Scartabellando in numeri passati de La Rivista Mensile del CAI, mi sono imbattuto in questo articolo che mi ha molto incuriosito, non tanto per la mia strutturale miopia, ma per l’argomento un po’ fuori dagli schemi della classica rivista di montagna, e per il taglio molto particolare.
Alla faccia di chi afferma che la Rivista del CAI sia solo il banale bollettino “parrocchiale” di una istituzione vecchia e polverosa: è vero che i decenni Sessanta-Settanta-Ottanta della Rivista hanno una caratura davvero di livello, ma l’articolo dimostra che il CAI non si occupa “solo” di sterili elenchi di salite.
Inoltre, non è casuale che l’autore del pezzo sia Gianni Pàstine, ligure, alpinista, ma soprattutto scialpinista di lungo corso e ottimo conoscitore dell’andar in montagna, oltre che professionalmente medico specialistico.
Arricchito da alcuni aneddoti storici, lo scritto di Pàstine scorre veloce sia per il suo tradizionale stile, stringato e che va diritto al sodo, sia per quell’impostazione, che a me piace tanto, di suggerimenti dettati dalla praticaccia sul terreno. Nell’era attuale, in cui la didattica è preconfezionata in moduli standard, recuperare uno scritto di 50 anni fa mi ha fatto riassaporare il clima dell’istruttore che, come un fratello maggiore, illustra agli allievi le procedure conseguite con l’esperienza diretta.
Al di là della possibile obsolescenza di alcune indicazioni sanitarie, l’articolo di Pàstine testimonia come si intendesse un tempo il passaggio di informazioni pratiche fra istruttore e allievo o, più in generale, fra alpinisti esperti e neofiti (Carlo Crovella).
La funzione visiva e l’alpinismo
di Gianni Pàstine
(pubblicato su La Rivista Mensile del CAI, maggio 1975)
Credo di poter rispondere in maniera abbastanza esauriente a quanto mi è stato richiesto da quanti con me hanno partecipato all’ultimo corso per istruttori nazionali di scialpinismo, e di far cosa gradita a tutti i lettori di questa rivista, in quanto argomenti di indubbio interesse diretto. L’alpinista deve recarsi in montagna con la propria funzione visiva nelle migliori condizioni possibili. Con questo non dico che dobbiamo stabilire un criterio fisso di idoneità tipo patente automobilistica o, peggio ancora, concorso di assunzione presso le ferrovie dello stato. L’alpinismo, almeno nel mondo occidentale è attività libera per eccellenza; mi limito, quindi, ad alcuni consigli che ritengo indispensabili partendo da cognizioni teorico-pratiche ormai convalidate più che altro dall’esperienza. Partiamo dall’individuo portatore di un difetto visivo perfettamente correggibile con lenti, quindi ancora ben entro i limiti della fisiologia. C’è difetto e difetto in varie gradazioni, c’è chi ritiene l’uso delle lenti correttrici indispensabile e chi no. C’è chi per falsi preconcetti, se non per piccole ambizioni personali, non ritiene necessario l’uso delle lenti correttrici a permanenza, quindi anche nell’esercizio dell’alpinismo. Si tratta appunto di un preconcetto ormai errato.
Ogni individuo deve essere cosciente di dover raggiungere la migliore acutezza visiva possibile in visione simultanea con entrambi gli occhi, e se questa è raggiungibile solo a mezzo di una correzione con lenti, ha l’obbligo morale di portarle. Ricordo un paio di esempi: nella discesa dalla Aiguille du Petit Dru, salita per via normale, l’amico Euro Montagna ed io raggiungiamo la spalla verso l’imbrunire. Non ci resta che un facile terreno roccioso ed il ghiacciaio della Charpoua che abbiamo già percorso al buio al mattino. Ci affrettiamo a proseguire, ma siamo bloccati da una cordata di amici, uno dei quali vede abissi insondabili in saltini di pochi metri. Per solidarietà bivacchiamo e non sarà cosa piacevole, visto che siamo senza sacco da bivacco, con pochissimi viveri e con le calde coperte della Charpoua ad una distanza non insuperabile. Qualche anno dopo saprò che l’amico in questione è un miope lieve, tuttavia tale da possedere una acutezza visiva scarsa per lontano; ritiene, però, utile l’uso delle lenti solo per guidare o per la TV e il cinema. Naturalmente, sul Dru era senza occhiali…
Un altro amico inforca per prova le lenti che normalmente usa per guidare e scopre d’incanto di vedere una miriade di fessure da chiodare.
