La strage del Nanga Parbat

La strage del Nanga Parbat
(riformulato liberamente da wikipedia)

Il massacro del Nanga Parbat di dieci anni fa è stato un attacco terroristico avvenuto la notte del 22 giugno 2013 al campo base, versante Diamir, della nona montagna più alta della Terra, nel Gilgit-Baltistan, in Pakistan. Circa 16 militanti, vestiti con le uniformi della polizia del Gilgit-Baltistan, hanno preso d’assalto il campo base e ucciso 11 persone (10 alpinisti e un cuoco locale). Gli alpinisti provenivano da vari paesi, tra cui Ucraina, Cina, Slovacchia, Lituania e Nepal. Un cittadino cinese, presente al campo base, è riuscito a sfuggire agli aggressori.
Il Nanga Parbat nel periodo tra giugno e agosto è la meta di molti alpinisti e il campo base è normalmente visitato dai trekker, a causa delle condizioni meteorologiche ideali durante questi mesi.

Nel novembre 2013, molti degli aggressori coinvolti nell’attacco sono stati arrestati e processati ai sensi dell’Anti-Terrorist Act, sebbene la maggior parte degli arrestati sia poi stata rilasciata entro il 2014; le identità degli effettivi autori non sono mai state confermate. Secondo la commissione permanente per le relazioni estere del Senato pakistano, il movente originario dei militanti non era quello di uccidere gli alpinisti, ma di rapirli a scopo di riscatto.

Il campo base del Nanga Parbat. E’ visibile la sezione meridionale del versante Diamir.

L’attacco
Alle 22 ora locale del 22 giugno 2013, circa 16 aggressori sono entrati nel campo base e, dopo aver costretto in fila coloro che erano in quel momento presenti, hanno aperto il fuoco uccidendo 11 persone.

Secondo quanto riferito, gli aggressori avevano ottenuto accesso a questa località remota rapendo due guide pakistane. Il sito dell’attacco si trova a 4200 metri circa e può essere raggiunto solo a piedi o a cavallo. Contrariamente a quanto diffuso nelle prime ore, e cioè che una delle guide rapite era stata uccisa durante la sparatoria, mentre l’altra era stata trovata e trattenuta per essere interrogata, secondo un funzionario della polizia del Diamir, Muhammad Nabi, c’è stata generale disinformazione nei media riguardo al pakistano ucciso. Nabi ha affermato che la guida della spedizione era un nepalese di nome Sona Sherpa e non la guida pakistana come detto dai media locali.

Zhang Jingchuan

Zhang Jingchuan, alpinista cinese sopravvissuto all’assalto, ha descritto il suo calvario in una conferenza stampa tenutasi a Kunming, nella provincia cinese dello Yunnan. Ha ricordato che l’attacco è stato improvviso. Ha detto che gli hanno sparato e che un proiettile gli è volato sopra la testa. Successivamente, ha dichiarato di essere scappato iniziando a correre alla cieca verso un fossato a circa 30 metri di distanza. C’è saltato dentro ed è rimasto lì nascosto per una quarantina minuti. Dopodiché è tornato alla sua tenda, dove ha chiamato la polizia con il suo telefono satellitare. Secondo Zhang, un elicottero è arrivato nove ore dopo l’incidente, alle prime luci dell’alba, durante le quali aveva afferrato una piccozza e si era spostato fuori dal campo, in posizione più elevata. Zhang Jingchuan ha anche notato che prima di sparare agli scalatori, gli aggressori hanno raccolto i loro passaporti e hanno scattato loro delle foto.

Sher Khan, pakistano, altro scalatore presente al campo base e scampato all’attacco, ha rivelato ulteriori dettagli. Secondo il suo rapporto, i terroristi prima hanno costretto gli scalatori a consegnare denaro, telefoni satellitari e apparecchi radio, poi hanno legato loro le mani con delle corde. Dopodiché, hanno chiesto agli alpinisti di voltare la faccia nella direzione opposta e gli hanno sparato.

