A stagioni climatiche stravolte, gli Inuit dell’Artico sono malati di… solastalgia.
La solastalgia degli esquimesi
a cura di AGI
(pubblicato su agi.it il 18 ottobre 2020)
Oltre allo scioglimento accelerato dei ghiacciai e alle temperature record, nell’Artico i cambiamenti climatici stanno causando danni psicologici alle popolazioni indigene: la solastalgia.
Il termine solastalgia – crasi che arriva dal latino ‘solacium’ (conforto) e dalla radice greca ‘algos’ (dolore) – è un neologismo coniato nel 2003 dal filosofo australiano Glenn Albrecht e indica il sentimento di nostalgia che si prova per un luogo nonostante vi si continui a risiedere.
A soffrirne, fra i tanti, sono gli Inuit del Canada che provano un forte sentimento di nostalgia da casa pur vivendo ancora a casa loro, una casa che, però, non riconoscono più poiché profondamente alterata dagli effetti del riscaldamento globale. E’ proprio questa la solastalgia: l’impatto psicologico e più intimo dei cambiamenti climatici avvertito dai singoli cittadini. A documentare la dolorosa ferita psicologica patita sulla propria pelle è il Guardian che ha rilanciato le testimonianze di alcuni Inuit.
“Con un accesso limitato alla terra e all’acqua, le persone con un forte legame con la nostra cultura subiscono gli effetti della depressione stagionale” ha raccontato Neil Kigutaq, un Inuit, al quotidiano britannico. “Non è necessario andarsene per piangere la perdita della propria casa: a volte l’ambiente cambia così rapidamente intorno a noi che quel lutto esiste già” ha riferito Ashlee Cunsolo, decana degli studi artici e subartici alla Memorial University di St John’s, dove ha lavorato con gli Inuit per esaminare gli impatti mentali, fisici, spirituali ed emotivi della crisi climatica.
Le popolazioni dell’Artico fanno da sempre i conti con un ambiente e condizioni meteorologiche complessi da gestire, in particolare durante le stagioni intermedie. In pratica nei periodi in cui non c’è abbastanza ghiaccio per usare in sicurezza una motoslitta, ma c’è troppo ghiaccio nell’acqua per andare in barca. Come effetto dei cambiamenti climatici, negli ultimi anni queste stagioni sono rapidamente e costantemente peggiorate, portando con sé nuovi disagi ai residenti.
Quello che in altre parti del mondo viene percepito come una modifica del clima relativamente innocua – per riprendere l’espressione di uso comune “non esistono più le mezze stagioni” – a quelle latitudini si manifesta, invece, in modo molto concreto e pericoloso. Ad esempio le improvvise fluttuazioni delle precipitazioni e della temperatura impediscono alle popolazioni di pianificare le proprie attività quotidiane e sempre più spesso mettono a repentaglio spostamenti e abitudini ancestrali. Il risvolto, oltre ad essere molto tangibile per l’intera comunità, ha anche una manifestazione psicologica individuale, molto intima. In pratica il singolo abitante, nato e cresciuto in un rapporto simbiotico con la propria terra, nel vedere l’ambiente in rapida evoluzione e in sofferenza prova in modo automatico una sensazione di dolore empatica.
Per gli Inuit cultura, valori e abilità si trasmettono di generazione in generazione praticando caccia, pesca e raccolto. Dal momento in cui la crisi climatica stravolge il loro ‘habitat’ quindi le loro attività ancestrali, anche le tradizioni sono in serio pericolo. Provano un senso di disagio, per non dire di angoscia, quando intorno a loro tutto cambia nel giro di poche ore. Loro lo avvertono nel proprio corpo e nella propria mente, sono consapevoli e tristi, sentono che qualcosa non va ma non sempre riescono a capire, sentendosi anche impotenti nella risposta da dare al ‘Sos’ lanciato dalla propria terra. Secondo Cunsolo, la solastalgia potrebbe essere, in fondo, una manifestazione positiva che aiuta gli Inuit a dare forma, a mettere un nome e identificare le cause delle loro preoccupazioni.
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Leggo anche io ora l’intervento di Geri: lo ringrazio di cuore.
Ha ragione al 1000%.
Ancora grazie.
MS
Sono d’accordo con Matteo: grazie, Geri, per il tuo contributo!
Geri, dovevi proporre al Capo questo intervento con un paio di foto!
Avvicinante. Bello.
Inuit, Lapponi, solastalgia
Degli inuit io so pochissimo, quasi soltanto quello che ho imparato in un interessantissimo museo antropologico a Vancouver.