Credo, quindi, che si tratti di due esempi abbastanza probanti. Quanti alpinisti che soffrono le partenze al buio, stranamente incerti sulla via da seguire specie in discesa, impacciati ai punti di sosta nella ricerca di ancoraggi validi, non sono in realtà che dei portatori di difetti visivi anche minimi, tuttavia tali da essere corretti a permanenza.
Un ultimo consiglio ai portatori di lenti: portatevi sempre il ricambio e assicuratevi bene sulle orecchie e sulla nuca gli occhiali che indossate. Un colpo della corda, un movimento brusco, possono farli cadere e mettervi di colpo in una situazione poco piacevole.
Ho scritto, poco sopra, che l’alpinismo è attività libera; non si può quindi impedire l’accesso alla montagna ad alpinisti menomati anche più o meno gravemente nella funzione visiva.
Ci sono però cose che l’interessato e, chi, per libera scelta, lo accompagna deve assolutamente sapere e che pertanto mi permetto di consigliare. Per menomati nella funzione visiva intendo naturalmente individui colpiti da esiti irreversibili di pregresse malattie o eventi traumatici che hanno, almeno in parte, ridotto la funzione visiva senza possibilità di correzione con lenti o, per lo meno, con correzione parziale. E’ il caso del miope elevato con irrimediabili alterazioni della retina e della coroide, dello strabico la cui visione è, nella migliore delle condizioni, sempre mono-oculare anche se alterna (ora con un occhio, ora con l’altro), del portatore di esiti traumatici che hanno portato alla perdita, o quasi, funzionale se non anatomica di un occhio, al più anziano portatore di iniziali alterazioni della funzione causate da alterazioni anatomiche tali tuttavia da esser considerate quasi normali, data l’età.
In tali casi, sarà bene evitare innanzi tutto partenze notturne su terreno accidentato o comunque difficile, così come, possibilmente, rientri nell’oscurità più o meno incombente o totale. Bisognerà prevedere una discesa facile, comunque senza grossi problemi, anche per quanto riguarda la ricerca del terreno. In ogni caso, l’individuo menomato va preceduto.
Nel caso di corde doppie non va mai calato per primo. E’ meglio, quindi, essere almeno in tre. Ricordo un caso capitatomi quando non potevo ancora sapere con esattezza le poco felici condizioni visive di un amico. Giunti in vetta alla Punta Plent nella traversata est-ovest della Catena delle Guide, lo calai per primo, in sicurezza, lungo lo spigolo ovest. Naturalmente l’amico non vide il punto di arrivo, costituito da uno stretto intaglio, e passammo così una problematica mezz’ora nell’attesa della cordata di amici che ci seguiva.
E’ quindi, da come si può desumere, un problema di scelta accurata dell’itinerario da percorrere. Sarà poi prudente, specie nello sci-alpinismo, evitare ad individui dalla funzione visiva non buona, uscite con cattive visibilità, specie durante una nevicata. In ogni caso, vale la regola del precederli.
Sarà infine raccomandabile, a miopi elevati e ad anziani, l’evitare, per quanto possibile, traumi contusivi cranici, anche di non grave entità, traumi che possono influire negativamente sulla loro più fragile retina provocandone a volte rottura e distacco.
