Una parete, un giardino
(pubblicato su L’illustrazione dello Sport, mag-giu 1983)
Lettura: spessore-weight(3), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Alla domanda perché si scalano le montagne, e soprattutto perché lo faccio io, un tempo credevo di poter rispondere facilmente. In seguito la certezza diminuì e oggi sono sempre più sicuro che non si possa dare di questo fenomeno una spiegazione esauriente senza far intervenire anche il resto della vita dell’individuo. Esistono intere biblioteche con argomento alpinismo: la massa ‘di quegli scritti sull’esperienza della montagna possono far luce sul perché? O hanno ragione quelli che ne sono fuori, che scuotono la testa e dicono «sono pazzi», oppure «è una fuga dalla realtà»? Costoro in apparenza hanno idee chiare, ma sono preconcette e prive di reale esperienza della cosa. Eppure sento che i loro giudizi stroncanti sono assai vicini alla verità.
Finale Ligure
Sono approdato con alcuni compagni su un colletto erboso a poca distanza da Orco, un paesino dell’entroterra ligure. Lasciamo l’auto al confine dei due mondi e quasi di nascosto ci avviamo a piedi nella valletta di Rian Cornei. Ci circonda la più rigogliosa macchia mediterranea, illuminata da una luce invernale ma tiepida. Alla fine dei profumi di leccete e di corbezzoli s’indovina un mare: presto il silenzio s’impone con la forza delle realtà dimenticate e l’incanto del micromondo si descrive solitario con particolari tenui e di scarsa e sfuggente appariscenza. Un fresco vento agita foglie croccanti, muretti a secco di centinaia di anni fa disegnano figure desuete nella boscaglia, una volta spazi coltivati a olivo da liguri tenacemente legati alla terra. Una pietra bianca e porosa è il prezioso materiale che usarono: facilmente lavorabile ed estraibile, era logico servirsene. Alcune tra le più belle chiese romaniche sono proprio qui nel Finalese. Anche noi siamo qui per lei, per la Pietra del Finale. Delimitato in molti chilometri quadri, uno strato d’inconsueto calcare organogeno dette origine a falesie e risalti che da quindici anni attirano arrampicatori, ormai da tutta Europa.
Non è un terreno di gioco alpinistico, chi vuole scalare queste rocce non agisce per brama di conquista. Si può pensarlo più gioco, evoluzione artistica o danza nel vuoto. Arrampicare è salire pareti il più verticali possibile, a volte strapiombanti, usando gli appigli, cioè i magnifici mezzi che collegano il nulla alla materia rocciosa. Ma non sempre e non per tutti è così: spesso ci si vuole regalare delle giornate spensierate, si vuole vivere in un giardino vero, tra amici. Allora arrampicare diventa veramente agire senza scopo, muoversi ritmico del corpo, ginnastica senza uguali proprio per l’infinità di combinazioni possibili di movimenti. Il pericolo di cadere deve essere eliminato: la paura impedirebbe di vivere con serenità i bei gesti difficili. Troncherebbe pure le possibilità individuali di migliorare le proprie prestazioni competitive, almeno alla maggioranza così pare: perché la soglia della paura di cadere si frappone tra noi e un mitico risultato atletico. Sempre più ingegnosi sono i sistemi e gli strumenti con i quali il capocordata si «protegge» da eventuali voli: spesso gli itinerari più frequentati presentano già infissi i chiodi necessari per l’assicurazione. È il nostro caso oggi: qualcuno ha fatto un lavoro di attrezzatura che ci permetterà di salire senza problemi. Per la prima ora saliamo la parete un po’ freddina perché ancora senza sole. Sotto di noi invece la boscaglia è un lago vivo, immerso nel silenzio, nell’azzurro del cielo e nello splendore bianco della roccia. L’altro versante della montagna si proietta sull’assurdo ma altrettanto reale viadotto dell’autostrada. Monte Cucco è lo sfondo dei caselli di Feglino e la bianca barriera chiude lo scorcio sull’azzurro del mare. Alla base dell’antica scogliera è un piazzale sterrato. È tardo pomeriggio, il sole indora la parete e staglia figure nitide e vivamente colorate di ragazzi che salgono tra confusi vocii e richiami sgangherati. Un amico ha portato qui il papà e la mamma: da tanto tempo loro volevano vedere ed è meglio che vedano un circo piuttosto che una battaglia.
Marco Preti, Franco Perlotto e Alessandro Gogna sui primi tiri della via Salathé al Capitan, 2 novembre 1978
Echeggia improvviso un ordine dalla parete: musica! E un diciottenne rimasto alle auto mette a tutto volume un pezzo funky. Osserviamo un ragazzo che sale l’itinerario della Pulce: non è bravissimo, ma quando incontra il primo chiodo infisso non vi si assicura: così, se cadesse, sbatterebbe per terra da dieci metri, quasi tre piani di una casa. Da sotto i suoi compagni lo osservano e lo giudicano. Il non passare la corda nel chiodo forse fa sentirsi «veri uomini» e dà un brivido di stolta emozione. Le palme delle nostre mani sono invece disgustosamente sudate ed è con raccapriccio che vediamo un movimento sbagliato che poteva concludersi in tragedia. È solo al secondo chiodo che finalmente il nostro attore si assicura e così pure al terzo, impaurito dall’avvertimento di prima.