Sher Khan racconta: “Mentre ero in ginocchio sul prato freddo, aspettandomi di morire, alzai lo sguardo verso la parete del Diamir. La luce della luna risplendeva, argentea, attraverso le nevi. È pazzesco, ma la montagna sembrava ancora bella. Devo essermi sentito così perché non volevo morire. Mentre gli spari scoppiavano, pregavo per la vita di ognuno dei miei compagni. Solo uno di quelli presenti al campo mancava, Zhang Jingchuan, che era scappato e si era nascosto nell’oscurità. In quanto ismailita, appartengo a un ramo sciita dell’Islam, e non so perché i terroristi non mi abbiano sparato come hanno fatto con Alì Hussain. A volte, mi sento ancora come se fossi morto anch’io. Soffro di orribili flashback e cerco un modo per guarire. Ho visto la morte molto vicina e il valore della vita e del vivere“.

Gli autori si sono identificati come “al-Qaida” e “talebani”. Alcuni erano poco più che adolescenti, mentre altri avevano vent’anni, con un leader più anziano. “Gridavano Dio è grande, lunga vita all’Islam e lunga vita a Osama bin Laden“, ha ricordato Sher Khan. “Continuavano a gridare mentre se ne andavano. Ricordo uno che gridava: ‘questa è la vendetta per lo sceicco bin Laden‘”.

E’ stata la prima volta che si è verificato un attacco contro alpinisti nella regione, generalmente considerata libera dalla militanza, a parte sporadici attacchi alla minoranza musulmana sciita.

Secondo informazioni successive, i terroristi progettavano di rapire Alan (Hong-Lu) Chen (con doppia cittadinanza, cinese e americana) per scambiarlo con un comandante talebano in Afghanistan. Mentre l’attacco si svolgeva nel campo base del Nanga Parbat, pare che Chen sia uscito dalla sua tenda e abbia affrontato uno dei militanti usando tecniche di arti marziali. Il militante, di nome Mujeeb, preso dal panico gli ha sparato, distruggendo lo scopo principale della missione e facendo infuriare i comandanti terroristi. A quel punto i restanti alpinisti sono stati legati e fucilati. Gli aggressori hanno poi lasciato il campo e dopo aver camminato per cinque ore fino a un remoto villaggio hanno seppellito lì le loro uniformi e fatto colazione prima di dirigersi verso un altro villaggio e disperdersi.

Veicoli della polizia e dell’esercito hanno scortato le ambulanze che trasportavano i corpi delle vittime. Foto: Reuters

Gli autori
Il Tehrik-i-Taliban Pakistan (TTP) ha rivendicato la responsabilità dell’attacco in una dichiarazione rilasciata il 23 giugno 2013. Il gruppo ha affermato che si trattava di una rappresaglia per l’attacco di droni statunitensi che ha ucciso Wali-ur-Rehman, un comandante talebano, il 29 maggio 2013. Il portavoce del TTP, Ehsanullah Ehsan, ha dichiarato: “Con questa esecuzione abbiamo dato un messaggio alla comunità internazionale per chiedere agli Stati Uniti di fermare gli attacchi con i droni“. Un altro gruppo militante associato al TTP, Jundallah, noto per aver organizzato attacchi contro i musulmani sciiti e per il suo coinvolgimento nell’insurrezione del Beluchistan contro Iran e Pakistan, aveva precedentemente rivendicato la responsabilità.

Elenco delle vittime nel massacro
Yang Chun-Feng, alpinista cinese, 45 anni, ha scalato due volte l’Everest (2007 e 2009), il Cho Oyu nel 2008, il Manaslu nel 2009, il Dhaulagiri I nel 2010, il Kangchenjunga, il Gasherbrum II e il Gasherbrum I nel 2011, l’Annapurna I (contestato), il Lhotse e il K2 nel 2012 e il Makalu nel 2013.
Rao Jian-Feng, alpinista cinese, 49 anni, ha salito il Cho Oyu nel 2004, l’Everest nel 2006, il Dhaulagiri I e il Manaslu nel 2010, il Kangchenjunga nel 2011 e l’Annapurna I (contestato), il Makalu, il Lhotse e il K2 nel 2012.
Alan (Hong-Lu) Chen, alpinista americano/cinese, 50 anni, ha scalato l’Everest nel 2009.
Igor Svergun, alpinista ucraino di Kharkiv, 47 anni, ha scalato il Manaslu nel 1991, il Dhaulagiri I nel 1994, l’Annapurna I nel 1996, il Cho Oyu nel 2004 e due volte l’Everest (2005 e 2006).
Dmitro Konyaev, alpinista ucraino di Kharkiv, 43 anni.
Badavi Kashaev, alpinista ucraino di Kharkiv, 54 anni.
Anton Dobeš, alpinista e politico slovacco, 50 anni, è salito sul Cho Oyu nel 2009.
Peter Šperka, alpinista slovacco, 57 anni, ha salito lo Shisha Pangma nel 1996, il Manaslu nel 1997, l’anticima del Broad Peak nel 2006 e il Cho Oyu nel 2009.
Ernestas Markšaitis, alpinista lituano, 44 anni, è salito sul Broad Peak nel 2012 in solitaria.
Sona Sherpa, alpinista nepalese, 35 anni, nel 2009 ha scalato il Makalu e il Nanga Parbat, nel 2012 il K2 e tre volte l’Everest (2010, 2012 e 2013).
Alì Hussain, cuoco pakistano, non una guida come si pensava in precedenza, 28 anni.