Veniamo ora ad un capitolo che ci riguarda tutti, cioè quello delle offese che, per via dell’ambiente alpino e della pratica alpinistica, è possibile arrecare alla integrità anatomo-funzionale del nostro organo visivo, quindi alle misure preventive e curative necessarie.
Innanzi tutto l’abbagliamento: esso è massimo, per fenomeni di riflessione, in terreno innevato, anche con nebbia, specie in primavera ed estate, quando, per via dell’inclinazione dei raggi solari, la loro riflessione è più accentuata.
Essi possono agire provocando una vera e propria ustione su palpebre, congiuntive e, a volte, cornea. In casi più gravi, rari per fortuna, l’abbagliamento può raggiungere direttamente la retina centrale, provocandovi una vera e propria fotocoagulazione e quindi un esito cicatriziale irrimediabile con danno funzionale permanente t il caso tipico di chi ha osservato l’eclissi di sole a occhio nudo.
Naturalmente, è sempre meglio prevenire tali danni. La loro cura, nei casi più gravi, è sempre cosa problematica e spesso votata ad un almeno parziale insuccesso. Necessità, quindi, di occhiali protettivi tali per forma e colore, da usare non appena la luce diurna, anche con cattivo tempo, provochi fenomeni di riflessione. Su versanti esposti a occidente si potrà fare a meno di lenti protettive fin verso le dieci del mattino come su quelli esposti a oriente dopo le diciassette; lo stesso dicasi per i versanti settentrionali nella stagione invernale, ma occorrerà non superare tali limiti.
Così come sarà bene allenarsi a portare gli occhiali protettivi anche su terreno impegnativo perché tanti fatti infiammatori da luce hanno trovato la loro origine su terreno difficile ove l’alpinista, soprattutto per garantirsi un maggiore equilibrio evitando la limitazione di campo visivo imposta dagli occhiali, ne ha fatto a meno.
Tali occhiali debbono proteggere per forma e per colore: per forma, in quanto debbono possedere una valida schermatura laterale e debbono essere ben aderenti alla pelle della regione frontale temporale e zigmatica, cioè ai contorni dell’orbita. Il colore deve contrastare validamente la radiazione ultravioletta.
Consideriamo infatti lo spettro dei colori: esso va dal rosso al violetto attraverso il giallo, il verde e l’azzurro; l’ultravioletto va quindi contrastato con colore vicino al rosso (marrone, che risponde così anche a esigenze estetiche), come l’infrarosso delle luci artificiali andrebbe combattuto col violetto. Inutile quindi la tinta verde, estetica sì, ma che contrasta in modo parziale costringendo ad una percentuale di assorbimento troppo forte.
Buon coadiuvante degli occhiali è il berretto con visiera che Toni Gobbi imponeva di rigore ai partecipanti alle sue famose settimane sci-alpinistiche di alta montagna.
In caso di infortunio, la cura è igienicofisica e medicamentosa: l’infortunato va protetto dalla luce e sollevato dagli intensi bruciori che prova con impacchi freddi a palpebre chiuse (ottima senz’altro la neve). E’ così possibile ottenere un primo effetto vasocostrittore e quindi decongestionante. Applicare poi medicamenti locali atti a provocare tale effetto. Cito per comodità alcuni nomi commerciali: Ascotodin, Imidazyl, Ischemol, Tetramil, Visustrin.

Nei casi più gravi tali farmaci non sono sufficienti. L’infortunato può essere aiutato con la somministrazione per bocca di antiinfiammatori (in mancanza di meglio può andar bene l’aspirina o simili che quasi tutti gli alpinisti hanno nella propria farmacia portatile). Quanto ai medicamenti locali, sono assai utili i preparati a base di xantopterina ed eparina, associati o no ad antibiotici, per via della loro azione riparatrice di erosioni della cornea e antiustione in genere.
Evitare il cortisone, per via della sua azione anticicatriziale, a meno di essere sicuri di non trovarsi di fronte a perdite di sostanza superficiale.
