vomitevole. Però!
C’ero e su invito di Giovanni Bertini feci un intervento parlando della nostra ripetizione della direttissima dei Fiorentini, alla quale apportammo un variante.
Leggo spesso commenti vomitevoli sugli interventi eretici che ovviamente non giustifico. Però cerco di comprendere sia la natura del commento sia la natura del soggetto. Da una parte suppongo la frustrazione dell’autore, spesso anomino o pseudonimo, che supera il suo isolamento sociale con una forzatura espressiva, dall’altra parte vedo nell’eccesso verbale il segno di uno stupore concettuale: qualcosa si mette in moto anche nel pensiero dei soggetti più refrattari al confronto ideologico!
Da psicoterapeuta apprezzo la volontà di mettersi in discussione, la ricerca e l’esplorazione che spesso molti alpinisti tralasciano o, più spesso, snobbano e denigrano. Un Bella manifestazione di curiosità, umiltà e coerenza con la propria esplorazione delle terre alte.