Nell’aria le note, distorte da eccessivo volume, di Jackson Browne sono contrassegni esterni di un malessere che viviamo dentro. Rincorro la prima volta che venni qui, nel 1972: era domenica e non c’era nessuno. Mi accostavo alle vie come sempre, con religioso rispetto per chi le aveva fatte prima di me. Cosa è rimasto oggi di tutto ciò a Monte Cucco? Forse non sono più giovane, ma questo free climbing non mi sembra del tutto libero. È prigioniero dietro a sbarre di solidi rituali e di effimere quanto tenaci mode. Ma non esiste libertà senza un carcere preesistente. Sarà compito loro liberarsi, ma è anche loro diritto giudicare se io ci sono riuscito o no.
Cascate di ghiaccio
Al sole di una calda giornata estiva, sulle nevi eterne o sui ghiacciai dei quattromila, è difficile pensare che si sta salendo su un terreno fatto d’acqua. Quelle bianche spumeggianti cascate che d’estate rumoreggiano al fondo di incassati valloni, d’inverno si irrigidiscono in strutture ghiacciate: sono proprio queste sottili corazze di ghiaccio traslucido che da qualche anno accendono la fantasia anche di chi già prima amava le salite di ghiaccio in alta montagna. L’alpinismo non è del tutto esente da proposte progressiste: questa è una delle ultime novità. Forse all’alpinista non basta più rincorrere il cielo azzurro nei luoghi dove la crosta terrestre s’alza più ardita. Ora anche l’acqua è terreno di gioco e la salita di una cascata ghiacciata è un po’ la ricerca mitica della sorgente dell’acqua della vita.
È curioso che questo tipo di scalata non fertilizzi molto lo spirito di competizione: che importa se una cascata è già stata percorsa o no? Ogni anno si formano e da un giorno all’altro non riamane alcuna traccia. Anche deboli solchi lasciati dagli attrezzi il giorno dopo saranno scomparsi e c’è chi ha visto in tutto ciò un inserimento ecologico. Un nuovo terreno dunque, qualcosa che può essere opposto alla tradizione. Salire questi scivoli di ghiaccio con tecniche del tutto nuove ha lasciato perplessi i «vecchi alpinisti». Negli ambienti tradizionali infatti si giudica con accondiscendente sufficienza la salita delle cascate considerandola un allenamento per imprese maggiori. Il progresso non si lascerà facilmente esorcizzare da astute formule di condanna e anche l’acqua sarà prima o poi assimilata nel gioco creativo dell’alpinismo.
Confidenze tra classico e moderno
Sono nato 36 anni fa, così non sono né vecchio né giovane. Ma quelli della mia età, gli alpinisti con i quali ho salito tante montagne, sono oggi in generale più anziani di me: è una cosa che sento e non pretendo dare giudizi definitivi. È sempre stato di mio interesse non solo lo sviluppo nel tempo dell’alpinismo, ma pure il cambiare delle mentalità nelle nuove leve. Capivo da tempo che qualcosa stava emergendo alla superficie dalle insoddisfazioni del profondo: perciò ho molti amici fino a 20 anni più giovani di me. Ma tutto questo maturare è proprio stancante e qualche volta vorrei che tutto rimanesse uguale.
In seguito alle mie stagioni «gloriose», trascorsi tre anni di ripensamento: niente più che salite brevi, all’inizio del free climbing in Italia. Perché l’alpinismo per tutto quel tempo mi aveva lasciato insoddisfatto? Era la domanda più grossa. Tutte le mie salite in «prima ascensione» erano state delle azioni di guerra e avevo lottato con la natura per emergere sugli altri. In seguito modificai questo giudizio, forse allora sputavo su un piatto ormai vuoto. Ma non fu inutile e ritornai ad un alpinismo diverso, forse più a mia misura, ancora una volta comunque su montagne difficili o lontane. L’alpinismo non lascia un grande spazio a una professione: anche in questo si differenzia dagli altri sport. Scrivere libri, fare la guida alpina, vendere foto o editare guidine tecniche mi lasciano sopravvivere. Solo ora però, perché prima dovevo fare anche altri lavori.
Il mio coinvolgimento nell’arrampicata difficile su roccia è relativo. Non sono in grado di salire in libera oltre ad una certa difficoltà atletica, ma cerco di godere di ciò che faccio: è la cosa più difficile, tanti lo predicano, pochissimi ci riescono perché pensiamo sempre a un qualche risultato.
