Metadiario – 189 – La dimora degli Dei (AG 1994-017)
(scritto nel dicembre 1994)
Ricordate la “legge di Coolidge”, quella secondo cui la prima ascensione di un monte è quella che vede il raggiungimento della vetta massima? La storia delle Grandes Jorasses ce la ripropone nel 1865 con Edward Whymper protagonista. Accompagnato dalle guide Michel Croz, Christian Almer e Franz Biner, l’alpinista britannico iniziò da Courmayeur una sbalorditiva marcia di velocità: partenza ore 1.35; arrivo nel punto ove ora sorge il rifugio Boccalatte alle ore 4.35; seraccata sotto l’emergenza rocciosa detta Reposoir alle ore 8.05; vetta della Punta Ovest alle ore 13.00; Courmayeur alle ore 20.45. In vetta a quella che oggi si chiama Punta Whymper era nebbia fitta e vento tempestoso; dopo una certa attesa nella speranza di un miglioramento, la pazienza del grande scalatore si esaurì ed egli ordinò la ritirata. Probabilmente non si accorse che la vetta più alta era poco distante, facile da raggiungere e di soli 26 metri più alta. Così il primato fu colto dal suo connazionale Horace Walker quattro anni dopo. Pare che Whymper sia salito sull’ancora inviolata vetta delle Jorasses solo per esaminare l’altrettanto vergine Aiguille Verte, la cui salita era considerata più importante. Durante la discesa scamparono per miracolo a una slavina che li travolse. Quella volta la sorte fu benigna: l’anno successivo, tornando dalla vetta del Cervino appena conquistata, Croz e altri tre membri della cordata precipitarono nel vuoto mentre Whymper la scampò per un soffio.
Giuseppe Miotti, Barbara Zucchi e Chiara Sicola camminano verso la Tête entre Deux Sauts (Alpi Pennine) con lo sfondo delle Grandes Jorasses

Quando una civiltà, ancora giovane e ricca d’energia nascente, si chiede i molti perché di ciò che la circonda, nascono decine, centinaia di dei. Prima sono allo stato totemico, poi gradualmente le figure che presiedono ai tanti stati d’animo e ai molteplici fenomeni assumono caratteristiche sempre più definite, opposte l’una all’altra, alleate talvolta per abbattere qualche pericolosa volontà di cambiamento nell’ordine costituito.
Le civiltà più evolute riflettono la tendenza alla presa di coscienza del singolo individuo nei confronti di un unico credo. E allora diventa responsabile una divinità unica, un dio che tutto ha creato e cui tutto fa capo. Non più le pulsioni disordinate, vizi e virtù, gioie e dolori sono attribuite a responsabili diversi, ma ogni sentimento e ogni accadimento sono volontà dell’unico Essere che vuole, è vero, il nostro bene ma permette il nostro male. A noi la libera scelta.
Il gradino ulteriore appare alla vista di chi sta faticosamente salendo quando quest’unico Dio diventa lo specchio della nostra contraddizione, quando perde la qualità di monarca assoluto e la sua unicità (triplice o no) si disperde nei mille rivoli che costituiscono l’essere di ciascuno di noi. Quindi quando le pulsioni del tutto personali che prima erano attribuite agli dei ridiventano solo nostre, con tutte le responsabilità annesse.
Le montagne sono sempre state un confine tra coscienza e incoscienza. Rappresentano le forze del bene e del male, quelle chiare e quelle oscure. Biblioteche intere ci raccontano di montagne che sono sacre perché dee esse stesse oppure perché dimore di dei.
Nel passaggio dal primo al secondo stadio di coscienza religiosa, il Dio ebraico massacra definitivamente gli dei e i vari vitelli d’oro con le tavole di pietra dei dieci comandamenti imposti a Mosè sul Monte Sinai.
Nel passaggio dal secondo al terzo stadio i buddhisti non relegano le montagne sullo sfondo ma le promuovono a luoghi privilegiati di eremitaggio (Milarepa) dove sia il filosofo che il religioso possono raggiungere l’Illuminazione, cioè quello stato di grazia che permette all’uomo di vedere il mondo nella sua totalità e superare la figura di un dio unico protettore e distruttore.
21 agosto 1994. Lo spuntino di Giuseppe Miotti e Barbara Zucchi sulla Tête entre Deux Sauts, verso le Grandes Jorasses