Ernestas Markšaitis (a sinistra) e l’amico Fredric Strang al Broad Peak
Igor Svergun

Indagini e arresti
In seguito all’incidente, il ministro dell’interno del Pakistan, Nisar Alì Khan, ha sospeso l’ispettore generale della polizia (IGP) e il segretario-capo del Gilgit-Baltistan per non aver saputo garantire una sicurezza efficace. Ha inoltre dichiarato l’apertura di un’inchiesta.

Il giorno dopo l’attacco, lo stesso Nisar ha detto all’Assemblea nazionale del Pakistan che una commissione investigativa composta dal capo di Stato Maggiore dell’Esercito (Ashfaq Parvez Kayani), dal direttore generale dell’ISI (Zaheerul Islam), da rappresentanti di altre agenzie di intelligence e da funzionari della polizia del Gilgit-Baltistan era stata formata per indagare sull’incidente. Nel distretto di Diamir si era formata anche riunita la jirga locale, cioè l’assemblea dei capi di etnia pashtun che normalmente dirime ogni questione.

Immediatamente dopo l’inizio delle indagini, 37 sospetti sono stati arrestati nei villaggi circostanti il ​​luogo dell’attacco. Tuttavia, l’IGP Zakaria in seguito ha affermato che 33 di loro erano soltanto portatori che avevano fornito informazioni importanti sull’attacco. Alla fine tutti e 37 sono stati rilasciati dopo l’interrogatorio.

Quattro giorni dopo l’incidente si è avuta una svolta significativa, quando tutti i 16 aggressori sono stati identificati. Secondo il capo della polizia, Zakaria, l’aiuto della locale jirga è stato determinante. I volontari scelti dalla jirga sono stati portati in varie valli adiacenti e poi prelevati per un debriefing a Chilas. Il capo della polizia ha inoltre affermato che tutti gli aggressori erano locali: 10 appartenenti al distretto di Diamir, tre del Mansehra e tre del Kohistan. I dieci residenti nel Diamir sono stati identificati come Hidayat Ullah, Shafiqullah, Qari Rafaqat, Sana Ullah, Malik Nijad, Azizullah, Mahfoozul Haq, Mujeed, Shafi Muhammad e Hazrat Oman. Il segretario capo del Gilgit-Baltistan, Munir Badini, pur esitante nel collegarli ai talebani pakistani, ha tuttavia confermato che, dai rapporti che ha ricevuto, gli aggressori erano stati addestrati nelle Fata (Federal Administration Tribal Areas), un luogo a 760 km a valle, focolaio di estremismo al confine con l’Afghanistan.

Il 30 giugno 2013, una settimana dopo l’aggressione, il vice ispettore generale della polizia del Gilgit-Baltistan, Alì Sher, ha riferito ai media che uno degli aggressori, Shafi Muhammad, era stato arrestato in una casa di Chilas. Ha detto che l’uomo si era rifugiato lì subito dopo l’attacco e arrestarlo era stato molto importante per la risoluzione del caso. Un altro aggressore, Shafiqullah, era stato arrestato più tardi, lo stesso giorno.

Il 6 luglio 2013, la polizia ha arrestato un altro uomo di Chilas ritenuto coinvolto nella sparatoria. Sher, in una conferenza stampa, ha dichiarato che gli sforzi per arrestare tutti gli autori si erano intensificati e che nei prossimi giorni avrebbero avuto luogo altri arresti. 