L’infortunato alla cornea ed alla retina va ricoverato non appena possibile in reparto ospedaliero specialistico. L’infortunato alla cornea presenta una fortissima intolleranza alla luce. Per potersi render conto di cosa abbia, sarà opportuno instillare un collirio anestetico (Novesina 0,4% o Visuanestetic). Sollevato dal sintomo dolore, il colpito apre gli occhi ed allora la sua cornea appare non più trasparente ma torbida, perché edematosa. E’ necessario bendare gli occhi al colpito per il trasporto. La lesione alla retina non è accertabile direttamente, senza opportuna strumentazione, che solo lo specialista del ramo è in grado di usare. Tuttavia occorre sospettarla quando il colpito lamenta una generica diminuzione della vista o una visione «a macchie»
Altri eventi morboso traumatici sono provocati da sassi o ghiaccioli, ovviamente di piccole dimensioni, da scariche elettriche, da corpi contundenti vari; fra questi molto pericoloso il martello da ghiaccio il cui becco può facilmente rimbalzare in direzione dell’occhio destro, se manovrato con la mano destra, o dell’occhio sinistro se manovrato con la mano sinistra.
Occupiamoci prima di tutto dei microtraumi; non gravi ma molto fastidiosi per via della spiccata sensibilità dell’occhio, in quanto la cornea è ricchissima di terminazioni nervose sensitive. E’ il caso di corpi estranei di varia natura che aderiscono alla cornea o che si infilano nelle pieghe interne delle palpebre (congiuntiva tarsale superiore e inferiore).
Innanzi tutto procedere, come sopra indicato, alla anestesia per instillazione. È utile prima di tutto per esaminare l’infortunato. Se il corpo estraneo aderisce alla cornea, sarà bene, se possibile, farlo asportare da un medico. Se è nascosto nelle pieghe interne delle palpebre potrà essere asportato più agevolmente di quanto non si creda, mediante strofinamento con garza sterile.
Per quanto riguarda la messa a nudo della piega superiore, occorre prima di tutto far guardare in basso il colpito, indi afferrare e stirare con pollice e indice di una mano il margine della palpebra superiore facendo leva con l’indice dell’altra mano sotto l’arcata sopraccigliare. Una volta asportato il corpo estraneo, la palpebra torna automaticamente in posizione normale, se l’infortunato guarda in alto.
I traumi più gravi possono presentarsi sotto forma di ferite o no. Se la ferita interessa le sole palpebre può essere trattata immediatamente bloccando l’emorragia che ne consegue con un bendaggio compressivo (ricordarsi, nella fasciatura, di alternare un giro attorno alla testa e uno attorno all’occhio passando così sopra e sotto l’orecchio dello stesso lato), quindi affrontando dopo la opportuna pulizia (mai alcool o simili!), i margini con cerotti. Se la ferita lede il globo oculare, occorre spedalizzare l’infortunato dopo essersi limitati ad una anestesia per instillazione e ad un bendaggio dell’occhio colpito.
Il trauma indiretto, oltre al momentaneo dolore, può provocare un più o meno grave e rapido calo della vista o per versamento emorragico endobulbare, sublussazione della lente cristallina o rottura e distacco della retina. Si tratta naturalmente di eventi la cui cura è di pertinenza specialistica.
Un tipo particolare di trauma indiretto è dovuto al fulmine quando questo non è mortale. Ne consegue una opacizzazione più o meno rapida della lente cristallina, spesso bilaterale, evento meglio noto sotto il nome di cataratta traumatica da scarica elettrica.
Come comportarsi, quando è ritenuto necessario ospedalizzare l’infortunato? Ordinariamente, servizi oculistici ospedalieri con funzione di pronto soccorso, esistono solo in grossi centri. La loro ubicazione dovrà essere conosciuta preventivamente per ogni evenienza. Tale limitazione a grossi centri può apparire a prima vista insufficiente; tuttavia, è bene ricordare come soprattutto l’atto operatorio presupponga condizioni ottimali, che non sono mai tali al momento del trauma.