La nostra civiltà occidentale è in pieno secondo stadio, per noi le montagne non sono più un fine e non sono ancora un mezzo. Forse sono solo uno strumento per cose più banali, come divertirsi o far soldi. Nessuno di noi oggi vede le montagne, ma neanche le valli, gli anfratti o gli altopiani, come case degli dei. Perché non esistono più dei. Le nostre paure ce le teniamo per noi, la responsabilità dell’ira è scaricata completamente sul nemico, le gioie o si limitano al collezionismo di piccoli successi oppure sono attribuite all’amore o a una Natura non meglio identificata. Manca la divinizzazione dei sentimenti.
Se le dimore non sono più abitate dagli dei, non c’è bisogno di rispettarle. Anzi devono essere a nostra disposizione. Ecco la filosofia commerciale del multiresidence applicata alle montagne. Le cime, le valli non sono degli dei, ma non sono ancora nostre. Perché siano di nostra proprietà dobbiamo dividerne l’uso con gli altri, temporalizzando i nostri soggiorni in settimane, in giorni, in ore. Usando e gettando. Nell’illusione di costringerle alla nostra proprietà.
Quei pochi che ancora vedono la montagna come dimora di dei mai completamente scacciati sono considerati degli inguaribili romantici, innocui ma colpevoli fuggiaschi dalla realtà.
Individui che, alzando gli occhi dal fondo della Val Ferret verso la mole immensa delle Grandes Jorasses, non la considerano un ostacolo alla viabilità e alle comunicazioni europee e neppure una meta sulla quale misurarsi o sullo sfondo della quale divertirsi. Trionfo della Natura ma anche espressione di semplicità, di essenziale creazione.
Perché tutto è già espresso nel nome, in quelle solitarie “grandi boscaglie” che sono ripide, irraggiungibili, sovrastate da rocce e nevi eterne, quindi in definitiva “sacre”.
Dalla vetta della Tête d’entre Deux Sauts panorama sulla catena del Monte Bianco

Tutto questo appare lucido, evidente e innegabile quando si risale il bosco oltre La Vachey che porta al Vallone di Malatrà. Allungando il nostro cammino, quasi in piano verso il fondo del vallone, le Grandes Jorasses crescono alle nostre spalle. Ogni volta che ci voltiamo, pur essendocene allontanati, le ritroviamo più grandi, più imponenti, più inabitabili. Slanciate cuspidi rocciose che non s’allontanano dal corpo principale ma s’allineano sopra di noi a formare un’acuta cupola che va dritta verso il cielo; potenti seraccate sul ghiacciaio pensile e pareti concave insistono su un tetro imbuto ghiacciato e s’appoggiano su una valle che, illuminandosi pian piano, sparisce sotto i nostri piedi.
Il facile sentierino raggiunge un colle erboso, poi diventa più ripido per salire al punto più alto della Tête entre Deux Sauts, un cocuzzolo erboso tra appicchi di roccia nerastra a mezzo di due grandi valloni (i “deux sauts”?), in altri tempi regno di capre e di pecore, segnalato da una triste e cadente croce di legno piena delle solite scritte insulse.
La sera prima eravamo andati a dormire tutti molto tardi. Continuati assaggi da tre bottiglioni di grappe diverse, fatte da Ivan Negro con erbe di montagna raccolte al rifugio Deffeyes, avevano segnato la nostra resistenza alle levatacce notturne. Malgrado ciò Chiara Sicola, Barbara Zucchi, Popi Miotti ed io c’eravamo messi in cammino alle prime luci del 21 agosto 1994.
Quando senti le tempie pulsare a grandi martellate, per camminare bisogna inserire il pilota automatico. La lieve incoscienza ti costringe a tante domande e a svariati perché, come se qualcuno pensasse al posto tuo, con procedimenti e meccanismi mentali del tutto differenti dal tuo solito. Come un primitivo, vedo le Grandes Jorasses e le immagino abitate da dei che fanno di me ciò che vogliono, cioè mi seducono, m’imbrogliano, talvolta mi premiano e mi puniscono.
Son passati molti anni da quando i perché me li chiedevo sulle sue pareti verticali. Ma perché, ancora oggi, “tra due salti”? Quali dualismi ancora insiti in questa forza creatrice? Quale salto nel buio dovrò ancora fare per non avere più colpe, neppure quella originale?
Al ritorno svegliamo Chiara che si era abbattuta sull’erba del colle e, ormai smaltiti gli ultimi fumi etilici, ecco scoppiettare i primi scherzi e le solite allegre battute di Popi, che è una miniera di acume e di umorismo concreto. Ci facciamo veramente delle grandi risate, giù per i prati del Vallone d’Armina che vede quattro esilarati viandanti piegati in due da fuochi d’artificio verbali. Con le lacrime agli occhi, siamo consci che l’unica conclusione possibile di questa gita sia una sosta memorabile al bar di La Vachey, dai nostri amici gestori.
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Letture..e racconti…! che ci aiutano a capire , l’alpinismo vero…! Come sempre..Grazie….