Non sono ancora preparato a tornare sulle grandi montagne con questo nuovo sentimento. Forse andrò in Himalaya, tra qualche anno: spero di essere pronto per quel tempo. Rifiuto le spedizioni gigantesche e allo stesso modo sento che sarebbe inutile affrontare i colossi asiatici con spedizioni di due persone: sarebbe ugualmente competitivo nei confronti del resto del mondo, e ancora più stressante. Il mio free climbing personale è una conseguenza di una evoluzione alpinistica. Senza cambiamenti di sorta, ora sarei di certo già caduto da qualche parte. Avevo raggiunto un tal punto d’infelicità che nulla era per me più molto importante. Ieri arrampicare e salire erano per me una specie di idealismo. Qualcosa alla Fitzcarraldo (il film di Werner Herzog, se l’avete visto). Oggi ritengo che tutto ciò sia necessario, ma lo è altrettanto sbarazzarsene al momento giusto.
Manolo sulla 6a e ultima lunghezza di Cristalli di Paura (1a asc) a Punta Cristallo (Capo Caccia), 12 gennaio 1981
Raramente, anche in montagna, abbiamo la forza di porci delle vere domande. Di solito ci si vuole solo divertire, ma ciò non è possibile a lungo se non si fa qualche investimento.
L’arrampicata sportiva e il salire le cascate sono la parte sportiva dell’alpinismo. Nessun ideale, solo competizione o divertimento. Non c’è alcuna differenza con gli altri sport, perché queste attività migliorano il corpo ma non la mente: questa può essere solo rilassata. L’arrampicata non è quella scuola di vita che è l’alpinismo, ma talvolta questo è troppo serio, pericoloso e triste. Il coraggio non è necessario all’arrampicata sportiva e più si affrontano prove difficili, più il coraggio è inutile perché si usano ancora più protezioni. Scendere in corda doppia una parete per ripulirla, esplorarla e prepararla alla salita: sono tutte attività che non appartengono all’alpinismo. Tutto ciò però aiuta ad apprezzare di più il sole e a dimenticare un poco le fredde e ostili pareti nord. Gli arrampicatori sono avvelenati da protezioni, ma gli alpinisti sono malati di eroismo. Sarà possibile mediare in qualche singolo individuo? Anche in alpinismo ci sarà l’opera d’arte? Qualcosa che partecipi un sereno distacco, quasi una sommessa risonanza di cuori che battono all’unisono sulla stessa lunghezza d’onda. Le emozioni dell’avventura alpinismo hanno lo spessore di altre vicende umane, però spesso sono sopraffatte, già al momento dell’azione stessa, e non possono essere riconosciute. Si parla in buona fede di vaghe sensazioni, ma non si va oltre. Si è accennato a visioni, intuizioni, fuggevoli attimi. Si è osservato che situazioni al limite della vita racchiudono esperienze fondamentali e incomunicabili: ci sono stati in proposito solo balbettii sterilmente razionalizzanti e con pretese scientifiche. Quando si tratta di nascondere e censurare i sentimenti tutti i mezzi vanno bene. Prima la ragione spiega, cataloga e moralizza; poi gli stupori delle intuizioni, le descrizioni minute di sensazioni anche banali. Un’emozione la si riconosce se è immediata, ma non basta ancora per l’opera d’arte che esige pure un pieno riconoscimento da parte dell’autore della propria esperienza. Un riconoscimento che ci spinga a comprendere il senso della propria avventura alpinistica o di qualunque altra vicenda umana: questo senso è un Mito che doveva essere da noi riconosciuto. Per questo l’esperienza può essere solo individuale e così nessuna opera d’arte, pur frutto di quell’esperienza, potrà mai costituire una ricetta valida per le altrui maturazioni.
Il peggiore ostacolo è sempre costituito dalle nostre paure, un muro eretto a difesa, ma che in seguito diventa prigione e deve essere abbattuto.
Sulle Alpi e sulle altre montagne
Teatro dei sentimenti e delle grandi imprese, la montagna è sempre stata a guardare la lenta evoluzione degli uomini. E ancora migliaia e migliaia di cordate sulla Terra compiono il rito di salire la parete e raggiungere la cima per poi discendere e per poi in esaltante successione raccontare e quindi dimenticare la vera esperienza e assumerne una fittizia. Di tanto in tanto qualcuno muore per ricordarci che non c’è molto tempo a nostra disposizione e che l’esperienza è un viaggio nel regno dei morti, come quello di Dante o di Goethe. Un’esperienza che dovrebbe mostrare prima o poi allo scalatore che sale che il suo agire è una discesa verso il basso, che l’amore per la montagna è una scusa, un pretesto, una menzogna cui nessuno può ormai più credere realmente. E che ben vedono quindi i semplici quando chiedono: ma quali tesori andate cercando, lassù?
Positivi tormenti creativi.