Resta il caso tutt’altro che trascurabile della spedizione extra-europea, e qui mi permetto di impartire qualche consiglio a colleghi prescelti come medico della spedizione, non sempre dotati di sufficienti cognizioni specialistiche, cosa che credo di poter affermare senza offesa per nessuno, in quanto, anche il sottoscritto, fuori dalla sua specialità, non va oltre cognizioni di cultura generale.
Per quanto riguarda i medicamenti, credo essermi espresso sufficientemente poco prima. Per quanto riguarda la parte chirurgica occorre avere con sé tale minimo indispensabile: anestesia per infiltrazione (ottima la carbocaina al 2%), forbici, pinze anatomiche e chirurgiche per oculistica, port’aghi per oculistica, blefarostato, pinze emostatiche di piccole dimensioni, seta 6 zeri con ago atraumatico (ne esistono bustine già pronte e sterilizzate) e naturalmente un ago da corpo estraneo.
Non dimenticare una lente binoculare di ingrandimento, una sorgente luminosa che può essere benissimo fornita da una lampadina frontale, una lente collettrice del tipo da «ingrandimento». Sarà possibile, al limite, arrivare a effettuare la sutura di una ferita corneale.
Per i dettagli rimando però agli opportuni trattati. Termino scusandomi con i colleghi specialisti e no, con gli studenti in medicina, con i paramedici del ramo, con gli ottici. La terminologia che ho usato è stata volutamente poco scientifica per ottenere una migliore comprensione da parte dei lettori.
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L’autore dell’articolo è stato una persona con la quale ho arrampicato, sciato e viaggiato molto e, nonostante non eccellesse in nessuna delle attività che praticava, lo considero un mio maestro. Di ogni via che abbiamo salito, a parte quelle che gli proponevo io, conosceva ogni minimo dettaglio storico e anedottico. La sua dialettica ligure era celebre quanto le sue battute lapidarie ma sempre di un certo stile. Era un nobile d’animo, ironico e critico soprattutto verso il Cai, che ben conosceva e amava/odiava, riconoscendone i limiti pratici e ideologici. A modo suo era molto moderno. Ma molto a modo suo. Il mio più grande orgoglio è stato quello di averlo convinto a scrivere un libro che contenesse le storie esilaranti che mi raccontava. Ne uscì GENOVESI IN MONTAGNA (Genovesi in montagna – 01; Genovesi in montagna – 02; Genovesi in montagna – 03), che praticamente è introvabile in libreria ma il Capo lo ha pubblicato qui in Grandi Storie. Imperdibile. Fidatevi!
Questo bellissimo scritto mi riporta agli anni nei quali facevo l’istruttore di alpinismo al Cai. Chiaramente la funzione visiva è una delle caratteristiche più importanti dell’ universo sensoriale di ognuno ed anzi in montagna avere quello che veniva detto il terzo occhio era una di quelle qualità che in certi casi poteva fare la differenza. Ma tornando ai tempi delle scuole relativamente agli istruttori non era richiesto alcun certificato medico che ne attestasse l’idoneità fisica (inclusa quella visiva) all’ insegnamento. Viceversa agli allievi che ci si affidavano veniva richiesto un certificato medico di sana e robusta costituzione. Mi sono sempre chiesto del perché di questa cosa e provai addirittura a portare questa domanda nelle sedi opportune ricevendone una bella alzata di spalle ! Forse eravamo di fatto dei super… uomini ma chissà se con tutte le odierne problematiche di responsabilità civile e penale da allora è cambiato qualcosa.
Sarebbe un alibi dire che non arrampico più perché sono vecchio e miope. Ma è così: “gli anziani devono riuscire a maturare, superando l’ossessione giovanilista di produrre, godere, durare, possedere, competere” (monsignor Vincenzo Paglia).
Segnalo un errore di battitura : la parola “abbIgliamento”in luogo del termine corretto “AbbAgliamento” circa a metà del peraltro utile articolo.