Soldato di guardia al campo base del Nanga Parbat, 24 giugno 2013

E infatti il 15 luglio 2013 il numero degli arrestati è arrivato a quattro. L’identità del quarto colpevole non è stata rivelata. La commissione permanente per le relazioni estere del Senato ha convocato una riunione speciale per ottenere un aggiornamento dalle autorità del Gilgit-Baltistan sullo stato di avanzamento delle indagini. Il presidente della commissione del Senato, Haji Mohammad Adeel, si è detto preoccupato per l’assenza di progressi tangibili nell’assicurare i colpevoli alla giustizia. Il segretario capo del Gilgit-Baltistan, Mohammad Younus Dhaga, ha informato sull’attacco al Nanga Parbat la commissione permanente del Senato per le relazioni estere affermando che “era inaspettato che dei turisti stranieri sarebbero stati presi di mira nell’area, dal momento che nessun turista è stato ucciso in quei luoghi dal 1854“. Haji Mohammad Adeel, che non era d’accordo, ha ribattuto: “Nessun attacco viene effettuato rendendo pubblico il piano…”.

Il 7 agosto 2013, i talebani hanno ucciso tre funzionari della sicurezza che stavano indagando sul massacro del Nanga Parbat. Uomini armati hanno aperto il fuoco contro il veicolo degli agenti a Chilas, nel distretto di Diamir, mentre rientrava dall’abitazione del vice commissario. Gli ufficiali che sono stati uccisi includevano un ufficiale di polizia, il sovrintendente Hilal Ahmed, che guidava il veicolo, il capitano Ashfaq Aziz e il colonnello Ghulam Mustafa. Gli ultimi due appartenevano all’esercito pakistano ed erano responsabili della sicurezza interna del distretto.

La morte di ufficiali dell’esercito ha costretto l’esercito pakistano a entrare nel distretto per la prima volta dall’incidente. L’esercito ha condotto un’operazione mirata in quattro località a Chilas, mentre i punti di entrata e uscita dalla città sono stati sigillati e gli elicotteri sorvegliavano dall’alto. Le operazioni sono durate fino a tarda sera dell’11 agosto 2013. Di conseguenza, un numero imprecisato di sospetti è stato arrestato.

Il 19 agosto 2013, è stato riferito che tutti i 20 uomini che si supponeva fossero dietro l’attacco al Nanga Parbat erano stati arrestati. La serie di arresti è iniziata con un’operazione dell’esercito all’inizio della settimana e si è conclusa con un’operazione mirata della polizia nei presunti nascondigli di questi militanti. Secondo il nuovo SP del distretto di Diamir, Muhammad Navid, i militanti arrestati erano anche responsabili del massacro sciita del Kohistan del febbraio 2012, in cui sono stati uccisi 18 musulmani sciiti. Navid ha inoltre affermato che le agenzie di intelligence hanno svolto un ruolo fondamentale negli arresti e che ulteriori informazioni sarebbero state rilasciate entro un paio di giorni.

Il segretario capo del Gilgit-Baltistan, Younis Dagha, ha annunciato che tra gli arrestati il ​​19 agosto 2013 vi era il terrorista Qaribullah (“Hasan”), ex leader pakistano Tehreek-e-Taliban dell’unità Chilas, che potrebbe essere stato la mente dell’attacco al Nanga Parbat, così come M Nabi (Qari Husnain) era il sospettato numero 1 dell’omicidio dei funzionari governativi del 7 agosto 2013.

Il versante Diamir del nanga Parbat, dal campo base.

A giugno 2014, cinque dei 18 sospetti detenuti erano ancora in custodia. Tuttavia diverse fonti affermano che solo uno di loro era davvero coinvolto nell’attacco, mentre gli altri erano stati costretti a confessare. Mujeeb intanto era rimasto nascosto nei boschi del distretto, dove, di tanto in tanto, faceva registrazioni audio di poesie militanti che venivano poi distribuite nei mercati di Gilgit. Secondo Bashir Qureshi, un membro della squadra negoziale incaricata di stanare i colpevoli dai loro nascondigli, c’erano molte aree grigie nel caso. “Niente è chiaro, hanno confuso quattro casi diversi per dare l’impressione che tutti i colpevoli siano stati arrestati ma i veri colpevoli sono ancora latitanti“, ha detto.