Però, una trentina di anni fa, ho avuto contatti con dei lapponi. Non molti. I lapponi sono pochi e già allora molti di loro non vivevano più come tali ma come integrati cittadini norvegesi, svedesi o finlandesi. Nella mia peregrinazione non ho mai incontrato tribù lapponi. Solo una volta ne ho incontrati due, di ritorno da una partita di pesca, che mi hanno subito regalato un paio di pesci.
Ho visto situazioni di transizione: un campo lappone con la sua struttura circolare in cui i lavoein (le loro tende, diverse da quelle dei nativi nordamericani soltanto per l’uso di pelli di renna invece che bisonte o caribù) venivano progressivamente sostituiti da case, sempre in quel circolo. Già allora nessun lappone viveva realmente da nomade, perchè d’estate non seguivano più le loro renne e d’inverno lo facevano soltanto alcuni maschi, separati dalle loro famiglie. Per loro, quello che era uno stile di vita ancestrale antico di decine di migliaia di anni era diventato un duro lavoro, però non più accettabile per i loro figli, che invece sono nati e cresciuti con le comodità di una casa.
Dico questo perchè ho percepito il loro disagio per il loro mondo che stava cambiando, anche se non ancora climaticamente ma solo socialmente.
Però ho avuto la sensazione che stessero affrontando serenamente e positivamente la loro trasformazione da lapponi nomadi a cittadini scandinavi.
Il mio viaggio era progredito da Sud a Nord. A Roma ho scritto con un pennarello NORD su un cartoncino, e con quello ho autostoppato fin lì. In Europa, che tu sia in Portogallo o in Grecia, se vai sempre a Nord arrivi sicuramente in Lapponia. E’ successo così anche a tutte le tribù europee di cacciatori pastori di renne durante la glaciazione di Wurm. Millenni dopo altri cacciatori di mammut, di alci e di renne dalla Siberia hanno attraversato lo stretto di Bering e necessariamente si sono fermati nel Nord Canada.
Nel mio viaggio ho dapprima incontrato gli svedesi, poi i finlandesi; come erano? impossibile rispondere perchè sono tutti individualisti molto diversi fra loro. Nella Svezia del sud ho dovuto prendere un treno perchè lì gli automobilisti avevano paura di darmi un passaggio; più a nord il problema era che non passava quasi nessuno, ma qualcuno di quei pochi era disponibile a cambiare itinerario per portarmi più avanti e dove era più probabile che passasse qualcuno o a regalarmi del cibo liofilizzato, avanzatogli perchè anche loro erano di ritorno da un lungo trekking.
Malgrado questi e altri simpatici esempi ho avuto la sensazione che prevalesse chiusura e un certo mal di vivere. Lo dicono anche le statistiche sull’alcolismo e sui suicidi.
Ne ho parlato con due ragazze, prima una svedese e poi una finlandese, questa (Paula) poco a Nord del circolo polare, e entrambe mi hanno dato la loro risposta climatica: “Sai Geri, da voi c’è tanto sole, da noi invece l’inverno è lungo, buio e triste…”
Convincente, però poi, più a Nord ho conosciuto i lapponi, che l’inverno ce l’hanno ancora più lungo e buio e che non ne soffrono per niente, giocano, campano benissimo anche distanti da qualunque altro umano e non gli passa per la testa di suicidarsi.
Io avevo il mio tagliente coltello (Opinel) con cui svenarmi se mi rompevo una gamba, loro avevano sempre con sè ago e filo per ricucirsi se se si ferivano, per non morire dissanguati.
E’ allora che ho capito che i vichinghi, essendo arrivati in scandinavia solo poche migliaia di anni fa non avevano avuto il tempo di adattarsi a quegli ambienti, mentre i lapponi sì e che questo loro equilibrio con l’ambiente era alla base della loro serenità.
Dopo la prima settimana che camminavo da solo io avevo cominciato a parlare ad alta voce con me stesso: mi sdoppiavo in due. Ad esempio, mi dicevo: “adesso qui mi fermo e mando avanti l’esploratore”. L’esploratore ero ancora io, ma senza il mio pesante sacco.
Il lapponi non parlano da soli, loro si cantano. Il loro non è un canto a voce aperta, non ha parole. Un mormorio, tipo un solfeggio; è continuo, è un pensiero cantato. Se sei lì perpecisci direttamente il loro stato d’animo, le incertezze, le decisioni, anche se quel canto non è rivolto a te, ma soprattutto a loro stessi.
Le abitudini, i rapporti sociali, la cultura di un popolo è roba che si è evoluta in un certo ambiente. Riflettendoci, se questo cambia sarebbe strano che nient’altro vada in crisi.
Geri