Il 27 febbraio 2015, quattro detenuti hanno tentato di evadere dal carcere del distretto di Gilgit. Dei due che sono riusciti a fuggire, uno sarebbe stato coinvolto nell’attacco del Nanga Parbat. Le agenzie di sicurezza hanno avviato un’operazione per catturare i fuggitivi, ma al 4 marzo 2015 i detenuti fuggiti non erano stati ancora catturati. Una ricompensa di due milioni di rupie è stata promessa dal ministro degli interni del Gilgit-Baltistan, Sibtain Ahmed, per le persone che potevano aiutare le autorità a catturare Habib-ur-Rehman, il detenuto evaso, presumibilmente coinvolto nel massacro del Nanga Parbat.

Il 26 marzo 2016 Raheel Sharif, generale dell’esercito pakistano, ha confermato la pena di morte per il terrorista che nel 2013 ha preso parte al massacro.

Il racconto di tre alpinisti polacchi
di Boguslaw Magrel
(pubblicato su mountainblog.it il 28 giugno 2013)

Tre alpinisti del club alpino polacco, Boguslaw Magrel, Wlodek Kierus e Adam Stadnik, hanno raccontato sul loro sito web i dettagli della loro esperienza a proposito del massacro avvenuto al Nanga Parbat. I tre si trovavano sulla montagna quando l’attacco è avvenuto. Boguslaw Magrel descrive i fatti dalla sua prospettiva e ovviamente consiglia gli alpinisti di stare ben lontani dal Pakistan in quel momento.

Il post originale è pubblicato su nanga2013.blogspot.

“Ciao, è molto difficile trovare le parole per descrivere quello che è successo a noi, ma penso che la questione sia talmente grave che è necessario parlarne apertamente e con fermezza.

Come sapete, il 6 giugno abbiamo fatto un viaggio in Pakistan, dove l’obiettivo era quello di scalare il Nanga Parbat. Ci siamo registrati al campo base del Diamir il 10 giugno. Il giorno dopo siamo andati su per la montagna, dove abbiamo allestito il Campo 1 a 4800 metri, un campo intermedio a 5300, poi un secondo campo a 6000 m.

Abbiamo incontrato forti squadre provenienti da Pakistan, Ucraina, un team internazionale composto da alpinisti provenienti da Russia, Polonia, Lettonia, Lituania, Azerbaijan, un altro team di alpinisti ucraino-slovacco, in più uno sherpa con i clienti provenienti dalla Cina e uno scalatore dalla Turchia. In totale, circa 50 alpinisti.

Poi abbiamo avuto una grande sventura. Il nostro campo base al Nanga Parbat è stato assalito nella notte di giugno da 22/23 uomini armati che hanno affermato di essere talebani. Il campo era circondato; tutti gli alpinisti sono stati trascinati fuori dalle loro tende, legati, derubati e poi uccisi.

I talebani, delusi per non aver trovato americani, hanno dichiarato che si è trattato di una vendetta per l’uccisione di Osama bin Laden. In questo crimine orribile 11 persone hanno perso la vita, tra cui molti alpinisti di spicco.

I restanti alpinisti sono riusciti a sfuggire alla morte poiché nei campi superiori.

Abbiamo appreso la tragedia dal solo alpinista che è riuscito a fuggire dal campo. Durante il tentativo di fuga, il nostro amico cinese è stato colpito all’orecchio, ma per telefono satellitare è stato in grado di dare la notizia all’agenzia nepalese, che poi ha avvisato Nazir Sabir in Pakistan. Il celebre scalatore ha immediatamente informato l’esercito pakistano, che ha inviato elicotteri al campo base. I soldati che controllavano l’area ci hanno ordinato di tornare immediatamente alla base.

La sera tutti gli scalatori hanno raggiunto il campo base, ma quella notte, nessuno ha dormito.

Al mattino tre elicotteri sorvolavano la zona, tra cui un Mi-8, che ci ha evacuato a Gilgit. Da lì un aereo Hercules militare ci ha portati a Islamabad.

La nostra spedizione era finita. Attualmente stiamo cercando di riavere la nostra attrezzatura, che è rimasta al campo base, per tornare in Polonia. Purtroppo, non è semplice. Le agenzie pakistane lasciano molto a desiderare. Anche l’appoggio del governo è molto debole.

Chiunque abbia intenzione di scalare una montagna in Pakistan dovrebbe ripensare ai suoi piani, perché i talebani hanno ufficialmente informato che i turisti saranno mira di ulteriori attacchi. Va inoltre osservato che si tratta di un completo cambiamento delle attività terroristiche, che finora non erano mai state rivolte contro turisti stranieri.

Dal nostro punto di vista riteniamo che le agenzie locali non siano in grado di garantire la sicurezza dei propri clienti.

Fare un viaggio in Pakistan in questo momento è molto più di una “roulette russa”…

The sharp end
di Katie Ives
(pubblicato su alpinist.com il 7 ottobre 2013)
Avevano un’età compresa tra i ventotto e i cinquantasette anni. Sebbene ognuno di loro abbia trascorso anni su alte vette e pareti, la loro individualità non può essere riassunta in semplici statistiche su vette scalate o su gradi raggiunti. Dietro i loro nomi si nascondono infiniti mondi di ricordi e desideri, di sogni realizzati e irrealizzati. Tutti loro avevano trovato lotta e gioia nell’esistenza. Tutti loro avevano cercato significato e bellezza nelle montagne. Tutti erano amati.

Messi insieme, i frammenti delle loro storie creano un mosaico di umanità, tremolante di riflessi su chi erano loro e chi siamo noi. Fermarsi e ricordare ciascuno di essi, uno per uno, è vedere scorci del valore infinito e singolare di ogni vita umana.

Alì Hussain. Foto: Collezione Dave Watson

Alì Hussain aveva vissuto in una piccola casa fatta di argilla e pietra, vicino alle grandi vette della Charakusa Valley del Gilgit-Baltistan. Non potendo permettersi un’istruzione scolastica, aveva aiutato suo padre a coltivare il grano e ad allevare il bestiame. Verso la fine dei trent’anni, come portatore e cuoco, aveva guadagnato abbastanza soldi per contribuire a una scuola locale. Sperava di avviare un’azienda di guida e di offrire una vita più confortevole alla sua famiglia allargata, a sua moglie e ai loro tre figli. Un amico americano, Dave Watson, che aveva tentato il K2 con lui nel 2009, ricorda con quanta naturalezza Alì scorreva lungo il ripido Camino House, la prima volta sopra i 6000 metri, e come iniziava a ballare ogni volta che qualcuno suonava musica. Durante i gelidi inverni del Karakoram, nei rari momenti di tempo libero, Alì amava sciare sulle scintillanti colline sopra il villaggio di Hushe. I terroristi hanno deciso di ucciderlo perché era un musulmano sciita che praticava un’altra forma di Islam rispetto a loro. “Ha lavorato come essere umano per la sua società”, dice suo cugino Alì Khan.

Nato a Solu Khumbu in Nepal, Sona Sherpa aveva anche lavorato in montagna per sostenere la sua famiglia, scalando tre volte l’Everest e molte altre vette di 8000 metri. Un uomo tranquillo e premuroso, si sforzava di prendersi cura di tutti, dai suoi clienti ai suoi genitori anziani. “Da quando suo fratello maggiore è morto”, dice suo fratello, “tutte le responsabilità sono ricadute sulle spalle di Sona Sherpa”. Sua moglie, Doma Sherpa, ha chiesto al giornalista nepalese Kamal Pariyar: “Come posso soddisfare il suo desiderio di fornire [ai nostri figli] un’istruzione migliore?” Sua madre ha detto: “È come un brutto sogno… Ho sentito che alcuni terroristi hanno ucciso mio figlio, ma non era un uomo politico. Era solo un brav’uomo, che aiutava gli alpinisti” (MyRepublica.com).

Sona Sherpa. Foto: Ang Tshering.

Tredici anni fa, nella provincia cinese dello Xinjiang, Yang Chung-Feng aveva scalato i ripidi e nevosi pendii del Bogda Peak, completando una delle prime scalate cinesi di quella montagna in stile alpino, con ramponi e attrezzi da ghiaccio fatti in casa. Il suo vicino di Chengdu, Yong Liu, ricorda come Yang desiderasse “sentire il cuore della natura”. In qualità di capo spedizione, Yang ha lottato per coprire i suoi conti, ma pagava una pensione annuale ai figli dei compagni di spedizione morti al Dhaulagiri. Nei campi himalayani, tra un tentativo e l’altro, si sedeva per ore fumando la pipa e spiegando l’arte del Pu’er , un tè scuro e fermentato. “Yang è nato per le montagne innevate”, ha scritto il suo da lungo tempo compagno di scalata Wang Tienan, “e la sua anima dovrebbe tornare da loro” (Xjdiscovery.blog.sohu.com).

Rao Jiang-Feng aveva un gentile senso dell’umorismo. “[Le sue battute] iniziavano sempre con qualcosa che si perdeva nella traduzione”, racconta il suo amico Fabrice Imparato, “e alla fine ridevamo tutti a crepapelle”. Rao lavorava in una società immobiliare a Shenzhen, una città piovosa e di grattacielo sul Mar Cinese Meridionale. “Montagne innevate non significavano solo ‘arrampicata e sfide’”, ha spiegato sua figlia Rao Zijun. “Hanno rappresentato la Terra Pura per la sua auto-coltivazione e la Terra Santa per la sua scoperta di sé”. Il suo spirito, ha scritto, rimarrà nei suoi cari: “Ha cessato di esistere, quindi è ovunque” (8624.com).

Hong-Lu Chen. Foto: Xiao Yua.

La curiosità intellettuale ha guidato le migrazioni di Hong-Lu Chen. Dopo essersi laureato in ingegneria elettrica presso la Tsinghua University, una delle migliori scuole cinesi, ha lavorato per un po’ in California; poi è tornato a Shanghai. Tra una scalata e l’altra, suonava il pianoforte e leggeva riviste scientifiche, sognando di studiare fisica in America una volta andato in pensione. Disse al suo amico Xiao Yuan che ogni volta che immaginava di morire su una montagna innevata, pensava che un simile finale potesse essere “puro e pulito”. Aveva quattro figli. Sua moglie spera che venga ricordato come “un perfetto marito e padre”.

Quando Peter Šperka era un ragazzo, i suoi genitori lo portarono al castello di Saris vicino a Prešov, in Slovacchia, e mentre il resto della famiglia prendeva il sentiero su per la collina, lui si arrampicava sulle rocce per raggiungere le rovine erbose. “Era un bambino vivace”, hanno detto i suoi genitori a Cas.sk. “Arrampicava sempre su qualcosa”. La sua compagna di vita, Zosia Bachleda, dice che desiderava diventare un soccorritore alpino e una guida da quando aveva nove anni . Entrambi i desideri si sono avverati. Per trent’anni ha fatto spedizioni in tutto il mondo, insegnando ai suoi clienti il ​​senso di responsabilità e un più acuto apprezzamento della natura. Tornava a casa, ogni volta, con nuove spezie per la sua cucina. Aveva cinque figlie, la più piccola di dieci anni.

Peter Šperka. Foto: Collezione Zosia Bachleda.

“Essere nel posto giusto al momento giusto”, diceva Anton Dobeš a sua moglie Daniela, quando parlava di arrampicata. Sembrava sempre sapere quando ritirarsi prima che le condizioni diventassero troppo pericolose; era sempre disposto a rinunciare a un vertice per aiutare uno sconosciuto o un amico. Gli piaceva cantare una canzone popolare: “Alpinista, alpinista, non sei triste?” Diceva alle sue due figlie: “Le cose accadono nel modo in cui sono impostate nella tua mente”. Nel loro villaggio di Uhrovec, tra le scoscese colline di Strážov, i suoi figli ascoltano ancora il suono del cancello che si apre, lo scalpiccio dei piedi frettolosi dei suoi cani. Le sue collezioni riempiono la casa; aveva comprato libri più velocemente di quanto potesse leggerli. “Ma credeva che sarebbe arrivato il momento”, dice Daniela, “per lui di leggerli tutti”.

Ad agosto, dopo la morte di Igor Svergun, la sua famiglia si trovava sulla cima dell’Elbrus, a contemplare i prati argentati dal vento dove avevano viaggiato insieme nelle ultime sei estati. Uno dei più forti alpinisti ucraini, Igor aveva scalato molte delle vette più alte del mondo, inclusa una salita in stile alpino del Manaslu, ma amava organizzare piccole avventure per suo figlio e altri bambini. La sera suonava la chitarra, sorridendo nel buio. Si sentiva protettivo verso tutto, anche le piante. “Siamo ospiti della natura”, ha detto a sua moglie, Tamara. “Se qualcuno del genere se n’è andato”, ha scritto il suo compagno di cordata Sergey Bershov, “la sua assenza forma un tale vuoto, lascia così tanto vuoto” (4sport.ua). Tamara dice: “Ricordiamo Igor. È sempre con noi”.

Igor Svergun. Foto: Collezione Tamara Svergun.

“Voglio scalare le montagne”, ha detto Badavi Kashaev a Sergey Bershov quando si sono incontrati per la prima volta all’Accademia statale di cultura fisica a Kharkov, in Ucraina. Badavi era già di mezza età, allora, e aveva un figlio adulto. Eppure ha adottato un approccio metodico a tutto e si è allenato duramente fino a quando non ha potuto accompagnare Sergey all’Island Peak e all’Ama Dablam. Mentre i paesaggi alpini diventavano una fonte di appassionata vita interiore, Badavi fece il percorso di pellegrinaggio attorno al Monte Kailash, oltre i laghi turchesi e le valli pietrose, sotto la sua luminosa mezza sfera di neve (4sport.ua).

Il sorriso di Dmitry Konyaev sembrava far tremare l’aria intorno a lui. Padre di due bambini piccoli, aveva un dottorato in chimica (4sport.ua). Oltre alle scalate invernali dell’Elbrus, lui e Alexander Zakolodny avevano aperto una nuova via in Crimea, su un lungo contrafforte arcuato di pietra grigia e color ruggine. In una foto vicino alla vetta, Dmitry si sporge in avanti alla sosta, come se fosse colto da una visione. Un filo di nuvole scorre dietro la sua testa. Oltre il profilo della costa, il Mar Nero si fonde con un cielo pallido. Dmitry non voleva essere uno scalatore professionista, dice Alexander; gli piaceva solo correre nei boschi e arrampicare.

Ernestas Markšaitis è cresciuto tra le verdi pianure e le basse colline della Lituania, lontano dalle grandi vette. Cercando di trascorrere più tempo possibile in quota, ha lasciato il suo lavoro alla dogana per diventare un operaio industriale con funi. Durante le vacanze, si è avventurato a quote sempre più elevate fino a quando non ha salito in solitaria il Broad Peak nel 2012. Gli amici ricordano le sue parole gentili e stuzzicanti, il suo flusso infinito di consigli e battute. Gennady Kirievesky ricorda i suoi “giovani occhi” (Mountain.ru). Il giorno prima della sua morte, Ernestas aveva aiutato il personale pakistano a pulire la cucina del campo base. Quando i sopravvissuti hanno raccolto le sue cose, hanno trovato i suoi libri di testo in urdu nella sua tenda.

Uno per uno, i morti sono stati identificati, posti in bare di pino e riportati nei loro paesi. Il 29 giugno 2013, il membro della spedizione Saulius Damulevicius ha guidato con la bara di Ernestas per trenta ore dall’aeroporto di Kharkov a Vilnius, in Lituania, dove aspettavano le due figlie di Ernestas. “Lì, su una piccola collina del cimitero, Ernestas ha finalmente trovato la sua pace”, dice Saulius, “avrei potuto scegliere un altro mezzo di viaggio, ma credo che gli scalatori debbano sempre tornare dalle montagne insieme”.

NEI GIORNI DOPO GLI ATTACCHI, migliaia di guide, portatori, alpinisti e attivisti pakistani hanno manifestato a Chilas, Gilgit, Skardu e Islamabad, chiedendo al loro governo di agire contro il terrorismo. Molti hanno visto gli omicidi come un assalto all’economia dipendente dal turismo del Gilgit-Baltistan e a una visione della regione come parte di una comunità internazionale. L’alpinista Nazir Sabir ha dichiarato: “Non solo hanno ucciso undici persone disarmate e innocenti, ma hanno effettivamente ucciso tutti noi, le persone amanti della pace in tutto il Pakistan …. Ci schiereremo insieme contro questa barbarie e questo terrore“. 

La strage del Nanga Parbat ultima modifica: 2023-06-22T05:46:00+02:00 da GognaBlog

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3 pensieri su “La strage del Nanga Parbat”

  1. Sono commossa dalle storie di queste persone innocenti, vittime del fanatismo.
    Erano persone che amavano la bellezza della natura. Ucciderle è stata un’azione orribile.

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